INTERPRETAZIONE DEI SOGNI

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Parlerò dell’interpretazione dei sogni attraverso i brani dei due maggiori studiosi del fenomeno: Freud e Jung

“I sogni sono sconnessi, accettano le più violente contraddizioni senza la minima obiezione, ammettono cose impossibili, ignorano le nozioni che hanno grande peso per noi durante il giorno, ci rivelano come degli imbecilli etici e morali. Chiunque si comportasse da sveglio come nelle situazioni dei sogni, sarebbe considerato un pazzo; chiunque parlasse da sveglio come la gente parla nei sogni, o descrivesse le cose che succedono nei sogni, ci darebbe l’impressione di essere una persona confusa o un debole di mente. L’assurdità delle associazioni di rappresentazioni che si verificano nei sogni potrebbe difficilmente essere criticata più acutamente di quanto abbia fatto Cicerone (De Divinatione): Nulla di tanto disordinato, di tanto insensato, di tanto mostruoso si può pensare, che non possiamo sognare”.

“. ..Fu nel corso degli studi psicoanalitici che m’imbattei nell’interpretazione dei sogni. I miei pazienti erano impegnati a comunicarmi ogni idea o pensiero che venisse loro in mente in relazione a qualche particolare argomento; tra le altre cose mi raccontavano i loro sogni e così mi insegnarono che un sogno può essere inserito nella catena psichica che deve essere ricostruita nella memoria a partire da un’idea patologica. Allora fu solo un passo breve quello che mi portò a considerare il sogno stesso come un sintomo e ad applicare ai sogni il metodo di interpretazione che era stato elaborato per i sintomi. Ciò implica una preparazione psicologica del paziente: dobbiamo mirare a produrre in lui due mutamenti, cioè un aumento dell’attenzione per le proprie percezioni psichiche e l’eliminazione della critica che generalmente veglia i pensieri che gli vengono. Affinché egli possa concentrarsi sull’autosservazione, è utile che egli si distenda in una posizione riposante e chiuda gli occhi….Egli deve adottare un atteggiamento completamente imparziale di fronte a ciò che gli viene in mente, poiché è proprio la sua critica che lo rende incapace di raggiungere l’auspicata spiegazione del suo sogno o dell’idea ossessiva o di qualunque cosa possa essere. Ho notato nel mio lavoro psicoanalitico che lo stato psichico di un uomo che riflette è totalmente differente da quello di un uomo che osserva i propri processi psichici. In entrambi i casi bisogna concentrare l’attenzione, ma l’uomo che riflette esercita anche la sua facoltà critica ; ciò lo porta a respingere alcune delle idee che gli vengono in mente dopo averle percepite, a interrompere delle altre senza seguire le serie di pensieri che gli avrebbero aperto, e a comportarsi nei confronti di altre idee in modo tale che esse non diventano affatto coscienti e sono quindi represse prima di essere percepite. L’autosservatore, invece, deve solo prendersi il fastidio di reprimere la sua facoltà critica. Se ci riesce affiorano alla sua coscienza numerose idee che altrimenti non avrebbe mai afferrato. Il materiale ottenuto in questo modo per l’autosservazione rende possibile l’interpretazione delle sue idee patologiche e delle creazioni dei suoi sogni….Io stesso posso farlo perfettamente, aiutandomi con lo scrivere le idee che mi vengono in mente…Il primo passo nell’impiego di questo procedimento ci insegna che dobbiamo prendere come oggetto della nostra attenzione non il sogno nel suo insieme, ma parti separate del suo contenuto. Quindi il mio metodo dell’interpretazione dei sogni differisce già sotto questo aspetto dal metodo popolare e leggendario dell’interpretazione attraverso il simbolismo e si avvicina al secondo o metodo di “decifrazione”. Come quest’ultimo, esso impiega l’interpretazione en detail e non en masse ; come questo ancora, considera i sogni dal principio come qualcosa di composito, un conglomerato di formazioni psichiche. Nel corso delle mie psicoanalisi di nevrotici devo aver già analizzato più di un migliaio di sogni; ma non intendo servirmi di questo materiale per l’introduzione alla tecnica e alla teoria dell’interpretazione dei sogni. E così devo rivolgermi ai miei propri sogni, che offrono un materiale adeguato e ricco, derivante da una persona approssivamente normale e riferentesi a molteplici occasioni della vita quotidiana. Naturalmente ci saranno dei dubbi sulla fondatezza da ” autoanalisi “di questa specie; e mi si dirà che lasciano la porta aperta a conclusioni arbitrarie. Secondo me la situazione è veramente più favorevole nel caso di autosservazione che nell’osservazione di altre persone; comunque si può fare la prova e vedere fino a che punto ci porta l’autoanalisi nell’interpretazione dei sogni…

Procederò quindi nella scelta di uno dei miei sogni e dimostrerò su di esso il mio metodo di interpretazione. Nel caso di ognuno di questi sogni sarà necessaria qualche osservazione introduttiva. Ed ora devo chiedere al lettore di fare suoi i miei interessi per un po’ di tempo e di immergersi con me nei più minuti dettagli della mia vita; infatti una trasposizione di questa specie è richiesta necessariamente dal nostro interesse per il significato nascosto dei sogni.

In questa casa il 24 luglio 1895 al Dr Sigm. Freud si rivelò il segreto del sogno.”
Premessa
Durante l’estate del 1895 avevo curato con la psicoanalisi una giovane signora che era in rapporti di amicizia con me e la mia famiglia. Si può prontamente comprendere come una relazione mista di questo genere possa essere fonte di molti turbamenti per un medico e in particolare per uno psicoterapeuta. Mentre l’interesse personale del medico è grande, la sua autorità è minore; qualsiasi fallimento sarebbe una minaccia per l’antica amicizia con la famiglia del paziente. Questa cura era finita con un successo parziale; la paziente era guarita della sua angoscia isterica, ma non aveva perso tutti i suoi sintomi somatici del processo isterico, e proposi alla paziente una soluzione che sembrava non voler accettare. Mentre eravamo così in disaccordo, avevamo interrotto la cura per le vacanze estive. Un giorno venne a trovarmi un collega più giovane, uno dei miei più cari amici, che era stato con la mia paziente, IRMA, e la sua famiglia nel luogo dove villeggiavamo. Gli chiesi come l’avesse trovata ed egli rispose: “Sta meglio, ma non completamente bene”. So che le parole del mio amico Otto, o il tono con il quale aveva parlato, mi irritarono. Immaginai di sentire in esse un rimprovero, perchè avevo promesso troppo alla paziente; e, a torto o a ragione, attribuii la presunta posizione di Otto contro di me all’influenza dei parenti della mia paziente, che, mi sembrava, non erano mai stati favorevoli alla cura. Comunque la mia impressione sgradevole non mi era chiara e non ne detti alcun segno esteriore. La sera stessa scrissi la cartella clinica di Irma con l’intenzione di darla al dottor M. (un comune amico che era allora il principale esponente del nostro gruppo) per giustificarmi. Quella notte (o probabilmente la mattina dopo) feci il seguente sogno che trascrissi subito dopo il risveglio.
Sogno del 23-24 luglio 1895
Un grande salone-stavamo ricevendo numerosi ospiti. Tra di essi c’era Irma.Io la presi in disparte, come per rispondere alla sua lettera e rimproverarla di non aver ancora accettato la mia “soluzione”. Le dissi: “Se hai ancora dei dolori è davvero solo colpa tua”. Mi rispose: “Se solo tu sapessi che dolori ho ora in gola, nello stomaco e nel ventre, mi soffocano”. Io mi spaventai e la guardai. Era pallida e gonfia. Pensai che dopo tutto dovevo aver trascurato qualche disturbo organico. La portai vicino alla finestra e la guardai la gola, e lei mostrò una certa riluttanza, come le donne con la dentiera. Io pensai che veramente non c’era bisogno di farlo. Poi le aprì bene la bocca e sulla destra trovai una grande macchia bianca; in un altro punto vidi delle estese croste grigiastre su delle forme notevolmente incurvate, che imitavano evidentemente le cavità nasali. Chiamai subito il dottor M. ed egli ripeté l’esame e lo confermò…Il dottor M. sembrava molto diverso dal solito, era pallido, zoppicava e non aveva la barba…Anche il mio amico Otto era ora vicino a lei, e il mio amico Leopoldo stava percuotendo il suo petto e diceva: “Ha un’area ottusa in basso a sinistra”. Indicò anche che una parte della pelle sulla spalla sinistra era infiltrata (lo sentii come lui, nonostante il vestito) …M. disse: “Non c’è dubbio si tratta di un ‘infezione, ma non importa; interverrà la dissenteria e le tossine saranno eliminate”… Noi conoscevamo subito anche l’origine dell’infezione. Non molto prima, quando lei si sentiva poco bene, il mio amico Otto le aveva fatto un’iniezione di propile…propili…acido propionico…trimetilammina (e vidi davanti a me la formula stampata in grassetto) …Iniezioni di quel genere non si dovrebbero fare così sconsideratamente… E probabilmente la siringa non era pulita.
Questo sogno ha un vantaggio su molti altri. Era immediatamente chiaro che il punto di partenza era stato fornito dagli eventi del giorno precedente. La mia premessa lo dimostra. Le informazioni che mi aveva dato Otto sulle condizioni di Irma e la cartella clinica che mi aveva impegnato fino a notte tarda, avevano continuato ad occupare la mia attività mentale durante il sonno. Tuttavia chiunque avesse letto solo la premessa e il contenuto del sogno non potrebbe avere la minima idea del significato del sogno. Io stesso non ne avevo idea. Ero meravigliato dei sintomi che Irma lamentava nel sogno, poiché non erano gli stessi per i quali l’avevo curata. Sorrisi all’idea insensata di un’iniezione di acido propionico e alle riflessioni consolanti del dottor M. Verso la fine del sogno mi sembrava più oscuro e complesso che al principio. Per scoprire il significato di tutto questo era necessario intraprendere un’analisi dettagliata.
ANALISI – Il salone-stavamo ricevendo molti ospiti. Stavamo passando quell’estate a Bellevue, una casa isolata su una delle colline che si ricongiungono al Kahlenberg. La casa era stata in un primo tempo progettata come luogo di trattenimento e le stanze da ricevimento erano quindi insolitamente alte e a forma di grandi saloni. Era a Bellevue che avevo fatto il sogno, pochi giorni prima del compleanno di mia moglie. Il giorno precedente mia moglie mi aveva detto di aver invitato degli amici, tra cui Irma, per il suo compleanno. Il mio sogno, dunque, aveva anticipato questa occasione: era il compleanno di mia moglie e stavamo ricevendo degli ospiti, Irma inclusa, nel grande salone di Bellevue. Rimproverai Irma per non aver accettato al mia soluzione; dissi: “Se hai ancora dei dolori, è colpa tua “. Potrei averle detto questo da sveglio e probabilmente l’ho fatto davvero. A quei tempi ero dell’opinione (anche se poi l’ho riconosciuta sbagliata) che il mio compito fosse terminato dopo aver informato il paziente del significato nascosto dei suoi sintomi: ritenevo di non essere responsabile se egli accettava o meno la soluzione, anche se da questo dipendeva il successo. Devo a quest’errore, che fortunatamente ora ho corretto, se la mia vita era resa più facile nel tempo in cui, nonostante la mia inevitabile ignoranza, ci si aspettava che io avessi dei successi terapeutici. Notai comunque che le parole che avevo detto a Irma nel sogno mostravano che ero particolarmente ansioso di non essere responsabile per i dolori che Irma aveva ancora…

Sigmund Freud

“. la vera e propria interpretazione del sogno, è di regola un compito arduo. Essa presuppone penetrazione psicologica, capacità di combinare insieme cose diverse, intuizione, conoscenza del mondo e degli uomini e soprattutto conoscenze specifiche che implicano tanto nozioni assai estese quanto una certa “intelligence du coeur”. (.) Bisogna respingere l’interpretazione stereotipa di motivi onirici; gli unici giustificati sono significati specifici, deducibili attraverso accurati rilevamenti contestuali. Anche chi possiede una grande esperienza in questo settore è pur sempre costretto a riconoscere la propria ignoranza dinanzi ad ogni sogno e, rinunciando a tutte le opinioni preconcette, a predisporsi a un qualcosa di completamente inatteso.(…)” Jung

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

L’ENNEAGRAMMA

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L’enneagramma, antico mezzo di conoscenza di sè e di evoluzione spirituale, pare sia nato in Persia più di duemila anni fa, dove era usato come percorso iniziatico dai maestri Sufi. É uno strumento che aiuta a fare verità su se stessi: da una parte ci rende consapevoli della nostra unicità e dall’altra ci spinge a cogliere le similitudini che ci legano alle altre persone. Permette infatti di rendersi conto che ognuno di noi ha modelli di comportamento, tendenze selettive o filtri che lo condizionano, e che gran parte delle difficoltà umane sono causate dal fatto che siamo ciechi al modo di vedere degli altri.

Esso descrive nove diversi tipi di personalità e il rapporto tra loro. Se siamo in grado di riconoscere il tipo a cui apparteniamo, potremo affrontare meglio i nostri problemi, oltre che conoscere meglio i nostri familiari, amici e colleghi. Ma oltre alla descrizione delle varie caratteristiche umane, l’enneagramma conduce al cambiamento interiore. E’ più di un’indagine psicologica per la conoscenza di sé: ci dà la possibilità di metterci a confronto col nostro io inconscio, invitandoci a prenderne coscienza.

Tutti possediamo qualche lato oscuro che ci condiziona e che, in un certo senso, è una strategia di autodifesa scelta inconsciamente per ottenere sicurezza e soddisfazioni ed evitare dolori e fallimenti. Riconoscere il segreto predominio di queste pulsioni negative è il primo passo verso la libertà interiore.
L’enneagramma, dottrina antichissima oggi riscoperta e apprezzata da teologi e psicologi, rappresenta un mezzo efficace per acquisire la necessaria capacità di autocritica in vista di una più armonica crescita psicologica e spirituale.
Le radici dell’enneagramma (ennea: nove e gramma: lettera), risalgono a più di 2000 anni fa. Venne sviluppato sul finire del Medioevo da alcune confraternite sufi. I sufi erano musulmani devoti rinuncianti, simili ai francescani, che arrivavano a Dio con la preghiera e la meditazione.
L’enneagramma definisce nove tipi di personalità a partire da nove ‘trappole’, ‘passioni’ o ‘peccati mortali’. Si tratta dei sette peccati capitali: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, ingordigia, lussuria e a questi si aggiungono due ulteriori ‘peccati’: menzogna e paura. Il termine “peccato” viene inteso come la nostra “separazione da Dio”, ma anche dal nostro prossimo e da noi stessi. I “peccati” sono inasprimenti del carattere che impediscono all’energia di fluire liberamente.
Ognuno dei nove tipi di personalità comprende una classe che si estende tra poli estremi: irredento (immaturo) e redento (maturo). Una persona irredenta è imprigionata in se stessa, e pensa che il suo punto di vista sia l’unico valido.
I sufi chiamavano l’enneagramma ‘Il volto di Dio’, essi immaginavano che nel cammino di liberazione l’uomo divenga sempre più capace di abbandonare la propria posizione per osservare la vita da un altro punto di vista. Se fossimo capaci di ‘indossare tutte le nove paia di scarpe’ e osservare la realtà da ognuno dei nove punti di vista, allora osserveremmo il mondo con gli occhi di Dio.
Nessuno dei nove tipi è migliore o peggiore di altri, ognuno di essi ha bisogno di arrivare alla libertà e ognuno di essi ha doni unici.
Conoscendo l’enneagramma è possibile elaborare meglio i nostri rapporti e le dinamiche delle relazioni: in ambito lavorativo, tra genitori e figli, tra uomini e donne, nelle amicizie, nei gruppi. Ma soprattutto l’enneagramma è uno strumento utilissimo per l’autoconoscenza e la consapevolezza di sé.

I 9 tipi dell’enneagramma si raggruppano in 3 diversi centri: viscere, cuore e testa.

Pancia

OTTO, NOVE, UNO: gruppo delle persone “viscerali”. Essi reagiscono in maniera immediata, spontanea e impulsiva e non filtrano con il cervello.
Gli uomini di pancia reagiscono istintivamente. Il centro del corpo che li guida è l’apparato digerente e il plesso solare. L’orecchio e il naso sono i loro organi di senso più sviluppati. Tutto per loro gira intorno al potere. La vita è per loro un campo di battaglia. Spesso, inconsciamente si occupano di potere e di giustizia. Esteriormente risultano sicuri di sé e forti, mentre interiormente possono essere afflitti da dubbi morali su di sé.
In una situazione nuova dicono come prima cosa: “Qui ci sono io, occupatevi di me”, oppure chiedono: “Come mai io sono qua?”. Siccome seguono molti impulsi “istintivi”, parte del loro compito nella vita è di trasformare i “diversi amori” in amore.

Cuore

DUE, TRE, QUATTRO : gruppo delle persone di cuore. L’energia dei tipi di cuore va incontro agli altri, il loro tema sono le relazioni interpersonali.
Il cuore e i sistemi circolatori sono il loro centro del corpo. In loro sono particolarmente sviluppati il tatto e il gusto. Tutto per loro gira intorno all’essere per gli altri. Risulta loro difficile rimanere soli con se stessi. In una situazione nuova chiedono: “vi piacerò?” oppure: “Con chi sto?”. Vedono la vita come un compito da svolgere. Si preoccupano del prestigio e dell’immagine (spesso inconsapevolmente). L’aspetto positivo di tutto ciò è che hanno un senso di responsabilità sviluppato.
Tendono ad adeguarsi, a reclamare attenzione, ad essere saccenti. Vengono influenzati da ciò che gli altri pensano di loro e ritengono spesso di sapere ciò che è bene per gli altri. Tendono a sopprimere la loro aggressività, nascondendosi dietro una facciata di bontà e di attività. Esteriormente risultano sicuri di sé, allegri e armonici, interiormente però si sentono spesso vuoti, incapaci, tristi e vergognosi.
Essi devono imparare soprattutto a fare del bene in una maniera che non viene notata né premiata. Il loro compito di vita consiste nel trasformare in speranza tutto ciò che costantemente si aspettano.

Testa

CINQUE, SEI, SETTE: sono i tipi di testa. Questo è un gruppo cerebrale.
L’energia della testa è un’energia che si ritira dagli altri. Gli uomini di testa in ogni situazione per prima cosa fanno un passo indietro per riflettere. Vengono guidati dal sistema nervoso centrale e il loro centro sono gli occhi.
In una nuova situazione per prima cosa vogliono orientarsi, si chiedono: “Dove sono?” ovvero: “Come si combina tutto ciò?” Vedono la vita come un enigma, un mistero. Hanno il senso dell’ordine e del dovere. Il loro atteggiamento è di solito impassibile e concreto. Sembrano avere poche esigenze e sanno lasciare spazio agli altri. All’esterno risultano spesso chiari, convinti e capaci, interiormente però si sentono spesso isolati, confusi e privi di senso.
Gli uomini e le donne “di testa” devono passare dal pensare al fare, e dall’isolamento alla comunità (“Chi non sa vivere nella comunità si guardi dal stare da solo”, Bonhoeffer). Il loro compito consiste nel trasformare i loro dubbi e parziali verità in fede.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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DIALOGO SOCRATICO

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Il dialogo socratico è un metodo d’indagine filosofica, descritto per la prima volta da Platone nei Dialoghi ed è anche chiamato metodo “maieutico”. La maieutica è un termine che deriva dal greco e significa “l’arte della levatrice ” (o “dell’ostetricia”). L’accostamento tra la maieutica ed i dialogo socratico è originta da Socrate che paragona l’arte della dialettica a quella della levatrice: come quest’ultima, Socrate intendeva “tirar fuori” all’allievo pensieri assolutamente personali, al contrario di quanti volevano imporre le proprie vedute agli altri con la retorica e l’arte della persuasione.Socrate fingeva di abbassarsi al livello culturale del discepolo ponendogli domande e rendendolo partecipe delle proprie. Solo in questo modo e attraverso il dialogo, Socrate riusciva a fare il lavoro della levatrice. Come la levatrice porta alla luce il bambino, Socrate portava alla luce le piccole verità dal discepolo. La stessa psicanalisi si rifà all’arte della maieutica.

Il dialogo socratico, basato su domande e risposte tra Socrate e l’interlocutore di turno, procede per confutazione, ossia per eliminazione successiva delle ipotesi contraddittorie o infondate. Esso consiste nel portare gradualmente alla luce l’infondatezza di tutte quelle convinzioni personali che siamo abituati a considerare come scontate, come vere, e che invece rivelano, ad un attento esame, la loro natura di “opinioni”. Tale metodo è detto “maieutico” (ostetrico) in quanto è fondato non sul tentativo di vincere l’interlocutore con una propria verità, ma su quello di condurre per mano l’interlocutore con una serie di brevi domande e risposte a portare l’interlocutore a dichiarare la propria ignoranza: a riconoscere,cioè l’impossibilità di avere verità definitive. Parte integrante di questo metodo è il ricorso a battute brevi e taglienti in opposizione ai lunghi discorsi degli altri.

Socrate dichiara il proprio “non sapere”, perciò nessuna delle confutazioni che egli opera potrà essere basata sulla contrapposizione di una verità che Socrate conosce all’errore dell’interlocutore. Di conseguenza, Socrate si impone un metodo di discussione che faccia affidamento solo su ciò che l’interlocutore afferma, accetta e riconosce da sé.
Come si può dimostrare falsa un’affermazione senza contrapporgliene direttamente una vera? La risposta è: esaminando le conseguenze di tale affermazione. Dopo aver chiesto all’interlocutore di pronunciarsi esplicitamente e chiaramente su ciò che ritiene vero attorno ad un certo tema, Socrate procede derivando, da quello che l’interlocutore ha fissato come punto d’avvio, delle conseguenze, delle quali l’interlocutore non era chiaramente consapevole. Questa è la “messa alla prova” delle credenze dell’interlocutore.

La confutazione può avvenire in diversi modi, dotati di diverso grado di forza argomentativa.

Il modo più forte è quello della “reductio ad absurdum”. In questo caso, dall’ipotesi esaminata derivano delle conseguenze che la contraddicono o che si contraddicono fra loro, e l’ipotesi deve, perciò, essere scartata. L’applicazione nei dialoghi socratici di questa modalità non è, però, continua né esclusiva, e neppure molto frequente.

Un esempio piuttosto elaborato di reductio ad absurdum applicato da Socrate lo troviamo nel dialogo intitolato Ippia minore. Alla conclusione del dialogo, Socrate porta l’interlocutore ad ammettere la tesi paradossale e urtante secondo la quale chi fa il male volontariamente è migliore di chi lo fa involontariamente, e – detto ancora più chiaramente – solo un uomo buono può fare il male volontariamente: “Dunque chi volontariamente erra e di propria volontà si comporta vergognosamente e ingiustamente, un simile uomo, sempre che esista, non può essere altro che l’uomo buono”. La conclusione è contraddittoria, e ciò è evidente se sostituiamo l’espressione finale l’uomo buono con la sua equivalente colui che non fa il male. Il punto d’arrivo al quale il lettore del dialogo deve perciò giungere è che tale uomo non esiste: ossia che nessuno fa il male volontariamente. Il Taylor riassume così il senso dell’argomentazione: “L’uomo che conosce veramente il bene ma sceglie qualcos’altro non può esistere, come non può esistere un quadrato rotondo, ed è appunto perché tale persona non esiste che si possono asserire a proposito di lui i paradossi più audaci”.

Il secondo modo è la riduzione al falso; rispetto all’ipotesi o alle sue conseguenze vengono presentati degli esempi tratti dall’esperienza che non possono essere inquadrati entro l’ipotesi e perciò la contraddicono (chiamiamoli “controesempi”). Pur senza essere impossibile, l’ipotesi risulta – così – non vera; le cose non vanno come l’ipotesi prevede.

Questa modalità è di carattere oggettivo, poiché si riferisce alla verità delle credenze che sono nella mente di una persona ed alla loro compatibilità, a prescindere da chi le sostiene. In questo senso la possiamo dire “più forte”: se applicata correttamente, infatti, è tale da mostrare falsa la tesi a cui si applica. Per il chiarimento e per un esempio riportiamo un breve passo dalla Storia della logica dei coniugi Kneale, nel quale tale modalità viene paragonata alla “reductio ad absurdum”: “Socrate aveva adattato ai propri fini il metodo di Zenone. . È difficile arrivare a qualcosa di certo sulla dottrina del Socrate storico, ma quei passi platonici che, per la loro drammaticità, sembrano la testimonianza più attendibile al riguardo, fanno pensare che Socrate non fosse meramente un amatore della conversazione filosofica, ma un uomo che praticava una ben definita tecnica di confutazione delle ipotesi: mostrare che esse comportavano delle conseguenze incompatibili o inaccettabili. […] Ma si noti che la confutazione socratica differisce da quella zenoniana in questo: non v’è bisogno che le conseguenze tratte dalle ipotesi siano autocontraddittorie; in certi casi esse possono essere semplicemente false”. Il caso delle conseguenze “semplicemente false” è esemplificato dai Kneale con un passo del Menone: nell’esame dell’ipotesi dell’insegnabilità della virtù se ne deriva la conseguenza che se la virtù fosse insegnabile allora gli uomini più virtuosi l’avrebbero trasmessa ai loro figli; ma alcuni casi clamorosi di insuccesso di genitori illustri e virtuosi (Temistocle, Pericle…) i cui figli risultarono inetti falsificano l’ipotesi. Qui l’ipotesi è falsificata da un dato di fatto incompatibile con essa.

Una terza (più debole) modalità è il conflitto di credenze fra convinzioni diverse dell’interlocutore. A rigore, così, non si dimostra che l’ipotesi in questione sia falsa, ma solo che l’interlocutore sostiene diverse tesi che non possono essere tutte vere; almeno una di esse dovrà essere falsa, anche se non sappiamo quale. La discussione mette in risalto le contraddizioni che l’interlocutore portava con sé senza esserne consapevole.

Questa più debole forma di confutazione è molto frequente nei dialoghi socratici, e spesso prende l’aspetto più interessante ed affascinante. È soprattutto attraverso questa frequente modalità che l’insegnamento di Socrate si rivolge direttamente alla persona che egli “interroga”, e ne svela i conflitti interni, svolgendo così una “terapia dell’anima” e quindi anche della dipendenza affettiva.
Presa di per sé, la si può chiamare confutazione solo in un senso improprio, perché, a regola, non sappiamo mai, da essa sola, quale delle tesi che si contraddicono sia da considerare confutata. Se le tesi in conflitto sono due, sappiamo solo che non possono essere entrambe vere, ma le altre possibilità rimangono tutte: può essere falsa l’una, o l’altra, o entrambe.
Prendiamo un esempio dall’ Eutifrone . In un primo passaggio Socrate chiede ad Eutifrone se siano vere le storie mitologiche sugli dei e sui loro conflitti e sulle inimicizie intercorrenti fra loro. Eutifrone risponde affermativamente: la credenza in tale mitologia è una componente profonda della sua personalità e delle sue convinzioni. Poco dopo, però, Eutifrone – che si proclama esperto della santità (ossia di tutto ciò che riguarda il rapporto fra gli uomini e gli dei) – afferma che “pio” (o “santo”) è ciò che è “caro agli dei”. In sostanza egli sta sostenendo che esiste un sapere attorno a ciò che è “caro agli dei”, e che sulla base di tale sapere gli uomini (guidati da esperti, quali Eutifrone) possono regolarsi in pratica nei loro rapporti con essi. A questo punto Socrate fa notare l’incompatibilità fra la credenza nei miti sul conflitto fra gli dei (se questi ultimi sono in conflitto, ciò implica che gradiscano cose diverse) e la pretesa di conoscere ciò che è caro agli dei con la sicurezza che Eutifrone ostenta. Ciò che è caro agli dei sarà controverso (un dio amerà ciò che un altro odia) e – di conseguenza – il sapere compatto e sicuro attorno a tale soggetto sarà impossibile.

Proviamo ora, a chiarire meglio questa particolare mossa del dialogo socratico. Uscendo per un attimo fuori dal contenuto letterale del testo, cerchiamo di immaginare alcune conseguenze estreme ed esemplari che si sarebbero potute trarre dalla difficoltà, se solo Eutifrone ne fosse stato più consapevole. I tipi di esito sono tre:

  • si lascia cadere la credenza nei miti, e si salva la convinzione che si possa avere un sapere attorno alla divinità. In questo caso la divinità si concepisce come qualcosa che non può essere descritto con i racconti tradizionali, ma che è in sé razionale (conoscibile con l’indagine) e coerente. Il santo e l’empio saranno così derivabili senza rischio di contraddizioni da tale nozione della divinità. Questa è la soluzione che, senza che lo pronunci qui apertamente (è Eutifrone, e non è lui, a dover sbrogliare la matassa!), Socrate mostra di preferire,
  • si conservano le credenze nel conflitto degli dei e si rinuncia a trovare una regola, comprensibile all’uomo e da lui applicabile in pratica, attorno a come rendersi graditi agli dei (la “scienza” del santo e dell’empio). La visione che ne deriva è quella di un universo “tragico”, nel quale coltivare ciò che è caro ad una divinità può metterci in balia dell’odio di un’altra, come in effetti accade a molti degli eroi epici e tragici raffigurati nella poesia greca: di fronte alle immani forze in conflitto del divino sono inutili tutti gli espedienti della previdenza e del sapere dell’uomo.
  • si lasciano cadere entrambe le credenze. Per esempio con una posizione ateistica, oppure con una tesi simile a quella che sosterrà Epicuro (III sec. a.C.): gli dei, perfetti e beati, non hanno passioni negative (non è possibile pensarli in conflitto), ma, poiché sono perfetti, beati ed autosufficienti, sono anche indifferenti a ciò che fanno gli uomini, e nulla di umano potrà essere loro odioso né gradito.

Come si vede, dalla confutazione che Socrate rivolge ad Eutifrone, non possiamo concludere nulla su quale delle due tesi sia da considerare falsa. Sappiamo solo che non si può pretendere di affermarle entrambe. In questo consiste la “debolezza” di questa modalità di confutazione.

Il Dialogo socratico oltre ad essere utilizzato nella relazione terapeuta-paziente trova fertile campo d’applicazione anche nei gruppi d’auto-aiuto sulla dipendenza affettiva. Un possibile schema di sviluppo del dialogo potrebbe essere il seguente:

Scelta della problematica da trattare;

Ogni partecipante racconta, traendolo dalla propria esperienza reale, un esempio a suo parere significativo della problematica in questione;

il gruppo sceglie tra gli esempi proposti quello più rappresentativo;

Colui che ha proposto l’esempio scelto viene interrogato, per definire meglio gli elementi che lo compongono;

Viene definito in quali elementi è specificamente espressa la problematica;

Ridotto ai suoi elementi essenziali, la problematica viene definita con precisione e ne viene fissato il significato;

La definizione della problematica viene verificata, applicandola agli altri esempi inizialmente proposti; nel caso di incongruenze, la definizione viene modificata;

Al fine di testare maggiormente la definizione ottenuta, vengono proposti nuovi esempi;

Come ulteriore rafforzamento della sua consistenza, la definizione ottenuta viene usata per discutere questioni collaterali eventualmente emerse nel corso del dialogo

Esempio di Dialogo Socratico
Socrate: Dunque, neppure chi diviene ricco sfugge all’infelicità, ma solo chi diviene saggio.
Alcibiade: Evidentemente.
S.: Non hanno dunque bisogno di mura, di triremi e di arsenali gli stati, caro Alcibiade, se avranno a prosperare in felicità, nè hanno bisogno di masse e di grandezza prive di virtù.
A.: Veramente no.
S.: Così se t’appresti a metter mano agli affari dello stato, correttamente e nobilmente, tu devi far parte ai cittadini della tua virtù.
A.: Sicuro.
S.: Ma potrebbe qualcuno dare ciò che non ha?
A.: E come farebbe?
S.: Per te stesso devi prima conquistarti la virtù. tu o chiunque altro che voglia governare e prendersi cura non solo privatamente di sè e delle sue cose, ma anche dello stato e dei suoi affari.
A.: E’ vero.
S.: Non devi dunque procurare potere a te stesso e allo stato per fare ciò che ti piaccia, ma giustizia e saggezza.
A.: Evidentemente.
S.: Perchè, mio caro Alcibiade, chi possieda la potenza per fare ciò che gli piaccia, ma non abbia alcun senno, cos’è probabile che gli accada, sia lui una persona o uno stato? Se per esempio un malato ha il potere di fare ciò che gli piace e, privo di ogni idea di medicina, spadroneggia a tal punto che nessuno può riprenderlo, cosa accadrà? Non si rovinerà la salute? E ciò non sarà naturale?
A.: E’ vero.
S.: Se in una nave uno avesse la libertà di fare ciò che gli pare, privo della minima idea di scienza nautica. te lo immagini cosa avverrebbe di lui e degli altri imbarcati?
A.: Lo vedo: perirebbero tutti.
S.: Se dunque, in questo stesso modo, nello stato e in ogni altro tipo di governo e di dominio viene a mancare la virtù. ne consegue il vivere male?
A.: Per forza.
S.: Quindi non è il potere tirannico, mio ottimo Alcibiade, che ti devi procurare, nè a te stesso nè allo stato, ma la virtù, se volete prosperare in felicità.
A. E’ vero.
Da PLATONE. Alcibiade primo, tr. it. a cura di Piero Pucci, in PLATONE, Opere complete, Laterza. Bari

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

CRIMINOLOGIA

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La criminologia si afferma come scienza autonoma nel XIX secolo e precisamente viene individuato il 1876 come data di nascita, anche se già nel 1843 in Gran Bretagna uno psichiatra è chiamato a valutare lo stato mentale dell’imputato al momento del crimine. E’ infatti questo l’anno di pubblicazione di Uomo delinquente, di Cesare Lombroso, considerato unanimemente padre putativo della criminologia. In questo studio lo psichiatra veronese gettò le basi delle future metodologie per l’analisi eziologica del crimine, anche se già nel 1843 in Gran Bretagna durante il processo McNaghten uno psichiatra fu chiamato a valutare lo stato mentale dell’imputato al momento del delitto. La Corte accettò il suo parere e dichiarò non colpevole l’autore del reato… Ma cosa studia nello specifico la criminologia? Il fenomeno criminoso nella sua complessità, considerando qualunque prospettiva attenga il crimine: quindi in essa si sovrappongono diverse discipline e la interdisciplinarietà è sua caratteristica precipua. Diritto, sociologia, antropologia, psicologia, psichiatria, biologia, medicina, statistica, scienze economiche: questo in breve l’elenco delle varie discipline che si sovrappongono nello studio del crimine. Sintetizzando si può dire che in essa si confrontano due gruppi di scienze: quelle umane (antropologia, psicologia, medicina, psichiatria, psicologia sociale, sociologia) e quelle giuridiche. Al suo interno si distinguono due filoni: quello antropologico e quello sociologico. Il primo è finalizzato allo studio della personalità del soggetto delinquente attraverso l’analisi dei fattori organici e ambientali. L’altro approccio studia il crimine come fenomeno sociale, analizzando l’episodio criminoso in relazione alle dinamiche dell’intera società in cui il criminale si trova a compiere i delitti. Si tratta di una scienza empirica e quindi ricava dalla osservazione del reale il materiale per la sua indagine: le metodologie sono di carattere statistico e sociologico (statistiche di massa, indagini individuali, indagini sul campo, studio di gruppi campione)…

 

Dott. Roberto Cavaliere

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LA COMUNICAZIONE NON VERBALE

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Gran parte della comunicazione faccia a faccia è fatta di segnali non verbali; la comunicazione non verbali (CNV) è costituita da tutti quegli scambi che avvengono con modalità diverse da quella verbale: comprende, cioè, tutto ciò che passa per i canali motorio-tattile, chimico-olfattivo, visivo-cinestesico (tutto ciò che riguarda la percezione del movimento di sé nello spazio), e tutti gli aspetti paralinguistici (o paraverbali), come ad ex: le pause, i silenzi, l’intercalare, ecc…
La comunicazione non verbale (CNV) utilizza prevalentemente un codice analogico, cioè riproduce per immagini ciò di cui si riferisce, cioè utilizzando gesti, rituali, ecc.
La comunicazione verbale (CV) utilizza, invece, un codice digitale, cioè vengono usati dei segni arbitrari(=simboli convenzionali che si concretizzano poi nella parola scritta o orale).
Anche nella comunicazione non verbale, però, spesso c’è convenzionalità questo dipende dalle diverse culture che influenzano i comportamenti degli appartenenti alla cultura stessa (Es la segnalazione di “matto”: punta dell’indice contro la tempia, oppure mano su e giù davanti agli occhi, o ancora, il pugno chiuso che percuote la fronte). Ad esempio il segno “OK”, fatto con le dita ad “O”, per noi significa tutto bene; lo stesso segno per i Giapponesi significa denaro, per i Francesi nullità e per i Greci è un insulto.
Nella comunicazione verbale spesse volte c’è universalità di comunicazione; a volte invece, alcuni segnali suscitano malintesi.

Le funzioni della comunicazione non verbale
1) Comunicazione espressiva: serve per manifestare emozioni, sentimenti, stati d’animo
(ex: sorriso, occhiolino..)
2) Comunicazione interpersonale: serve per segnalare amicizia, ostilità, disponibilità, aggressività (ex: darsi la mano, aggrottare le sopracciglia..)
3) Regolazione di interazione: serve per tener sotto controllo la comunicazione faccia a faccia (ex: la punteggiatura, la conclusione di un turno..)
4) Comunicazione verbale: serve per “colorire”, enfatizzare (=semplificare) ciò che si dice a parole (ex: sguardi, espressioni del volto, gesti..).

Aspetti della comunicazione non verbale
1. Lo sguardo: svolge un ruolo di fondamentale importanza nella relazione con gli altri, soprattutto negli scambi faccia a faccia:
A) durata e frequenza degli sguardi più la dilatazione delle palpebre sonoSegnale di attrazione (si tende a guardare di più chi ci interessa).
B) le persone dominanti (i leader), che sono più sicure ed autonome, guardano per meno tempo gli altri, ma sono le ultime a staccare lo sguardo.

2. La gestualità: riguarda alcune parti del corpo: soprattutto mani, piedi, testa. È spesso Controllabile:
A) alcuni gesti cadono in disuso, col tempo si perdono o cambiano (ex: il bacia-mano)
B) sono legati a contesti socio-culturali (ex: in alcune culture la gestualità è più accentuata)

3. La postura:riguarda la posizione generale del corpo nello spazio; è prevalentemente Involontaria. Ricordiamo 3 posizioni:
– la stazione eretta;
– la posizione distesa (supina, prona);
– la posizione intermedia ( seduta o in ginocchio).

4. Il contatto corporeo è il tipo più immediato di CNV dove la distanza emittente- Ricevente è abolita; si ha soprattutto:
A) nel comportamento aggressivo;
B) nelle relazioni affettivo-sessuali;
C) nell’allevamento-dipendenza-cura;
D) nei casi di affiliazione/interazione

5. L’abbigliamento e lo stato fisico: statura, colore degli occhi e capelli, i tratti somatici costituiscono il nostro aspetto esteriore che è un importante strumento di comunicazione, un vero e proprio linguaggio. Modo di vestirsi, di curare i capelli, il trucco, il modo di porsi agli altri; costituiscono, come l’aspetto fisico, segnali di CNV immediati.

6. Il comportamento spaziale:se né occupata una scienza definita “prosennica”, che Studia come le persone usano lo spazio per comunicare; si è occupata, soprattutto, del fattore vicinanza, indicando la relazione spaziale, in termini di distanza tra 2 o più persone come “agente di Influenza” rispetto alla relazione strutturata:
A) distanza intima: 45 cm circa; consente il sussurro e di cogliere emozioni ed espressioni anche minime permettendo, in alcuni casi, di “entrare in contatto” con l’altro.
B) distanza personale: da 45 a 120 cm; consente ancora di entrare in contatto con l’altro, ma non il sussurro.
C) distanza sociale: da 2,75 a 3,65 m; è solitamente una “distanza di lavoro”, è più impersonale e si ha negli uffici, al ristorante tra un tavolo e l’altro..
D) distanza pubblica: da 3,65 a più metri; usata nelle conferenze, assemblee pubbliche..

Le ricerche condotte, dimostrano che a volte c’è conflitto tra la distanza fisica nella comunicazione e l’intenzione comunicativa; in questo caso (su pullman, treno..) il contesto comunicativo e la tipologia della relazione fungono da “elemento di disturbo”: la relazione può o procedere in modo formale oppure cadere del tutto. Viene infatti a mancare una condizione essenziale della comunicazione: l’ intenzionalità comunicativa.

Dott. Roberto Cavaliere

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IL COUNSELLING

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La persona “è molto più che il suo problema” , ma nel momento di crisi tende a focalizzarsi sui motivi della sua sofferenza, non riconoscendo appieno le potenzialità che gli appartengono e che, una volta emerse, lo porteranno al superamento del suo disagio.

Il counselor ha il compito di agevolare e supportare il cliente in questo percorso.

IL CLIENTE E’ ATTORE NEL PROCESSO DI AIUTO:

E svolge dunque un ruolo attivo durante la terapia. Non è un paziente inconsapevole e silenzioso in attesa di cura, bensì parte di una preziosa sonata a quattro mani .

Se il counselor deve saper mettere a disposizione qualità procedurali ed umane allo scopo di accogliere ed accompagnare il suo paziente nel percorso terapeutico, il cliente può scegliere la via che ritiene più consona, gestire i tempi verbalizzando le proprie esigenze, esprimere le proprie emozioni e vissuti nel qui e ora, sentendosi parte di un ambiente nutriente e giungendo con il counselor a decisioni comuni.

Solo così essi divengono – insieme – protagonisti di un incontro autentico.

I CONFINI:

il counseling risulta essere una soluzione terapeutica efficace qualora venga utilizzato con persone globalmente integrate ed adattate. Qualora il paziente riveli un grave disturbo strutturale di personalità, sarà cura del professionista inviarlo da uno specialista (un buon counselor esercita spesso all’interno di una rete professionale di supporto) che dopo una diagnosi adeguata potrà valutare l’utilità eventuale di una terapia di counseling di sostegno.

AMBITI DI INTERVENTO:

AUTOSTIMA

sensazione di inadeguatezza, incapacità, senso di inferiorità…

DISTURBI CORRELATI ALLA SFERA AFFETTIVA

separazioni, perdite , gestione rapporto di coppia…

DISTURBI RELAZIONALI

fobia sociale, difficoltà di relazione/contatto con familiari, amici, colleghi, autorità…

ANSIA

generalizzata, disturbo ossessivo-compulsivo OCD, ansia legata all’ambito professionale…

INSTABILITA’ DELL’UMORE

depressione,, paura di solitudine, senso di vuoto…

FASI DEL CICLO DI VITA

infanzia, adolescenza, maternità, menopausa,pensionamento…

DIFFICOLTA’ NELLO STUDIO  ( counseling scolastico)

concentrazione, ansia da esame, scarsa motivazione

DISAGI IN AMBITO PROFESSIONALE (business counseling)

perdita lavoro, trasferimenti, gestione del cambiamento…

TRAUMI

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COACHING

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Ogni corso formativo di coaching prevede l’utilizzo di strumenti volti a stabilire un obiettivo , costruire una strategia per raggiungerlo ed i mezzi più economici per conseguirlo.

L’assunto di base va ricercato nel termine “coach” che nell’inglese moderno identifica un veicolo in grado di trasportare una persona o un gruppo da un luogo di partenza a quello d’arrivo desiderato.

Allo stesso modo il tutor, il coach/formatore addestra singoli individui o squadre, “li trasporta” attraverso un percorso teso allo sviluppo di competenze e comportamenti utili al miglioramento di specifiche performance in vista del conseguimento di un obiettivo dato, di natura professionale, aziendale, privata.

Una dote sopra tutte è richiesta al fine di raggiungere lo scopo prefissato: l’ autoefficacia , vale a dire la consapevolezza che nel contesto il soggetto sia in grado di poter individuare e mettere in atto i comportamenti adeguati alla situazione per poter giungere alla meta.

Tale attitudine del Sé attiene alla sfera del “fare” e, qualora il coachee non ne disponga a sufficienze, è compito del coach aiutarlo a svilupparla, pena il fallimento.

Le origini di tale approccio sono molto antiche, più di quanto normalmente si pensi…

Benché le scuole di coaching siano svariate, come anche i modelli teorici a cui ognuna fa riferimento, tutte condividono il seguente schema:

preparazione di un PIANO STRATEGICO ideale, astratto, pensato, orientativo ___________ identificazione dei MEZZI , degli strumenti più consoni per attuarlo__________________ APPLICAZIONE concreta, pratica, del piano nella realtà.

E tale modello in cui il pensiero anticipa e determina il fare nel mondo origina dal pensiero greco classico e permane fino all’epoca contemporanea:

per Platone l’idea è fondamento dell’essere delle cose, l’idea è ciò che fa essere gli oggetti.

Aristotele riteneva che la conoscenza intellettiva avvenisse mediante un processo di astrazione dei concetti incarnati in potenza nella realtà sensibile.

Che dire di Galileo , per cui l’universo è un “grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi” ma che “non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri ne’ quali è scritto” ed è scritto “in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi e altre figure geometriche” (vd. Saggiatore)

I fenomeni naturali vengono insomma riordinati dalla costruzione e dai ragionamenti matematici prodotti a priori.

Infine Heidegger concepisce l’uomo come esserci, come colui che guarda alle cose in funzione del proprio progetto, esse sono per lui essenzialmente strumenti.

Il pensiero occidentale tutto è permeato da questa concezione: il modello ideale in contrapposizione alla pratica. Il modello ideale generato dall’intelletto e dalla volontà predispone all’azione adeguata determinandone l’esito.

Questa la prospettiva da cui la cultura occidentale ha sempre guardato al reale.

Ma non è sempre stato così..

…si pensi ad Odisseo, l’uomo dalle mille risorse che sapeva percepire il vantaggio delle situazioni e sfruttarle.

Il pensiero greco arcaico muoveva infatti da ben altra prospettiva rispetto a quello classico:

sapendo cogliere in quale senso stesse evolvendo la situazione, Ulisse sapeva come trarne profitto.

La prospettiva è radicalmente differente.

Non c’è alcun modello astratto a guidare l’azione. Nessuna elaborazione teorica precedente al fare, nessun pensiero pregresso se non quello vitale del qui ed ora.

Ulisse, diremmo oggi, sa surfare l’onda (F. Julien). Stando nel presente , vigilando, trae le informazioni necessarie ad ammansirla.

Tale concezione nella sua semplicità è sbalorditiva ed estremamente accattivante… sì, perché a pensarci bene anche la miglior strategia astratta deve “fare i conti” con le circostanze con cui nella pratica andrà a “cozzare”… ed esse, che le si attribuisca al destino o alla pura casualità, rappresentano una grave resistenza alla precisa applicazione del piano strategico..

Si pensi all’arte della guerra.

Storicamente le migliori strategie pensate a priori hanno dovuto scontrarsi con eventi (circostanze) di carattere metereologico (nebbia, neve, freddo) che ne hanno decretato un esito imprevisto, quando non il fallimento.

Ogni volta che basiamo la nostra azione su di un piano astratto, aprioristico, corriamo il rischio di “dover forzare la realtà” per adeguarla al piano stesso, in vista del nostro obiettivo . L’uomo capace di tale tenacia e determinazione è riconosciuto nella nostra cultura un vincente, un coraggioso, votato al successo.

Ma non sempre – specie se le circostanze non sono favorevoli – tale approccio verrà premiato dal raggiungimento del risultato.

Torniamo ad Odisseo… vigile e pronto a cogliere il variare della situazione e a trarne elementi per muoversi con efficacia… per quanto tale prospettiva venne presto abbandonata dal pensiero classico, essa acquista valore se inserita in un contesto concettuale di respiro più ampio, seppur lontano in termini culturali:

Il pensiero orientale viene sinteticamente ma efficacemente espresso nel libro di Mencio (IV sec a.C) appartenente alla tradizione confuciana.

L’autore parte dall’esempio di un contadino che rincasando la sera, spiega ai figli di aver passato la giornata a dissotterrare i semi germogliati del suo campo. Una faticaccia. Più tardi i figli si recano nel campo e trovano che tutto è seccato.

Ecco ciò che non si deve mai fare, dice Mencio.

Volendo affrettare la crescita , forzandola , agendo direttamente su di essa , mi muovo in senso contrario al processo avviato e così fermo, anniento la possibilità che l’effetto si realizzi spontaneamente .

La crescita del germoglio è implicita infatti alla situazione. Basta lasciar maturare .

Mencio dice di più..

come per Odisseo, anche nel pensiero orientale la pianificazione viene sostituita dalla valutazione del contesto reale .Questo atteggiamento permette di riuscire a cogliere tutti i fattori correlati alla situazione. Saper valutare tali fattori significa poi discriminare quelli potenzialmente favorevoli e quelli non.

E qui il secondo paradosso rispetto alla nostra cultura:

“né impazienza, né inerzia”

La raccolta di frutti maturi è determinata dalla capacità di non forzare la crescita spontanea, il naturale processo di maturazione(l’i mpazienza ). Ciò non vuol dire rimanere passivi, l ‘inerzia , bensì avere la pazienza e l’abilità necessaria a potenziare i fattori positivi presenti nel contesto (annaffiare regolarmente i germogli, curarne il benessere) e ridurre l’incidenza di quelli negativi (tenerli al riparo dalle intemperie..).

Torniamo alla nostra cultura. Al 2008. Al fine di raggiungere obiettivi nel futuro, molti coach adottano la tecnica dell’ imagineering.

Il termine fu coniato da Walt Disney per descrivere il processo che utilizzava per “creare il futuro”, partendo dall’elaborazione dei suoi sogni e facendoli diventare realtà.

L’imagineering implica il coordinamento di tre sottoprocessi:

  • il primo – il sognatore – pensa, progetta nuove idee da poter attuare in un secondo tempo.
  • Il secondo – il realista – Il suo scopo è trasformare il sogno in un progetto realizzabile. Il focus del suo lavoro è “come realizzare” il piano ideale del sognatore.
  • Il terzo – il critico – L’obiettivo è di valutare il progetto proposto, di cercare i collegamenti mancanti ed eventuali problemi “facendo considerazioni logiche su ciò che potrebbe accadere se si verificasse il problema” . (R. Dilts)

Il coach esperto supporta il coachee nel prefissarsi l’obiettivo (sogno) e nel conseguimento mediante il controllo della situazione (realismo e critica) ……….sulla base di paradgmi   che nella realtà dei fatti sono pressoché incontrollabili… qui lo “stridore”..

E se ogni coach tenesse conto della secolare saggezza orientale?

Se si facesse inquietare da una prospettiva tanto lontana dalla propria?

Proviamoci.

L’ efficacia non sarebbe un’ostinata attitudine personale, ma verrebbe intesa come risultante di un processo (fatto di attesa, di interventi mirati alla cura del campo, nell’esempio di Mencio .

Le circostanze , senza essere attribuite drammaticamente al destino, verrebbero potenziate se favorevoli, ridotte, nel possibile, se negative.

Il fine non verrebbe stabilito aprioristicamente ma inteso come maturazione, pieno rendimento del processo stesso.

L’ occasione propizia non come un dono del fato, bensì come il momento finale del raccolto.

CONCLUSIONI

UN ONESTO E CREDIBILE LAVORO DI COACHING

Qualsiasi sia il motivo del contratto stipulato con il cliente (professionale o privato), la possibilità di essere efficaci rispetto ad esso sembra sempre più derivare da questi imprescindibili assunti di partenza:

  • scoprire pazientemente nel qui e ora della situazione i fattori favorevoli in modo da farli crescere fino a che il frutto del lavoro comune giunga a completa maturazione.
  • scoprire pazientemente nel qui e ora della situazione i fattori sfavorevoli, riducendoli quanto possibili e così invertendo il potenziale a proprio favore
  • favorire pazientemente la maturazione, senza forzature, rispettando il processo naturale; l’occasione propizia coinciderà con il raccolto.

Ho usato più volte l’avverbio pazientemente.

Spiego perchè attraverso le parole di Aun San Suci:

“occorre avere un’enorme pazienza, ma per pazienza non intendo un’attesa inerte, per me pazienza è forza, la forza di sopportare le avversità per tutto il tempo che sarà necessario per raggiungere il nostro obiettivo” .

Pazienza è forza, è capacità di stare nel processo “surfando l’onda”, scoprendo il movimento più adeguato affinché il processo stesso avvenga e giunga a compimento .

Sembra assurdo far menzione di questi concetti in una cultura come l’attuale, permeata dall’idea che l’efficacia sia prodotto del pensiero forte, che sa imporsi piegando la realtà a proprio vantaggio, propensa a credere che vincitore sia colui che persevera ostinato, incurante di quanto accade intorno, focalizzato solo al proprio obiettivo…

Laddove la pazienza, la saggezza del saper guardare, dell’attesa vigile, il rispetto dell’incessante movimento di rinnovamento del reale soli portano al pieno, vero rendimento.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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CINETERAPIA

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La Cineterapia è una terapia psicologica di supporto ad altre terapie che si basa sulla visione dei film ed è nata ad opera dello psicoterapeuta statunitense Gary Salomon. Quest’ultimo si rese conto che diversi disagi psicologici, da un semplice stato d’animo a vere e proprie patologie della psiche, possono trarre beneficio, in maniera più o meno evidente a seconda della situazione,dalla visione di un film o di vari films, da vedere sia al cinema che in ambito domestico. Infatti, è anche abbastanza evidente, che in determinati momenti dolorosi e tristi per noi, vedere un film che rappresenta una situazione in qualche maniera simile a quella del nostro disagio può esserci in qualche modo d’aiuto.
Il beneficio è più evidente nelle persone che non alzano barriere tra se stesse e lo schermo, barriere che non sono altro che la ripetizione di quelle che si alzano fra sé stesse e le proprie emozioni. Se si lascia “coinvolgere” dal film possiamo trarne i seguenti benefici:

• aumentare la capacità di sognare e di rievocare ricordi sepolti o latenti,
• rendere meno traumatiche paure profonde,
• favorire una riflessione interiore o sulle relazioni con i propri cari,
• aiutare ad operare una netta distinzione fra ciò che è bene e ciò che è male,
• identificazione nell’eroe di turno al fine di provare le sue stesse sensazioni sia di dolore che di felicità,
• cercare di capire che a volte non siamo i soli ad affrontare un determinato problema,
• un ruolo psicoeducativo volto a favorire l’elaborazione d’eventuali soluzioni, attraverso la proposizione di modelli cognitivi e comportamentali,
• una maggiore considerazione del punto di vista altrui.

E’ sopratutto nel campo delle emozioni che la cineterapia aiuta. Spesso si ha difficoltà a manifestare ed analizzare le proprie emozioni perché spaventano o sono portatrici di una sofferenza dilaniante. Nel film se ci riesce ad immedesimarsi o identificarsi nel protagonista si ottiene il risultato di rivivere tutta una gamma di emozioni che, normalmente non riusciremmo a vivere per i motivi sopraccitati. Il film ci permette man mano che si svolge di mantenere una distanza da esse, rivivendole, appunto, senza provare eccessiva sofferenza.

Una puntualizzazione è da farsi. Lo stesso film “terapeutico” per un determinato disagio, non è detto che lo sia per tutti. Fondamentale è la capacità del film stesso d’entrare in quella che chiamo la “risonanza emotiva individuale” dello spettatore. Quest’ultima può variare in base all’età, alla cultura, al momento particolare in cui si trova lo spettatore. Ecco perché a volte film che vengono definiti altamente terapeutici possono non sortire nessun effetto, nessuna emozione, lasciando addirittura indifferenti. D’altronde anche lo stesso film, che in un determinato momento, è stato terapeutico per uno spettatore, potrebbe non esserlo per lo stesso spettatore in un altro determinato momento. Parafrasando un proverbio “ci vuole il film giusto al momento giusto”:

Una generalizzazione, anche abbastanza evidente, possiamo però farla. E’ quella che riguarda i film “comici”. La loro “terapeuticità” è universale ed è legata agli effetti benefici della risata. Ridere per la visione di un buon film comico, aiuta indipendentemente dalla situazione in cui si trova.

In relazione alla “risonanza emotiva individuale” nei confronti della cineterapia possiamo dividere le persone in tre tipologie.

Spettatori indifferenti. Sono quelli per i quali vedere un film è un mero passatempo senza nessun coinvolgimento emotivo. Essi alzano una barriera tra loro e la trama del film senza lasciarsi coinvolgere da quello che vedono. O più semplicemente non considerano il cinema uno strumento per provare emozioni, perché probabilmente ritengono che determinate emozioni abbiano un loro valore solo se sono vissute in prima persona, nella vita reale. Sarebbe utile anche per quest’ultimi provare a lasciarsi andare un po’ di più davanti ad un film.

Spettattori attenti. Questi davanti alla visione di un film durante il seguimento della storia da un lato sono attenti alle proprie emozioni, per comprendere se potrebbero coincidere con quelle dei protagonisti, dall’altro riescono a mantenere un distacco sufficiente a trasformare la visione in un normale piacere e divertimento.

Spettatori coinvolti. I film per quest’ultimi sono altamente “terapeutici”. Si immedesimano ed s’identificano nei protagonisti delle storie, raggiungendo così il difficile obiettivo di riflettere sulle proprie emozioni senza esserne travolti. I film per loro rivestono anche un ruolo psicoeducativo ai fini del miglioramento del proprio equilibrio psicologico.Possono, però, correre il rischio di sognare ad occhi aperti.

FILM PER CINETERAPIA:

Su tematiche adolescenziali: L’ATTIMO FUGGENTE (Peter Weir) – MIGNON E’ PARTITA – IL GRANDE COCOMERO (Francesca Archibugi) – GENTE COMUNE (Robert Redford)

Sul disagio della “mezza età”: UN’ALTRA DONNA – ALICE (Woody Allen)

Su problemi coniugali e separazione: KRAMER CONTRO KRAMER (R.Bentos) – LA GUERRA DEI ROSES

Sul disagio psichico giovanile: RAGAZZE INTERROTTE

Su problematiche affettive: NON TI MUOVERE – I GIORNI DELL’ABBANDONO

Sul rapporto padre-figlio: LA STANZA DEL FIGLIO (2000) di Nanni Moretti.

BLOG SULLA CINETERAPIA

http://cineterapiasullamore.blogspot.com/

http://blog.libero.it/CINETERAPIA/

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AUTO-AIUTO E MUTUO-AIUTO

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I gruppi d’auto-aiuto e di mutuo-aiuto sono gruppi, tra persone che hanno in comune lo stesso problema e che, nel confronto paritario con gli altri, cercano di vivere momenti di condivisione, di solidarietà e di crescita.

All’interno del gruppo, ogni persona, che inizialmente si percepisce spesso solo come bisognosa d’aiuto, può sperimentare d’essere persona in grado di dare aiuto; da soggetto passivo, quindi, diviene soggetto attivo, verso se stesso e verso gli altri.

La caratteristica fondamentale del gruppo d’auto-aiuto, come già sottolineato, è l’essere un contesto paritario: l’assenza della guida di un conduttore professionista, permette a ciascun membro di non poter delegare all’esperto la responsabilità del proprio percorso e, dunque, la responsabilità complessiva di sé.

E’ prevista, comunque, la figura del facilitatore. Si tratta di un membro del gruppo, con un percorso di terapia significativo alle spalle, che ha seguito una specifica formazione, finalizzata a fornirgli gli strumenti di gestione della comunicazione, e che ha solo la funzione del facilitatore della comunicazione stessa. Con questo patrimonio conoscitivo ed esperienziale ed essendo, in più, portatore dello stesso problema degli altri, il facilitatore può permettersi di portare, all’interno del gruppo, il proprio vissuto emotivo e di utilizzare l’esperienza gruppale per la sua personale crescita.

Sintetizzando il gruppo di auto-aiuto offre:

accoglienza, solidarietà, incoraggiamento, sostegno
In questa prima fase, l’essere ascoltati (ascolto ricevuto) è la risposta, l’unica risposta, che si cerca; ed è ciò su cui si fonda la base sicura, che consente di passare ad una dimensione comprensiva anche dell’ascolto attivo.

empatia, affettività, confronto
Nella seconda fase, l’ascolto è divenuto attivo: l’altro è specchio di sé e in esso si ritrovano parti significative del proprio essere, della propria modalità di essere. All’altro si concede l’ascolto, nella misura in cui lo si richiede per sé: orizzontale, reciproco, non giudicante, privo di pregiudizi. E sano.

A differenza di un setting di terapia individuale o di terapia di gruppo, la democraticità del contesto di auto-aiuto ed il mettersi in gioco apertamente da parte di tutti i membri, consente a ciascuno di ascoltare in modo attivo e di poter rispondere, secondo modalità che via via si diversificano da quelle tipiche della propria vita fuori dal gruppo.

avanzamento nella consapevolezza, cambiamento
Il passaggio alla seconda fase accompagna, di conseguenza, la terza fase: quella dell’acquisizione di una consapevolezza maggiore e meno rigida di sé e dell’altro, e di conseguenza segna un cambiamento, che poi coincide con il maggior senso d’autoefficacia, benessere, capacità di trovare soluzioni ai propri problemi.

Come avviene ciò?

Come si è visto, fondamentalmente attraverso la relazione d’ascolto e risposta, o meglio l’evoluzione in tre tappe, della relazione di ascolto e risposta.

Una delle regole principali che il gruppo d’auto-aiuto si dà, dunque, è quella della sospensione del giudizio, del pregiudizio e dell’unico modello mentale, a favore della molteplicità dei punti di vista possibili.

Tale sospensione, oltre ad incoraggiare la libertà d’espressione e a facilitare il superamento della vergogna, crea le condizioni per l’accettazione dell’altro e, di riflesso, per l’accettazione di se stessi.

L’auto-aiuto coincide dunque con la possibilità reciproca di scoprirsi e con la possibilità reciproca di accettarsi.

Questo è un punto di fondamentale importanza nel susseguirsi delle tappe, che creano i cambiamenti auspicati da qualunque percorso d’auto-aiuto.

Non riteniamo che ciò che è altamente significativo, è che ognuno, senza dover aderire a delle verità presistemiche, può scoprire e vivere la propria verità; partiamo, cioè, dal presupposto che ognuno ha una sua risposta dentro, che non è applicabile a tutti gli altri.

L’impostazione di massimo ascolto, agli altri e a se stessi, permette proprio questo: l’individuazione, il riconoscimento, l’accettazione della propria identità. E non è poca cosa.

Gli obiettivi e i risultati sono spesso gli stessi ottenuti da una terapia individuale riuscita; ed è, tra l’altro, auspicabile l’integrazione tra questi due percorsi (naturalmente solo quando lo psicoterapeuta non lo viva come incompatibile).

In più, i gruppi d’auto-aiuto sono fruibili e accessibili, sia per i costi, che per l’abbattimento di parecchi limiti culturali, a molte più persone, pur sapendo non essere adeguati per la totalità.

Dott. Roberto Cavaliere

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AUTOSTIMA

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L’immagine che ognuno ha di sé stesso è un mosaico che si realizza sulla base delle risposte che riceviamo dagli altri, partendo dalla prima infanzia. Se ci viene chiesto troppo in termini di perfezionismo e successo si possono generare un Sé ideale e degli standard di comportamento ideale che possono causare grande insoddisfazione, in quanto solitamente irraggiungibili . Quando il Sé ideale, cioè l’idea di persona che ci piacerebbe essere, è troppo esagerato, si creano problemi di autostima.

Anche frasi svalutative come “Non sei buono a niente”, “Non porti a termine mai niente” o altre meno dirette e usate magari in buona fede, soprattutto se dette dai genitori e specialmente in tenera età, vengono conservati per tutta la vita e influenzano le nostre esperienze.

Ovviamente anche le successive relazioni interpersonali , il successo scolastico-lavorativo , il vissuto corporeo , sono molto importanti per lo sviluppo dell’autostima, dopo i 13 anni circa, però, solo esperienze molto forti possono modificare la direzione verso cui si sta sviluppando l’autostima di una persona.

Detto ciò, esistono tanti modi e tante tecniche per cercare di aumentare l’autostima , la cosa fondamentale però, prima di intraprendere qualsiasi strada, è arrivare ad una presa di coscienza riguardo se stessi, sul perché ci si comporta in un determinato modo, sulla consapevolezza che i nostri pensieri negativi diventano convinzioni e fatti concreti, che spetta solo a noi cambiare la nostra vita e cose del genere. Tutte cose che difficilmente una persona riesce a mettere a fuoco da sola, senza un supporto adeguato, perché, come è facilmente immaginabile, non basta dire certe cose perché queste vengano accettate ed assimilate da un’altra persona.

Un consiglio che mi sento di dare è di cercare di riflettere sui propri obiettivi e standard ideali, in modo tale da eliminare quelli irrealistici (probabilmente tali per la maggior parte delle persone, non solo noi!) e concentrare così tutte le nostre forze solo su quelli raggiungibili. Potrebbe essere utile cercare di realizzare qualcosa ogni giorno , poche cose ci gratificano come il raggiungimento di un traguardo!

La persona con alta autostima:

  1. È solitamente attiva ed assertiva di fronte alle richieste dell’ambiente;
  2. Presenta auto-accettazione , orgoglio e rispetto di sé ;
  3. Gode di una buona popolarità tra colleghi e conoscenti;
  4. E’ fiduciosa nelle proprie capacità ;
  5. E’ in grado di affrontare un eventuale giudizio negativo degli altri.

La persona con bassa autostima

  1. È solitamente passiva e sottomessa di fronte alle richieste dell’ambiente;
  2. Presenta spesso timidezza , senso di inferiorità , scarsa auto-accettazione ;
  3. Può manifestare ansia , depressione , disturbi psicosomatici ;
  4. Ha difficoltà nelle relazioni di amicizia ed è spesso solitaria ;
  5. Difficilmente manifesta il suo dissenso, non accetta le critiche mentre dà poca importanza ai giudizi positivi;
  6. Tende a passare inosservata in un gruppo;
  7. E’ eccessivamente attenta ai propri difetti .

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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