BATESON

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Perché i francesi agitano le braccia?
Figlia. Papà, perché i francesi agitano sempre le braccia?
Padre. Come, agitano le braccia?
F. Voglio dire, quando parlano. Perché agitano le braccia e fanno gesti?

P. A te cosa viene in mente quando vedi un francese che agita le braccia?
F. Penso che sembra un po’ sciocco, papà. Ma non credo che un altro francese la pensi così; non possono sembrarsi tutti sciocchi a vicenda. Perché, se fosse così, la smetterebbero; non ti pare?
P. Forse, ma questa non è una domanda semplice. Che cos’altro ti fanno venire in mente?
F. Be’… sembrano tutti eccitati…
P. Bene.., dunque “sciocchi” ed “eccitati”.
F. Ma sono veramente eccitati come sembrano? Se io fossi eccitata a quel modo, avrei voglia di ballare o cantare o dare un pugno sul naso a qualcuno.., loro invece continuano solo ad agitare le braccia. Non possono essere eccitati sul serio.

P. Be’… supponiamo che tu stia parlando con un francese e che lui stia agitando le braccia di qua e di là, e poi nel bel mezzo della conversazione, dopo che tu hai detto qualcosa, lui smetta improvvisamente di gesticolare, e parli soltanto. Che cosa penseresti? Che ha semplicemente smesso di essere sciocco ed eccitato?
F. No… mi spaventerei. Penserei di aver detto qualcosa
che lo ha offeso, e forse potrebbe essersi arrabbiato sul serio.
P. Già… e forse avresti ragione.
F. D’accordo… allora smettono di gesticolare quando cominciano ad arrabbiarsi.
P. Un momento. Dopo tutto il problema è di sapere che cosa un francese dice a un altro francese col suo gesticolare. E abbiamo già un pezzo della soluzione: … gli dice qualcosa su ciò che prova nei confronti dell’altro tizio. Gli dice che non è arrabbiato sul serio.., che vuole e può essere ciò che tu chiami i sciocco ..
F. Ma… no… questo non ha senso. Non può far tutto quel lavoro per poter dopo dire all’altro tizio che è arrabbiato solo tenendo le braccia ferme. Come fa a sapere che dopo si arrabbierà?
P. Non lo sa. Ma per ogni evenienza…
F. No, papà, non ha senso. Io non sorrido per poterti dopo dire che mi sono arrabbiata smettendo di sorridere.
P. E invece, credo che questo sia uno dei motivi per cui si sorride. E ci sono molte persone che sorridono per dirti che non sono arrabbiate

F. Quindi tu sostieni che tutto, nella conversazione, si riduce a dire agli altri che non si è arrabbiati con loro…
P. Ho detto così? No… non tutto nella conversazione, molto però sì. A volte, se i due interlocutori hanno voglia di ascoltare con attenzione, è possibile far qual cosa di più che non scambiarsi saluti e auguri. Si può addirittura far di più che scambiarsi informazioni: i due possono persino scoprire qualcosa che nessuno dei due prima sapeva.

F. Perché la gente non dice semplicemente: « Non ce l’ho con te » e la pianta lì?
P. Ah, ora arriviamo al vero problema. Il punto è che i messaggi che ci scambiamo coi gesti sono in realtà una cosa diversa da qualunque traduzione in parole che possiamo dare di quei gesti.
F. Non capisco.
P. Voglio dire… per quanto si dica a qualcuno, impiegando solo “parole pure e semplici”, che si è o non si è arrabbiati non è la stessa cosa che dirglielo con i gesti o con il tono della voce.
F. Ma, papà, non si possono dire parole senza un qualche tono di voce, no? Anche se uno usasse meno tono possibile, gli altri sentirebbero che lui sta esitando… e questo sarebbe una specie di tono, no?
P. Si, penso di sì. Dopo tutto è quello che ho detto poco fa sui gesti… che il francese può dire qualcosa di particolare smettendo di gesticolare… Il punto è che non esistono parole pure e semplici. Vi sono soltanto parole con gesti o con tono di voce o con qualcosa del genere. … Cioè l’idea che la lingua sia fatta di parole è tutta una balordaggine, e quando ho detto che i gesti non potrebbero esser tradotti in “parole pure e semplici”, ho detto una balordaggine, perché non esistono “parole pure e semplici”
E tutta la sintassi e la grammatica e tutta quella roba lì, è una balordaggine. È tutto basato sull’idea che esistano le parole pure e semplici … e invece non ci sono.
F. Ma, papà…
P. Ti dico… che dobbiamo ricominciare tutto da capo e supporre che una lingua sia prima di tutto un sistema di gesti. Dopo tutto gli animali hanno solo gesti e toni di voce… e le parole furono inventate più tardi. Molto più tardi.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 46
Quante cose sai?
Figlia. Papà, quante cose sai?
Padre. Eh? Uhm, so circa un chilo di cose…
F. Ma tu sai più cose del papà di Johnny? Sai più cose di me?
P. Uhm… una volta conoscevo un ragazzino in Inghilterra che chiese a suo padre: I padri sanno sempre più cose dei figli? » e il padre rispose: « Sì ». Poi il ragazzino chiese: « Papà, chi ha inventato la macchina a vapore? e il padre: « James Watt ». E allora il figlio gli ribatté: « Ma perché non l’ha inventata il padre di James Watt? ».
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 55
I rami del pensiero
F. Una volta ho fatto un esperimento.
P. Quale?
F. Volevo vedere se riuscivo a pensare due pensieri contemporaneamente. Allora pensai ‘È estate’ e pensai ‘È inverno’. E cercai di pensare alle due cose insieme.
P. Allora?
F. Ma mi accorsi che non stavo pensando due pensieri. Pensavo un solo pensiero a proposito di pensarne due.
P. Certo, è proprio così. Non si possono mescolare i pensieri, si possono solo combinare. E alla fin fine ciò significa che non li si può contare. Perché contare è proprio aggiungere semplicemente una cosa all’altra. E per i pensieri questo non lo si può fare assolutamente.
F. Allora veramente abbiamo un solo grande pensiero che ha tanti rami.., tanti e tanti e tanti rami?
P. Sì, penso di sì. Non so. Comunque penso che sia un modo più chiaro per dirlo. Cioè più chiaro che parlare di pezzi di sapere e cercare di contarli.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 61
La scatola nera
F. Papà, che cos’è una scatola nera?
P. Una ‘scatola nera’ è un accordo convenzionale tra gli scienziati perché a un certo punto si smetta di cercar di spiegare le cose. Di solito credo che sia un accordo temporaneo.
F. Ma detto così non ha l’aria di una scatola nera.
P. No… ma così l’hanno chiamata. Spesso le cose non rassomigliano ai loro nomi.
F. È vero.
P. È una parola introdotta dagli ingegneri. Quando disegnano lo schema di una macchina complicata, usano una specie di stenografia: invece di tracciare tutti i particolari, mettono una scatola al posto di un mucchio di parti e battezzano la scatola con un nome che indica ciò che quel mucchio di parti dovrebbe fare.
F. Allora una ‘scatola nera’ è un’etichetta per quello che tutte quelle parti dovrebbero fare…
P. Esatto. Ma non è una spiegazione di come quelle parti funzionano.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 77
Essere oggettivi sul sesso, ma non sull’amore
P. Il pensiero dovrebbe restare una parte del tutto, ma invece si diffonde e interferisce col resto. Affetta tutto e ne fa tanti pezzi.
F. Non ti capisco.
P. Be’, il primo taglio è tra la cosa oggettiva e il resto. E poi dentro la creatura che è costruita sul modello di intelletto, linguaggio e strumenti, è naturale che si sviluppi la finalità. Gli strumenti servono a certi fini, e tutto ciò che blocca la finalità è un impaccio. Il mondo della creatura oggettiva si divide in cose ‘utili’ e in cose nocive –
F. Sì, questo lo capisco.
P. Bene. Poi la creatura applica questa divisione al mondo dell’intera persona e l’ «utile» e il «nocivo» diventano il Bene e il Male, e con ciò il mondo è diviso tra Dio e il serpente. E poi, via via, si susseguono altre divisioni, perché l’intelletto continuamente classifica e ripartisce le cose.
F. Moltiplicando i principi esplicativi oltre il necessario?
P. Esatto.
F. Così è inevitabile che quando la creatura oggettiva guarda gli animali, divida le cose e renda gli animali simili a esseri umani dopo che l’intelletto ne abbia invaso l’anima.
P. Precisamente. È una specie di antropomorfismo inumano.
F. E questo è il motivo per cui le persone oggettive studiano tutti i piccoli folletti invece che le cose grandi?
P. Sì. Si chiama psicologia S-R. È facile essere oggettivi sul sesso, ma non sull’amore.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 89

I valori di un balinese
A Bali l’attività, piuttosto che essere finalizzata, cioè diretta verso qualche scopo futuro, è apprezzata di per sé. L’artista, il danzatore, il musicista e il prete a volte ricevono un compenso pecuniario per la loro attività professionale, ma solo raramente questo compenso è sufficiente a ripagare anche solo il tempo e i materiali impiegati dall’artista. Il compenso è un segno di apprezzamento, è una definizione del contesto in cui recita la compagnia teatrale, ma non è il suo sostegno economico. I guadagni della compagnia sono ad esempio messi da parte per comperare nuovi costumi, ma, al momento dell’acquisto, per mettere insieme la somma necessaria ogni membro deve di solito contribuire notevolmente al fondo comune. Analogamente, per quanto concerne le offerte che vengono portate al tempio in ogni festa non c’è alcun fine in questo enorme dispendio di lavoro artistico e di ricchezze materiali: il dio non concederà alcuna grazia per la bella ghirlanda di fiori e frutti che il fedele ha intrecciato per la ricorrenza annuale nel suo tempio, né si vendicherà delle omissioni. In luogo di uno scopo futuro, vi è una soddisfazione immediata e immanente nel compiere armoniosamente e con grazia, insieme con tutti gli altri, ciò che è giusto compiere in ogni contesto particolare.
In genere è evidente la soddisfazione provata nell’eseguire le cose alacremente e con gran concorso d’altra gente. D’altra parte l’essere espulsi dal gruppo è una tale sventura, che la minaccia di questa espulsione è una delle sanzioni più gravi nell’ambito della cultura.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 148
L’atteggiamento balinese potrebbe essere descritto come una abitudine a sequenze meccaniche ispirate da una costante sensazione di pericolo imminente sia pure indefinito, mentre il nostro potrebbe essere descritto, in termini analoghi, come una abitudine a sequenze meccaniche ispirate da una costante eccitazione per una imminente, sia pure indefinita, ricompensa…
Per quanto riguarda la componente di ricompensa, ritengo che non si tratti di un problema al di fuori della nostra portata. Se il balinese può essere mantenuto occupato e felice da una paura senza nome e senza forma, fuori dello spazio e del tempo, noi potremmo bene essere tenuti all’erta da una speranza di enormi raggiungimenti senza nome, forma e luogo. Perché una tale speranza sia efficace non è certo necessario che il suo oggetto sia chiaramente definito. È solo necessario essere sicuri che ad ogni momento il successo può trovarsi appena svoltato l’angolo e, vero o falso che sia, questo non potrà mai essere deciso. Ci incombe di diventare come quei pochi scienziati e artisti che lavorano sotto la spinta di questa urgenza ispiratrice, l’urgenza che nasce dal sentire che la grande scoperta, la risposta a tutti i nostri problemi, oppure la grande creazione, il sonetto perfetto, sono sempre appena fuori della nostra portata, o come una madre che sente che c’è vera speranza, purché vi si impegni costantemente, che il suo bambino diventi quel fenomeno infinitamente raro: una persona felice e grande.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 214

Stile e significato
Voglio occuparmi di quale importante informazione psichica si trovi nell’oggetto artistico a prescindere da ciò che esso possa ‘rappresentare’. È il fatto di rappresentare che è in sé significativo. I cavalli e i cervi estremamente realistici di Altamira non concernono certo le stesse premesse culturali che i neri contorni assai stilizzati di un periodo successivo. Il codice tramite il quale gli oggetti o le persone (o gli enti soprannaturali) percepiti sono trasformati in legno o in colori, è una sorgente d’informazione sull’artista e la sua cultura.
Sono proprio le regole della trasformazione che m’interessano: non il messaggio, ma il codice.
La mia indagine, dunque, non è sul significato del messaggio, quanto piuttosto sul significato del codice scelto. Ma ancora dev’essere definito questo vocabolo estremamente labile, ‘significato’.
Converrà, per cominciare, definire il significato nel modo più generale possibile.
‘Significato’ può essere considerato come un sinonimo approssimativo di struttura, ridondanza, informazione e ‘restrizione’, entro un paradigma del tipo seguente:
Si dirà che un qualunque aggregato di eventi od oggetti (ad esempio una successione di fonemi, un quadro, o una rana, o una cultura) contiene ‘ridondanza’ o ‘struttura’, se l’aggregato può essere diviso in qualche modo mediante un ‘segno di cesura’ talché un osservatore, il quale veda soltanto ciò che sta da una parte della cesura, possa congetturare, con esito migliore del puro caso, ciò che si trova dall’altra parte. Si può dire che ciò che sta da una parte della cesura contiene informazione o ha significato relativamente a ciò che sta dall’altra parte; ovvero, come dicono gl’ingegneri, che l’aggregato contiene ‘ridondanza’; o, ancora, dal punto di vista di un osservatore cibernetico, che l’informazione contenuta da una banda della cesura restringerà le previsioni errate, cioè ne ridurrà la probabilità.
Esempi:
Da un albero visibile sopra il suolo è possibile pronosticare l’esistenza di radici sotterranee: la cima fornisce informazione sull’estremità opposta.
Da come il capufficio si è comportato ieri, è pronosticabile come si comporterà oggi.
L’essenza e la raison d’étre della comunicazione è la creazione di ridondanza, di significato, di struttura, prevedibilità, informazione e la riduzione della componente casuale mediante ‘restrizioni’.
Ritengo che sia d’importanza fondamentale possedere un sistema concettuale che ci costringa a vedere il ‘messaggio’ (p. es. l’oggetto artistico) sia come in sé internamente strutturato, sia come parte esso stesso di un più vasto universo strutturato: la cultura o qualche sua parte.
Si ritiene che le caratteristiche delle opere d’arte si riferiscano a altre caratteristiche dei sistemi culturali o psicologici, o parzialmente ne derivino, o ne siano determinate. Il nostro problema potrebbe quindi essere rappresentato in modo molto schematico mediante il seguente diagramma:
[Caratteristiche dell’opera d’arte / Caratteristiche del resto della cultura]
ove le parentesi quadre racchiudono l’universo di pertinenza e la barra obliqua rappresenta una cesura attraverso la quale è possibile qualche previsfone, in una o in tutte e due le direzioni. Il problema è allora quello di specificare quali tipi di relazioni, corrispondenze, ecc., attraversano o trascendono questa barra obliqua.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 164

La coscienza deve essere sempre limitata
La coscienza, per ovvie ragioni meccaniche, dev’essere sempre limitata a una frazione piuttosto ridotta del processo mentale. Se è davvero utile, dev’essere perciò lesinata. La non-coscienza associata all’abitudine è un’economia sia di pensiero che di coscienza: e lo stesso vale per l’inaccessibilità del processo di percezione. L’organismo conscio non ha bisogno (ai fini pragmatici) di sapere come percepisce, ma solo di sapere che cosa percepisce.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 170
La relazione mappa-territorio
Un problema collegato a questo nell’evoluzione della comunicazione riguarda l’origine di ciò che Korzybski ha chiamato la relazione mappa-territorio: il fatto che un messaggio, di qualunque genere, non consiste degli oggetti che esso denota («La parola ‘gatto’ non ci può graffiare»). Il linguaggio, piuttosto, sta con gli oggetti che denota in una relazione paragonabile a quella esistente tra la mappa e il territorio. La comunicazione enunciativa, così come si presenta a livello umano, è possibile solo in seguito allo sviluppo di un insieme complesso di regole metalinguistiche (ma non verbalizzate) che governano le relazioni tra parole e proposizioni da una parte e oggetti ed eventi dall’altra.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 220

Le regole durante la psicoterapia
La dipendenza della psicoterapia dai modi in cui sono trattati gli inquadramenti segue dal fatto che la terapia è un tentativo di mutare le abitudini metacomunicative del paziente. Prima della terapia, il paziente pensa e agisce in base a un insieme di regole per la costruzione e la comprensione dei messaggi; dopo una terapia riuscita, il paziente opera in base a un diverso insieme di regole. (In generale, regole di questo tipo non vengono verbalizzate e restano inconscie, sia prima sia dopo). Ne segue che, nello svolgimento della terapia, dev’essersi svolta comunicazione a un livello meta rispetto a queste regole; dev’essersi svolta comunicazione su un cambiamento delle regole.
Ma una siffatta comunicazione relativa al cambiamento non potrebbe in alcun modo verificarsi mediante messaggi del tipo permesso dalle regole metacomunicative del paziente, così com’erano prima o come sono dopo la terapia.
È stata avanzata, sopra, l’ipotesi che i paradossi del gioco siano caratteristici di una fase evolutiva; qui avanziamo l’ipotesi che paradossi simili siano un ingrediente necessario di quel processo di cambiamento che chiamiamo psicoterapia.
In effetti la somiglianza tra il processo terapeutico e il fenomeno del gioco è profonda: ambedue avvengono all’interno di una cornice psicologica limitata, limite spazio-temporale di una classe di messaggi interattivi; tanto nel gioco quanto nella terapia i messaggi stanno in una relazione speciale e peculiare con una realtà più concreta o basilare. Proprio come lo pseudo-combattimento del gioco non è combattimento reale, così lo pseudo-amore e lo pseudo-odio della terapia non sono amore e odio reali. Il « transfert è distinto dall’amore e dall’odio reali da segnali che si richiamano alla cornice psicologica, e in effetti è quest’inquadramento che permette al transfert di raggiungere la sua piena intensità e di essere discusso tra paziente e terapeuta.
Le caratteristiche formali della vicenda terapeutica possono essere illustrate mediante la costruzione di un modello in più fasi. Immaginiamo dapprima due giocatori che iniziano una partita a canasta secondo un normale insieme di regole. Finché queste regole vigono e non sono contestate dai due giocatori, il gioco non muta, cioè non interviene alcun cambiamento terapeutico. (In effetti molti tentativi terapeutici falliscono per questo motivo). Possiamo immaginare, tuttavia, che a un certo punto i due giocatori di canasta smettano di giocare e intavolino una discussione sulle regole. Il loro discorso è ora di un tipo logico diverso da quello del loro gioco; possiamo immaginare che, alla fine della discussione, essi si rimettano a giocare, ma con regole diverse.
Questa successione di eventi, tuttavia, è ancora un modello imperfetto dell’interazione terapeutica, per quanto illustri il nostro convincimento che la terapia implichi di necessità una combinazione di tipi logici di discorso tra loro diversi. I nostri giocatori immaginari hanno evitato il paradosso separando la discussione sulle regole dal gioco; ed è proprio questa separazione che è impossibile in psicoterapia. A nostro modo di vedere, la vicenda psicoterapica è un’interazione incorniciata tra due persone, in cui le regole sono implicite, ma suscettibili di cambiamento. Un tale cambiamento può essere proposto solo da un’azione sperimentale, ma una qualunque azione siffatta, in cui sia implicita una proposta di cambiamento delle regole, è essa stessa parte del gioco che si sta svolgendo. È da questa combinazione di tipi logici all’interno del singolo atto significativo che la terapia assume il carattere non di un gioco rigido com’è la canasta, ma al contrario di un sistema d’interazione che si evolve. Il gioco dei gattini o delle lontre ha questo carattere.
Attraverso il procedimento dell’interpretazione, il nevrotico è condotto a inserire la clausola ‘come se’ nelle produzioni del suo processo primario, produzioni che egli aveva prima riprovato o represso. Il paziente deve imparare che la fantasia contiene verità…
…Riteniamo, viceversa, che i paradossi dell’astrazione debbano intervenire in tutte le comunicazioni più complesse di quelle dei segnali di umore, e che senza questi paradossi l’evoluzione della comunicazione si arresterebbe. La vita sarebbe allora uno scambio senza fine di messaggi stilizzati, un gioco con regole rigide e senza la consolazione del cambiamento o dell’umorismo.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 236

EFFETTI DEL DOPPIO VINCOLO
Nel buddismo Zen si persegue lo scopo di raggiungere l’illuminazione, che il maestro Zen tenta in vari modi di indurre nel suo discepolo. Ad esempio, il maestro alza un bastone sulla testa del discepolo, e gli dice con tono minaccioso: Se tu dici che questo bastone è reale, ti colpisco. Se tu dici che questo bastone non è reale, ti colpisco. Se non dici nulla, ti colpisco ». A noi sembra che lo schizofrenico si trovi continuamente nella stessa situazione del discepolo, ma invece di raggiungere l’illuminazione, egli raggiunge piuttosto qualcosa di simile al disorientamento. Il discepolo Zen potrebbe anche stendere il braccio e strappare il bastone al maestro (il quale potrebbe accettare questa risposta), ma allo schizofrenico questa scelta è preclusa, poiché per lui il rapporto con la madre è importante, e inoltre gli scopi e la consapevolezza della madre non assomigliano a quelli del maestro.
Noi avanziamo l’ipotesi che, ogni volta che un individuo si trova in una situazione di doppio vincolo, la sua capacità di discriminazione fra tipi logici subisca un collasso. Le caratteristiche generali di questa situazione sono le seguenti:
1. L’individuo è coinvolto in un rapporto intenso, cioè un rapporto in cui egli sente che è d’importanza vitale saper distinguere con precisione il genere del messaggio che gli viene comunicato, in modo da poter rispondere in modo appropriato.
2. E, inoltre, l’individuo si trova prigioniero di una situazione in cui l’altra persona che partecipa al rapporto emette allo stesso tempo messaggi di due ordini, uno dei quali nega l’altro.
3. E, infine, l’individuo è incapace di analizzare i messaggi che vengono emessi, al fine di migliorare la sua capacità di discriminare a quale ordine di messaggio debba rispondere; cioè egli non è in grado di produrre un enunciato metacomunicativo.
Abbiamo avanzato l’ipotesi che questo sia il genere di situazione esistente tra il pre-schizofrenico e sua madre; tuttavia è una situazione che si presenta anche nei rapporti normali. Quando una persona resta intrappolata in una situazione di doppio vincolo, avrà reazioni di tipo difensivo, simili a quelle dello schizofrenico. Un individuo prenderà per letterale un’asserzione metaforica, qualora si trovi in una situazione che lo costringe a rispondere, quando si trovi di fronte a messaggi contraddittori e quando non sia in grado di analizzare le contraddizioni. Ad esempio, un giorno un impiegato se ne andò a casa durante l’orario d’ufficio, e a un amico che gli aveva telefonato, chiedendogli in tono scherzoso: “Be’, che stai facendo li?” rispose: “Sto parlando con te”. La risposta fu letterale, perché l’impiegato si trovava di fronte a un messaggio con cui gli si chiedeva che cosa facesse a casa quando si sarebbe dovuto trovare in ufficio, ma che allo stesso tempo negava questa domanda per il modo in cui era formulato (poiché il collega capiva che in fondo non erano affari suoi, aveva parlato metaforicamente). Il rapporto era abbastanza intenso da rendere la vittima incerta sul modo in cui l’informazione sarebbe stata usata, e perciò la risposta fu letterale. Ciò rappresenta una caratteristica di chiunque si senta al centro dell’attenzione, come dimostrano le risposte accuratamente letterali dei testimoni interrogati in tribunale; lo schizofrenico si sente sempre così acutamente esposto all’attenzione altrui, da dare abitualmente risposte letterali, con insistenza difensiva, quando ciò è affatto fuori posto, per esempio quando qualcuno sta scherzando.
Inoltre gli schizofrenici confondono il letterale e il metaforico nei loro stessi messaggi, qualora si sentano presi in un doppio vincolo. Ad esempio, un paziente può desiderare di criticare il medico, che è giunto tardi a un appuntamento, ma allo stesso tempo può avere dei dubbi sul significato di questo ritardo, specialmente se il medico ha prevenuto la reazione del paziente e si è scusato per l’accaduto. Il paziente non può dire: “Perché questo ritardo? Forse perché oggi non voleva vedermi?”, poiché questa sarebbe un’accusa; e quindi ricorre a un enunciato metaforico. Allora, magari, dice: “Conoscevo un tizio che un giorno perse il battello; si chiamava Sam, e il battello quasi affondò…, ecc. “. Così egli elabora un racconto metaforico, in cui il medico può cogliere oppure no un commento sul suo ritardo. La comodità di usare una metafora è che si lascia al medico (o alla madre) la decisione di vedere nell’enunciato un’accusa, oppure di ignorarla.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 253

Doppio vincolo e innovazioni nella tecnica terapeutica
La comprensione del doppio vincolo e dei suoi aspetti comunicativi può condurre a innovazioni nella tecnica terapeutica. È difficile dire in che cosa potrebbero consistere tali innovazioni, ma, sulla base della nostra indagine, riteniamo che situazioni di doppio vincolo si presentino continuamente in psicoterapia. A volte esse sono inavvertite, nel senso che lo psichiatra impone una situazione di doppio vincolo simile a quella già esistente nella storia del paziente, o è il paziente che impone una situazione di doppio vincolo allo psichiatra. In altri casi sembra che i medici creino, deliberatamente o d’intuito, doppi vincoli, che costringono il paziente a reagire in modo diverso che per il passato.
Un episodio che accadde a una valente psichiatra illustra come si possa comprendere intuitivamente una sequenza comunicativa di doppio vincolo. La dottoressa Frieda Fromm-Reichmann curava una ragazza che fin dall’età di sette anni si era costruita una sua religione, pullulante di potenti dèi. Era profondamente schizofrenica e assai riluttante ad abbandonarsi alla terapia; all’inizio della cura la paziente disse: « Il dio R dice che io non devo parlare con lei »; la Fromm-Reichmann replicò: i Senti, mettiamo nero su bianco. Per me il dio R non esiste, anzi, tutto il tuo mondo non esiste. Per te invece esiste, e lungi da me l’idea di potertene allontanare; non me lo sogno nemmeno. Perciò io ti parlerò in termini di quel mondo solo se tu capirai che lo faccio allo scopo di mettere bene in chiaro che per me non esiste. Ora va’ dal dio R e digli che noi due dobbiamo parlarci, e che ti dia il permesso. Digli anche che io sono un medico e che tu sei vissuta con lui nel suo regno dai sette ai sedici anni, cioè per nove anni, e che lui non ti ha dato nessun aiuto. Quindi ora deve lasciare che provi io, per vedere se tu e io insieme riusciamo a farcela. Digli che io sono un medico e che questo è ciò che voglio tentare).
La psichiatra ha posto la sua paziente in un i doppio vincolo terapeutico). Se la sua paziente comincia a dubitare della sua fede nel dio, allora comincia anche a trovarsi d’accordo con la dottoressa e ammette di essersi impegnata nella terapia. Se viceversa insiste nell’affermare la realtà del dio R, allora è obbligata a dirgli che la dottoressa è ‘più potente’ di lui, e, anche per questa via, ammette il suo impegno con la terapeuta.
La differenza tra il doppio vincolo terapeutico e quello originale consiste in parte nel fatto che lo psichiatra non è personalmente impegnato in una battaglia d’importanza vitale, e pertanto può costruire dei doppi vincoli relativamente benigni e aiutare pian piano il paziente a liberarsene.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 275

La teoria del doppio vincolo
Non ha senso dire che un uomo è stato spaventato da un leone, perché un leone non è un’idea. Di questo leone l’uomo si costruisce un’idea.
Il mondo esplicativo della sostanza non può richiamarsi né a differenze nè a idee, ma solo a forze e urti; e, viceversa, il mondo della forma e della comunicazione non si richiama a oggetti, forze o urti, ma soltanto a differenze e idee. (Una differenza che genera una differenza è un’idea; è un ‘bit’, cioè un’unità d’informazione).
Ma tutto ciò lo appresi solo in seguito, e fu la teoria del doppio vincolo che mi permise di apprenderlo. A loro volta, ovviamente, queste cose sono implicite nella teoria, la quale senza di esse avrebbe difficilmente potuto essere fondata.
Il nostro lavoro originale sul doppio vincolo contiene numerosi errori, dovuti semplicemente alla mancanza di un esame articolato del problema della reificazione. In quel lavoro un doppio vincolo viene trattato come un ‘qualcosa’, e se ne parla come se questi ‘qualcosa’ potessero essere contati.
Ciò naturalmente non ha senso: non si possono contare i pipistrelli contenuti in una macchia d’inchiostro, dal momento che non ce ne sono; eppure, se uno ha un debole per i pipistrelli, può ‘vederne’ parecchi.
Ma nella mente ci sono doppi vincoli? La domanda non è futile. Così come nella mente non ci sono noci di cocco, ma solo percezioni e trasformate di noci di cocco, allo stesso modo, quando percepisco (consciamente o inconsciamente) un doppio vincolo nel comportamento del mio principale, la mia mente non acquisisce un doppio vincolo, ma solo una percezione o trasformata di doppio vincolo. E questo non è l’oggetto della teoria.
Stiamo piuttosto parlando di certi grovigli nelle regole
preposte alla costruzione delle trasformate e, insieme, dell’acquisizione o conservazione di tali grovigli. La teoria del doppio vincolo afferma che una componente dovuta all’esperienza è presente nella determinazione o eziologia
dei sintomi sia della schizofrenia sia di modelli comportamentali affini, come il comico, l’artistico, il poetico, ecc.
Si osservi che la teoria non distingue tra questi sottogeneri: non viene fornito alcun criterio per decidere se un individuo diventerà un pagliaccio, un poeta, uno schizofrenico o una combinazione di tutto ciò. Non si ha a che fare con una sindrome specifica, ma con una famiglia di sindromi, di cui la maggior parte non sono, tradizionalmente, considerate patologiche.
Per qualificare in generale questa famiglia di sindromi, conierò il termine «transcontestuale».
Sembra che ci sia un tratto in comune fra coloro che sono dotati di qualità transcontestuali e coloro che sono afflitti da confusioni transcontestuali per tutti costoro, sempre o spesso, c’è una ‘sovrimpressione’ una foglia che cade, un amico che saluta, o una ‘primula sulla sponda del fiume’, non sono mai ‘questo e nulla più’. Esperienze esterne possono essere inquadrate nel contesto di un sogno, e, viceversa, pensieri interni possono essere proiettati in contesti del mondo esterno, e così via. È nell’apprendimento e nell’esperienza che cerchiamo una parziale spiegazione di tutto ciò.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 295

Apprendiamo ad apprendere
Tutti i sistemi biologici (organismi e organizzazioni sociali o ecologiche di organismi) sono suscettibili di cambiamenti adattativi che assumono molte forme (risposta, apprendimento, successione ecologica, evoluzione biologica, evoluzione culturale, ecc.), secondo le dimensioni e la complessità del sistema considerato.
Qualunque sia il sistema, tuttavia, i cambiamenti adattativi dipendono da anelli di reazione, siano essi quelli della selezione naturale o quelli del rinforzo individuale; di conseguenza il sistema deve sempre adottare un procedimento per tentativi ed errori e impiegare un meccanismo di confronto.
Ma il procedimento per tentativi ed errori implica sempre degli errori, i quali rappresentano sempre, dal punto di vista biologico o psichico, un costo. La conseguenza è che i cambiamenti adattativi devono essere sempre gerarchici.
C’è bisogno dunque non solo di quel cambiamento del primo ordine che soddisfa la richiesta ambientale (o fisiologica) immediata, ma anche di cambiamenti del secondo ordine, i quali ridurranno la quantità dei tentativi necessari per portare a compimento il cambiamento del primo ordine, ecc. Mediante la sovrapposizione e l’interconnessione di molti anelli di reazione, noi (e come noi tutti gli altri sistemi biologici) non solo risolviamo problemi specifici, ma ci formiamo abitudini che applichiamo alla soluzione di classi di problemi. Ci comportiamo come se un’intera classe di problemi potesse essere risolta sulla base di ipotesi e premesse meno numerose dei problemi della classe; in altre parole noi (organismi) apprendiamo ad apprendere, o, con termine più tecnico, deutero-apprendiamo.
Il risparmio sta proprio nel non riesaminare o riscoprire le premesse di un’abitudine
Ma le abitudini, com’è noto, sono rigide, e questa loro rigidità è una conseguenza inevitabile della posizione che esse occupano nella gerarchia dell’adattamento. Il risparmio, in termini di tentativi ripetuti, che ci procura il formarsi di abitudini è possibile proprio perché esse sono programmate in modo relativamente rigido: il risparmio sta proprio nel non riesaminare o riscoprire le premesse di un’abitudine ogni volta che di tale abitudine ci serviamo. Si può dire che queste premesse sono in parte ‘inconscie’, oppure, se si vuole, che si è presa l’abitudine di non esaminarle. È importante osservare, inoltre, che le premesse dell’abitudine sono, quasi di necessità, astratte. Ogni problema è, in qualche misura, diverso da ogni altro, e quindi la sua descrizione o la sua rappresentazione della mente conterrà proposizioni uniche. Sarebbe evidentemente errato abbassare queste proposizioni uniche al livello di premesse delle abitudini, dal momento che un’abitudine può essere applicata con successo solo a proposizioni aventi un grado di verità generale o ripetitivo, e di solito queste ultime proposizioni sono a un livello di astrazione relativamente elevato.’
Ora, le proposizioni particolari che io ritengo importanti nella determinazione delle sindromi transcontestuali sono quelle astrazioni formali che descrivono e determinano un rapporto interpersonale.
Ho detto « descrivono e determinano », ma anche questo non è esatto; sarebbe meglio dire che il rapporto è lo scambio di questi messaggi, ovvero che il rapporto è immanente in questi messaggi.
Di solito gli psicologi parlano come se le astrazioni di certi rapporti (‘ dipendenza, ‘ ostilità ‘, ‘ amore’, ecc.) fossero oggetti reali da dover descrivere o ‘esprimere’ mediante messaggi. Ma questa è epistemologia all’incontrario: in verità, sono i messaggi che costituiscono il rapporto, e termini come ‘dipendenza’ sono descrizioni verbalmente codificate di strutture immanenti nella combinazione dei messaggi scambiati.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 301

Nel rapporto terapeutico il medico può tentare una o più delle mosse
Nell’ambito controllato e protetto del rapporto terapeutico, il medico può tentare una o più delle seguenti mosse:
a) può eseguire un confronto tra le premesse del paziente e quelle del medico, il quale sarà scrupolosamente allenato a non cadere nella trappola di convalidare le vecchie premesse;
b) può far si che il paziente agisca, nel gabinetto medico o fuori, in maniere che chiamino direttamente in causa le proprie premesse;
c) può dimostrare l’esistenza di contraddizioni fra le premesse che in quel momento reggono il comportamento del paziente;
d) può indurre nel paziente qualche esagerazione o caricatura (per esempio nel sogno o nell’ipnosi) di esperienze basate sulle sue vecchie premesse.
Come notò William Blake molto tempo fa: « Senza Contrari non vi è progresso». (Altrove ho chiamato i doppi vincoli » queste contraddizioni al livello 2).
Ma vi sono sempre scappatoie che permettono di ridurre l’effetto d’urto delle contraddizioni.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 331

LA PAROLA NON SOSTITUISCE I GESTI
Quando l’esecuzione di una data funzione è affidata a qualche metodo nuovo e più efficace, il vecchio metodo va in disuso e decade. La tecnica di fabbricare armi lavorando la selce decadde quando vennero in uso i metalli.
Questo decadimento di organi e abilità per effetto della sostituzione evolutiva è un fenomeno sistemico necessario e inevitabile. Se, dunque, il linguaggio verbale fosse in un qualche senso un sostituto evolutivo della comunicazione cinetica e paralinguistica, ci si dovrebbe aspettare che i vecchi sistemi prevalentemente iconici fossero notevolmente decaduti. Ma evidentemente non è stato così. Al contrario, la cinetica dell’uomo è diventata più ricca e complessa, e il paralinguaggio è riccamente fiorito parallelamente all’evoluzione del linguaggio verbale. Tanto la comunicazione cinetica quanto il paralinguaggio sono stati elaborati in complesse forme artistiche, musicali, poetiche, di danza e via dicendo, e, anche nella vita quotidiana, le sottigliezze della comunicazione cinetica umana, della mimica facciale e dell’intonazione vocale superano di gran lunga tutto ciò che, per quanto se ne sa. possa fare qualunque altro animale. Il sogno dei logici, cioè che gli uomini debbano comunicare tra loro soltanto per mezzo di segnali discreti non ambigui, non si è avverato e probabilmente non si avvererà.
Avanzo l’ipotesi che questa fiorente evoluzione della cinetica e del paralinguaggio separata ma parallela a quella del linguaggio verbale indichi che la nostra comunicazione iconica provvede a funzioni del tutto diverse da quelle del linguaggio, e, di fatto, svolge funzioni che il linguaggio verbale non è adatto a svolgere.
Quando un giovane dice a una ragazza: « Ti amo », egli impiega delle parole per esprimere ciò che, in modo più convincente, è espresso dal tono della sua voce e dai suoi movimenti; e la ragazza, se ha un briciolo di buon senso, presterà più attenzione a quei segni accompagnatori che alle parole. Vi sono persone — attori professionisti, imbroglioni, e altri — capaci di usare la mimica e la comunicazione paralinguistica con un grado di controllo volontario paragonabile al controllo volontario che tutti noi riteniamo di possedere sull’impiego delle parole. Per queste persone, che possono mentire con la cinetica, la particolare utilità della comunicazione non verbale è ridotta. Per loro è un po’ più difficile essere sinceri, e ancora più difficile esser creduti sinceri. Essi sono intrappolati in un processo di restituzioni decrescenti, tale che, quando non sono creduti, cercano di aumentare la loro abilità nella simulazione della sincerità paralinguistica e cinetica. Sennonché è stata proprio quest’abilità che ha portato gli altri a diffidare di loro.
A quanto sembra, il discorso della comunicazione non verbale riguarda precisamente questioni di relazione
— amore, odio, rispetto, timore, dipendenza, ecc. — tra l’io e un interlocutore, o tra l’io e l’ambiente, e la natura della società umana è tale che la falsificazione di questo discorso fa rapidamente insorgere patologie. Dal punto di vista dell’adattamento, è quindi importante che tale discorso venga svolto mediante tecniche relativamente inconscie e solo parzialmente soggette a controllo volontario. Nel linguaggio della neurofisiologia, i controlli di questo discorso debbono essere posti nel cervello in appendice ai controlli del linguaggio vero e proprio.
Se questa visione generale del problema è corretta, ne segue che la traduzione in parole di messaggi cinetici o paralinguistici introdurrà probabilmente una grossolana falsificazione dovuta sia all’umana propensione a tentare di falsificare le asserzioni relative ai ‘sentimenti’ e alle relazioni, sia alle distorsioni che insorgono quando i prodotti di un sistema di codificazione sono notomizzati in base alle premesse di un altro, sia — e in particolar modo —al fatto che tutte le traduzioni di questo tipo debbono dare al messaggio iconico, più o meno inconscio e involontano, l’aspetto di un’intenzione conscia.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 423

La natura cibernetica dell’io e del mondo tende a essere non percepita dalla coscienza
14. Si avanza l’ipotesi che la natura specifica di questa distorsione sia tale che la natura cibernetica dell’io e del mondo tenda a essere non percepita dalla coscienza, in quanto i contenuti dello ‘schermo’ della coscienza sono determinati da considerazioni di finalità. La formulazione della finalità tende ad assumere la forma seguente: « D è desiderabile; B conduce a C; C conduce a D; quindi D può essere raggiunto tramite B e C ». Ma se la mente complessiva e il mondo esterno non posseggono in generale questa struttura rettilinea, allora imponendo loro a forza questa struttura, ci impediamo di scorgere le circolarità cibernetiche dell’io e del mondo esterno. Il nostro campionamento cosciente di dati non ci paleserà circuiti completi, ma solo archi di circuiti, rescissi dalla loro matrice grazie alla nostra attenzione selettiva. In particolare il tentativo di indurre un cambiamento in una data variabile, situata o nell’io o nell’ambiente, sarà probabilmente intrapreso senza comprendere la rete omeostatica che circonda quella variabile. Le considerazioni tratteggiate nei paragrafi dall’1 al 7 di questo saggio saranno in quell’occasione ignorate. Può darsi che per la saggezza sia essenziale correggere in qualche modo le ristrette visioni finalistiche.
15. La funzione della coscienza nell’accoppiamento tra l’uomo e i sistemi omeostatici che lo circondano, non è, ovviamente, un fenomeno nuovo. Tuttavia tre circostanze rendono urgente un’indagine di questo fenomeno.
16. In primo luogo, il costume proprio dell’uomo di cambiare il suo ambiente piuttosto che se stesso.

L’uomo, il modificatore di ambiente per eccellenza, crea analogamente ecosistemi a specie singola nelle sue città, ma va oltre, stabilendo ambienti speciali per i suoi simbionti. Questi ambienti, a loro volta, divengono ecosistemi a specie singola: campi di grano, colture di batteri, allevamenti di polli, colonie di cavie, e cosi via.
17. L’uomo cosciente, in quanto modificatore del suo ambiente, è ora pienamente in grado di devastare se stesso e quell’ambiente… con le migliori intenzioni coscienti.
18. In terzo luogo, negli ultimi cent’anni si è manifestato un curioso fenomeno sociologico che forse minaccia di isolare la finalità cosciente da molti processi correttivi che potrebbero scaturire da parti meno coscienti della mente. Il quadro sociale è oggi caratterizzato dall’esistenza di un gran numero di entità auto-massimizzanti che, dal punto di vista giuridico, hanno piùo meno lo stato di persone ‘ (trusts, società, partiti politici, sindacati, compagnie commerciali e finanziarie, nazioni, e simili). Nella realtà biologica, queste entità non sono affatto persone e non sono neppure aggregati di persone intiere: sono aggregati di parti di persone. Quando il signor Rossi entra nella sala del consiglio della sua società, egli deve limitare strettamente il suo pensiero ai fini specifici della società o a quelli di quella parte della società che egli ‘rappresenta’. Per fortuna non gli è del tutto possibile far ciò e alcune decisioni della società sono influenzate da considerazioni che scaturiscono da parti più ampie e più sagge della mente. Ma, idealmente, il signor Rossi dovrebbe agire come una coscienza pura, senza correttivi: una creatura disumanizzata.
19. È opportuno ricordare infine alcuni dei fattori che possono fungere da correttivi. Di questi, senza dubbio, il più importante è l’amore. Martin Buber ha classificato i rapporti interpersonali in modo interessante. Egli distingue i rapporti ‘io-tu’ da quelli ‘io-esso’, che sono i modelli d’interazione normale tra l’uomo e gli oggetti inanimati. Egli riguarda la relazione ‘io-esso’ anche come caratteristica di quei rapporti umani in cui il fine è più importante dell’amore. Ma se la complessa struttura cibernetica della società e degli ecosistemi partecipasse in qualche misura di caratteristiche vitali, ne seguirebbe che sarebbe concepibile una relazione ‘io-tu’ fra l’uomo e la sua società. A questo proposito è interessante la formazione di ‘gruppi di sensibilità’ in molte organizzazioni spersonalizzate.
b) Le arti figurative, la poesia, la musica, le lettere, analogamente, sono campi in cui è attiva una porzione della mente maggiore di quanto ammetterebbe la pura coscienza. « Le coeur a ses razsons que la raison ne connait point ».
c) Il contatto tra l’uomo e gli animali e tra l’uomo e la natura nutre forse, talvolta, la saggezza.
d) Vi è la religione.
Forma, sostanza e differenza
L’unità di sopravvivenza è il complesso flessibile organismo-nel-suo-ambiente.
Le differenze sono le cose che vengono riportate sulla mappa.
Ma che cos’è una differenza? Una differenza è un’entità astratta.
Nelle scienze fisiche gli effetti, in generale, sono causati da condizioni o eventi piuttosto concreti: urti, forze e così via. Ma quando si entra nel mondo della comunicazione, dell’organizzazione, eccetera, ci si lascia alle spalle l’intero mondo in cui gli effetti sono prodotti da forze, urti e scambi di energia. Si entra in un mondo in cui gli ‘effetti’ (e non sono sicuro che si debba usare la stessa parola) sono prodotti da differenze. Cioè essi sono prodotti da quel tipo di ‘cosa’ che viene trasferita dal territorio alla mappa. Questa è la differenza.
La differenza si trasferisce dal legno e dalla carta nella mia retina; qui viene rilevata ed elaborata da quella bizzarra macchina calcolatrice che è nella mia testa.
La relazione energetica è interamente diversa. Nel mondo della mente il nulla — ciò che non esiste — può essere una causa. Nelle scienze fisiche noi ricerchiamo le cause, e ci aspettiamo che queste esistano e siano ‘reali’. Ma si rammenti che zero è diverso da uno, e poiché zero è diverso da uno, zero può essere una causa nel mondo della psicologia, nel mondo della comunicazione. Una lettera che non viene scritta può ricevere una risposta incollerita; e un modulo di dichiarazione dei redditi che non viene compilato può indurre a un’energica azione gli impiegati del Fisco, dal momento che anch’essi fanno colazione, pranzo, merenda e cena, e possono reagire con l’energia che traggono dal loro metabolismo. Una lettera mai esistita non può essere fonte di energia.
In effetti ciò che intendiamo per informazione (per unità elementare d’informazione) è una differenza che produce una differenza ed è in grado di produrre una differenza perché i canali neurali, lungo i quali essa viaggia e viene continuamente trasformata, sono anch’essi dotati di energia. Questi canali sono pronti per essere innescati.
Il pleroma e la creatura
C.G. Jung scrisse un libriccino assai curioso intitolato Septem Sermones ad Mortuos, Sette sermoni ai morti. Lo firmò ‘Basilide’, famoso gnostico alessandrino del II secolo.
Egli osserva che vi sono due mondi. Noi potremmo chiamati due mondi esplicativi, lui invece li battezza il pleroma e la creatura, che sono termini gnostici. Il pleroma è il mondo in cui gli eventi sono causati da forze e urti e nel quale non vi sono ‘distinzioni’, o, come direi io, ‘differenze’. Nella creatura, gli effetti sono provocati proprio dalla differenza. In effetti, eccoci davanti la solita vecchia dicotomia tra mente e sostanza.
Possiamo studiare e descrivere il pleroma, ma in ogni caso le distinzioni che tracciamo sono attribuite al pleroma da noi. Il pleroma non sa nulla di differenze e distinzioni; esso non contiene alcuna ‘idea’ nel senso in cui io impiego il termine. Quando studiamo e descriviamo la creatura, dobbiamo identificare in modo corretto le differenze agenti nel suo interno.
Direi che “pleroma” e ”creatura” sono termini che si potrebbero utilmente adottare; quindi mette conto di considerare i ponti che collegano questi due ‘mondi’. Dire che le ‘scienze fisiche’ si occupano solo del pleroma e che le scienze della mente si occupano solo della creatura è un’eccessiva semplificazione. Le cose sono un po’ più complicate.

La creatura è quindi il mondo visto come mente, ogni volta che questa visione sia appropriata. E ogni volta che questa visione è appropriata, interviene una complessità di un tipo che manca nella descrizione pleromatica: la descrizione della creatura è sempre gerarchica.
Ma tra le differenze vi sono differenze. Ogni differenza efficace denota una demarcazione, una linea di classificazione, e tutte le classificazioni sono gerarchiche. In altre parole, le differenze debbono a loro volta esser differenziate e classificate.
Con una di queste classi avete tutti familiarità; precisamente la classe delle differenze che sono create dal processo di trasformazione per il quale le differenze immanenti nel territorio diventano differenze immanenti nella mappa. In un angolo di ogni mappa che si rispetti si troveranno specificate (di solito in parole) queste regole di trasformazione. Entro la mente umana è assolutamente necessario riconoscere le differenze di questa classe, e di fatto sono queste che costituiscono l’argomento principale di «Science and Sanity».
Infine c’è quella gerarchia di differenze che i biologi chiamano « livelli ». Intendo differenze come quella tra una cellula e un tessuto, tra tessuto e organo, organo e organismo, organismo e società.
Queste sono le gerarchie delle unità o Gestalten, in cui ogni subunità è una parte dell’unità successiva di più vasto ambito. E, sempre, in biologia, questa differenza o relazione che chiamo ‘parte di’ è tale che certe differenze nella parte hanno effetto informazionale sull’unità più vasta e viceversa.

Inoltre il significato stesso di ‘sopravvivenza’ subisce un cambiamento quando smettiamo di parlare della sopravvivenza di qualcosa che è limitato dall’epidermide e cominciamo a pensare alla sopravvivenza del sistema di idee nel circuito. Il contenuto dell’epidermide dopo la morte viene ridistribuito casualmente e così pure i canali all’interno dell’epidermide; ma le idee, dopo ulteriori trasformazioni, possono sopravvivere nel mondo sotto forma di libri o di opere d’arte. Socrate come individuo bioenergetico è morto, ma molto di lui continua a vivere nella contemporanea ecologia delle idee.
È anche chiaro che la teologia subisce un mutamento e forse un rinnovamento. Le religioni del Mediterraneo hanno oscillato per cinquemila anni tra immanenza e trascendenza: a Babilonia gli dèi erano entità trascendenti situate sulla cima delle colline; in Egitto la divinità era immanente nel Faraone; e il cristianesimo è una complessa combinazione di queste due credenze.
L’epistemologia cibernetica che vi ho presentato suggenirebbe un’altra impostazione. La mente individuale è immanente, ma non solo nel corpo: essa è immanente anche in canali e messaggi esterni al corpo; e vi è una più vasta Mente di cui la mente individuale è solo un sottosistema. Questa più vasta Mente è paragonabile a Dio, ed è forse ciò che alcuni intendono per ‘Dio’, ma essa è ancora immanente nel sistema sociale totale interconnesso e nell’ecologia planetaria.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 479
Nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente
La psicologia freudiana ha dilatato il concetto di mente verso l’interno, fino a includervi l’intero sistema di comunicazione all’interno del corpo (la componente neurovegetativa, quella dell’abitudine, e la vasta gamma dei processi inconsci). Ciò che sto dicendo dilata la mente verso l’esterno. E tutti e due questi cambiamenti riducono l’ambito dell’io conscio. Si rivela opportuna una certa dose di umiltà, temperata dalla dignità o dalla gioia di far parte di qualcosa di assai più grande: parte, se si vuole, di Dio.
Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie, in antitesi con l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle piante.
Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se possedete una tecnica progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici del vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento delle riserve. Le materie prime del mondo sono limitate.
….
Vi sono esperienze e discipline che possono aiutarmi a immaginare che effetto farebbe avere questo corretto abito mentale. Sotto l’effetto dell’LSD ho sperimentato, come molti altri, la scomparsa della distinzione tra l’io e la musica che ascoltavo. Il soggetto percipiente e la cosa percepita vengono stranamente uniti in una sola entità; questo stato è certo più corretto di quello in cui sembra che ‘io ascolto la musica’. Il suono, dopo tutto, è la Ding an sich, ma la mia percezione di esso è una parte della mente.
Per me un altro indizio — un altro momento in cui la natura della mente mi è stata per un attimo chiara — è stato fornito dai famosi esperimenti di Adelbert Ames Jr.. Si tratta di illusioni ottiche nella percezione della profondità. Come la cavia di Ames, voi scoprite che i processi mentali coi quali create il mondo in una prospettiva tridimensionale sono dentro la vostra mente, ma del tutto inconsci e al di là del controllo volontario. Naturalmente noi tutti sappiamo che è così, cioè che la mente crea le Immagini che ‘noi’ vediamo. Eppure l’esperienza diretta di questo fatto che sapevamo da sempre è un profondo trauma epistemologico.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 484

La morte
E da ultimo c’è la morte. È comprensibile che in una civiltà che separa la mente dal corpo, si debba o cercare di dimenticare la morte o costruire mitologie sulla sopravvivenza della mente trascendente. Ma se la mente è immanente non solo nei canali d’informazione ubicati dentro il corpo, ma anche nei canali esterni, allora la morte assume un aspetto diverso. Il ganglio individuale di canali che io chiamo ‘me’ non è più così prezioso perché quel ganglio è solo una parte di una mente più vasta.
Le idee che sembravano essere me possono anche diventare immanenti in voi. Possano esse sopravvivere, se sono vere.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 484

I momenti della storia in cui sono cambiati gli atteggiamenti
Devo parlare di storia recente, come appare a me nella mia generazione e a voi nella vostra.
Vi dirò il mio criterio per l’importanza storica.
I mammiferi in generale, e noi uomini in particolare, si curano moltissimo non degli episodi, ma delle strutture delle loro relazioni. Quando apro lo sportello del frigorifero e il gatto si avvicina emettendo certi suoni, esso non sta parlando del fegato o del latte, anche se so bene che è proprio quello ciò che il gatto vuole. Posso esser capace di indovinare e dargli ciò che desidera (se ce n’è nel frigorifero). Ciò che il gatto dice, in realtà, è qualcosa che riguarda la sua relazione con me. Se esprimessi con parole il suo messaggio, ne risulterebbe qualcosa del tipo: « dipendenza, dipendenza, dipendenza ». In effetti il gatto sta parlando di una struttura piuttosto astratta nell’ambito di una relazione. Da quest’asserzione di una struttura, io dovrei passare dal generale al particolare: dedurre «latte» o « fegato».
Questo punto è fondamentale; questo è ciò che interessa i mammiferi. Essi si curano delle strutture di relazione, della posizione in cui si trovano rispetto agli altri in un rapporto di amore, odio, rispetto, dipendenza, fiducia, e astrazioni analoghe. Questo è il punto ove cadere in errore è doloroso. Se noi ci fidiamo di qualcuno e scopriamo che costui non meritava fiducia; o se diffidiamo di qualcuno e scopriamo che in realtà costui meritava fiducia, ci sentiamo male. Il dolore che può derivare agli uomini e a tutti gli altri mammiferi da questo tipo di errore è grandissimo. Se quindi vogliamo davvero sapere quali siano i punti significativi della storia, dobbiamo chiederci quali sono i momenti della storia in cui sono cambiati gli atteggiamenti. Sono questi i momenti in cui la gente soffre a causa dei ‘valori’ precedenti.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 490

Da Versailles alla cibernetica
Come si giunse a stipulare il Trattato di Versailles
I più, tra voi, probabilmente non sanno come si giunse a stipulare il Trattato di Versailles. La storia è molto semplice: la prima guerra mondiale continuava a trascinarsi; era abbastanza evidente che i tedeschi stavano perdendo. A questo punto George Creel, che si occupava di pubbliche relazioni (e vorrei che non dimenticaste che costui fu uno dei nonni delle moderne pubbliche relazioni) ebbe un’idea: l’idea era che forse i tedeschi si sarebbero arresi se avessimo offerto loro condizioni armistiziali leggere. Egli preparò allora un pacchetto di condizioni leggere, che non contemplavano provvedimenti punitivi. Queste condizioni erano articolate in quattordici punti; ed egli comunicò questi Quattordici Punti al Presidente Wilson. Se avete intenzione di ingannare qualcuno, come latore del messaggio dovete scegliere un uomo onesto; il Presidente Wilson era uomo di onestà quasi patologica e di sentimenti umanitari. Egli sviluppò i punti in un gran numero di discorsi: non dovevano esserci « né annessioni, nè riparazioni di guerra, nè distruzioni punitive…» e così via. E i tedeschi si arresero.
Noi, inglesi e americani (specialmente gli inglesi) continuammo ovviamente a tenere la Germania sotto embargo, perché non volevamo che i tedeschi si ringalluzzissero prima della firma del Trattato; e così, per un altro anno, essi continuarono a patir la fame.
La Conferenza di pace è stata vivacemente descritta da Maynard Keynes in The Economic Consequences of the Peace (1919).
Il Trattato fu finalmente redatto da quattro uomini, Clemenceau, « la Tigre », che voleva schiacciare la Germania, Lloyd George, che riteneva fosse politicamente vantaggioso ottenere dalla Germania molte riparazioni di guerra, e imporle qualche ritorsione; e Wilson, che doveva essere continuamente menato per il naso. Ogni volta che Wilson aveva dei ripensamenti su quei Quattordici Punti, essi lo portavano nei cimiteri di guerra e lo facevano vergognare di non sentirsi in collera coi tedeschi. Chi era l’altro? L’altro era Orlando, un italiano.
Si trattò di una delle più grandi svendite nella storia della nostra civiltà; un evento tra i più straordinari, che portò difilato e inevitabilmente alla seconda guerra mondiale. Portò anche (e questo è forse più interessante che non la prima conseguenza) a uno scadimento morale della politica tedesca. Se voi promettete qualcosa a vostro figlio, e poi vi rimangiate la promessa, inquadrando però tutta la faccenda su un piano etico elevato, la conseguenza sarà non solo che egli sarà in collera con voi, ma che i suoi atteggiamenti morali peggioreranno, in quanto egli sentirà l’ingiustizia della canagliata che gli fate.
Diciamo così: il messaggio ‘Giochiamo a scacchi’ non è una mossa del gioco degli scacchi; è un messaggio in un linguaggio più astratto di quello del gioco che si svolge sulla scacchiera. Il messaggio ‘Facciamo la pace in questi e questi termini’ non è nello stesso sistema etico al quale appartengono gl’inganni e gli stratagemmi della battaglia. Dicono che tutto è lecito in amore e in guerra, e questo può essere vero all’interno dell’amore e della guerra, ma all’esterno e riguardo all’amore e alla guerra, l’etica è un po’ diversa. Per secoli gli uomini hanno giudicato il tradimento durante la tregua o le trattative per la pace peggiore dell’inganno in battaglia. Oggi questo principio etico trova un rigoroso fondamento teorico e scientifico. Ora l’etica può essere esaminata in modo formale, rigoroso, logico, matematico, e così via; e poggia su basi assai diverse dalle prediche e dalle invocazioni. Non è più inevitabile che ciascuno la pensi a suo modo; a volte possiamo distinguere ciò che è giusto da ciò che è errato.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 494

Le caratteristiche della mente
Queste strane relazioni valgono perché noi organismi (e molte delle macchine che costruiamo) ci troviamo a esser capaci d’immagazzinare energia: ci troviamo a possedere la struttura circuitale necessaria a che il nostro consumo di energia possa essere una funzione decrescente dell’energia entrante. Se date un calcio a una pietra, essa si muove con l’energia che ha ricevuto dalla vostra pedata; ma se date un calcio a un cane, esso si muove con l’energia che ricava dal suo metabolismo. Un’ameba, per un tempo considerevole, si muove di più quando è affamata. Il suo consumo di energia è inversamente proporzionale all’energia entrante.
Questi strani effetti propri della creatura (e che non si presentano nel pleroma) dipendono anche dalla struttura circuitale, e un circuito è un canale chiuso (o una rete di canali) lungo il quale vengono trasmesse differenze (o trasformate di differenze).
D’un tratto, negli ultimi vent’anni, questi concetti si sono fusi per darci un’ampia visione del mondo in cui viviamo – un nuovo modo d’intendere ciò che è una mente. Voglio elencare quelle che a me sembrano le caratteristiche essenziali minime di un sistema che io accetterei come caratteristiche della mente:
I. Il sistema agirà su e con differenze.
2. Il sistema consisterà in anelli chiusi o reti di canali lungo i quali verranno trasmesse le differenze e le loro trasformate. (Ciò che viene trasmesso su un neurone non è un impulso, ma la notizia di una differenza).
3. Molti degli eventi interni al sistema riceveranno energia dal componente che risponde piuttosto che dall’effetto del componente innescante.
4. Il sistema si dimostrerà autocorrettivo, nella direzione dell’omeostasi o nella direzione dell’instabilità. L’autocorrezione implica il procedimento per tentativi ed errori.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 502

Non esiste una mente totale separata dal corpo, separata dalla società e separata dalla natura
Non so quanti oggi credano veramente che esista una mente totale separata dal corpo, separata dalla società e separata dalla natura; ma a quelli tra voi che direbbero che si tratta solo di ‘superstizione’, dirò che sono pronto a scommettere che in pochi minuti posso dimostrare loro che le abitudini e i modi di pensare che si accompagnano a quelle superstizioni esistono ancora nella loro testa e ancora determinano una larga parte dei loro pensieri. L’idea che voi potete vedermi regge ancora i vostri pensieri e le vostre azioni anche se intellettualmente voi forse sapete che non è così. Allo stesso modo i più di noi sono ancora guidati da epistemologie che sappiamo errate. Vediamo alcune delle implicazioni di ciò che ho detto.
Guardiamo al modo in cui le nozioni fondamentali sono rinforzate ed espresse in ogni genere di particolari del nostro comportamento. Il fatto stesso che io stia monologando davanti a voi è una norma della nostra sottocultura accademica, ma l’idea che io possa insegnare a voi, unilateralmente, è derivata dalla premessa che la mente controlla il corpo. E ogni volta che uno psicoterapeuta scivola in una terapia unilaterale, egli obbedisce alla stessa premessa. Di fatto, io, stando in piedi davanti a voi, sto compiendo un atto di prevaricazione, rinforzando nella vostra mente un atto di pensiero che in realtà è assurdo. Tutti noi continuamente facciamo questo, perché ciò è insito nei particolari del nostro comportamento. Notate che io sto in piedi, mentre voi state seduti.
Lo stesso ragionamento conduce ovviamente alle teorie del controllo e alle teorie del potere. In quell’universo, se non si ottiene ciò che si vuole, si dà la colpa a qualcuno e si erige una prigione o un manicomio, secondo i gusti, e vi si caccia il colpevole, se si è capaci di identificarlo. Se non si è capaci di identificano, si dice: « È il sistema
Questo è grosso modo il punto a cui sono giunti oggi i nostri giovani, che dànno la colpa al sistema; ma noi sappiamo che non è ai sistemi che si deve dare la colpa: anch’essi fanno parte dello stesso errore.
Poi naturalmente c’è il problema delle armi. Se voi credete in quel mondo unilaterale e pensate che anche gli altri ci credano (e probabilmente avete ragione, ci credono), allora la cosa da fare, ovviamente, è procurarsi delle armi, colpirli duramente e ‘controllarli’.
Si dice che il potere corrompe; ma questo, credo, è assurdo: è l’idea del potere che corrompe. Il potere corrompe più rapidamente quelli che credono in esso, e sono proprio costoro quelli che più ardentemente lo desiderano. Ovviamente il nostro sistema democratico tende a elargire il potere a coloro che lo bramano, e fornisce ogni occasione di evitarlo a coloro che non lo vogliono. Non è una soluzione molto soddisfacente, se il potere corrompe proprio quelli che ci credono e lo vogliono.
Forse il potere unilaterale non esiste: dopo tutto, l’uomo ‘al potere’ dipende dall’informazione che continuamente deve ricevere dall’esterno. Egli reagisce a quell’informazione nella stessa misura in cui ‘fa’ accadere le cose. Per Goebbels non è possibile controllare l’opinione pubblica tedesca, poiché per farlo egli deve avere spie o confidenti o sondaggi d’opinione che gli dicano che cosa pensano i tedeschi; egli deve poi decidere che cosa rispondere a quest’informazione, e poi di nuovo scoprire come essi reagiscono. È un’interazione e non una situazione unidirezionale.
Ma il mito del potere è, naturalmente, un mito potentissimo, e probabilmente la maggior parte delle persone a questo mondo più o meno ci credono. È un mito che, se tutti ci credono, nella stessa misura si auto-convalida. Ma è tuttavia una follia epistemologica e conduce senza scampo a disastri di vario genere.
Infine c’è il problema dell’urgenza: è ora chiaro a molti che immensi pericoli di catastrofe sono germogliati sugli errori epistemologici occidentali. Essi vanno dagli insetticidi all’inquinamento, dalla ricaduta delle scorie radioattive alla possibilità di fusione della calotta antartica. Soprattutto, la nostra incredibile volonfà di salvare la vita dei singoli individui ha creato la possibilità di una carestia mondiale nell’immediato futuro.
Forse abbiamo una possibilità alla pari di superare i prossimi vent’anni senza disastri più gravi della semplice distruzione di una o più nazioni.
Io credo che questa massiccia congerie di minacce all’uomo e ai suoi sistemi ecologici sorga da errori nelle nostre abitudini di pensiero a livelli profondi e in parte inconsci.
Come terapeuti, chiaramente abbiamo un dovere.
Primo, di far luce in noi stessi; e poi di cercare ogni segno di luce negli altri, e di aiutarli e rinforzarli in tutto ciò che di saggio vi sia in loro.
E vi sono oasi di saggezza che ancora sopravvivono nel mondo. Buona parte della filosofia orientale è più saggia di qualunque cosa abbia prodotto l’Occidente, e alcuni degli sforzi confusi dei nostri giovani contengono più saggezza delle convenzioni dell’establishment.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 508

La mente è la struttura che connette
Io mi ero preparato la lezione. Avevo portato due sacchetti di carta: ne aprii uno e ne estrassi un granchio appena cotto che posai sul tavolo. Poi affrontai gli studenti più o meno in questi termini: «Voglio sentire da voi ragioni che mi convincano che questo oggetto è ciò che resta di un essere vivente. Potreste immaginare di essere dei marziani: su Marte avete dimestichezza con gli esseri viventi, dato che voi stessi siete vivi, ma naturalmente non avete mai visto granchi o aragoste. Un meteorite o altro ha portato un certo numero di oggetti come questo, molti ridotti in frammenti: voi dovete esaminarli e arrivare alla conclusione che si tratta dei resti di esseri viventi. Come fareste per arrivarci? ».
Naturalmente, la domanda rivolta agli psichiatri e quella rivolta agli artisti erano la stessa domanda: esiste una specie biologica di entropia?
Entrambe le domande riguardavano l’idea di fondo dell’esistenza di una linea di separazione tra il mondo dei viventi (dove si tracciano distinzioni, e la differenza può essere una causa) e il mondo dei non viventi, il mondo delle palle da biliardo e delle galassie (dove le ‘cause’ degli eventi sono le forze e gli urti). Sono i due mondi che Jung (seguendo gli gnostici) chiama rispettivamente creatura e pleroma. La mia domanda era: qual è la differenza tra il mondo fisico del pleroma, dove le forze e gli urti costituiscono una base esplicativa sufficiente, e la creatura, dove non si può capire nulla senza invocare differenze e distinzioni?
Nella mia vita ho messo la descrizione dei bastoni, delle pietre, delle palle da biliardo e delle galassie in una scatola, il pleroma, e li ho lasciati lì. In un’altra scatola ho messo le cose viventi: i granchi, le persone, i problemi riguardanti la bellezza, quelli riguardanti la differenza. Argomento di questo libro è il contenuto della seconda scatola.
Qualche tempo fa me la sono presa con i difetti dell’istruzione scolastica occidentale. Stavo scrivendo ai miei colleghi del Board of Regents dell’Università della California e nella lettera mi si insinuò questa frase:
« Infrangete la struttura che connette gli elementi di ciò che si apprende e distruggerete necessariamente ogni qualità
Vi offro la locuzione la struttura che connette come sinonimo, come altro possibile titolo di questo libro.
La struttura che connette. Perché le scuole non insegnano quasi nulla su questo argomento? Forse perché gli insegnanti sanno di essere condannati a rendere insipido, a uccidere tutto ciò che toccano e sono quindi saggiamente restii a toccare o insegnare ogni cosa che abbia importanza vera e vitale? Oppure uccidono ciò che toccano proprio perché non hanno il coraggio di insegnare nulla che abbia un’importanza vera e vitale? Dov’è l’errore?
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 21

Riconoscere il vivente
Forse per caso misi davanti a loro quello che era (a mia insaputa) un problema estetico: In che modo siete in relazione con questa creatura? Quale struttura vi collega con essa?
Collocandoli su un pianeta immaginario, «Marte”, li mettevo nell’impossibilità di pensare ad aragoste, amebe, cavoli e così via, e riportavo forzatamente la diagnosi della vita all’identificazione con il proprio io vivente: «Siete voi che portate i segni di riferimento, i criteri che vi permettono di esaminare il granchio e scoprire che esso pure porta gli stessi segni ». La mia domanda era assai più complessa di quanto io non sapessi.
I ragazzi esaminarono il granchio, e la prima cosa che osservarono fu che era simmetrico, cioè che la parte destra somigliava alla sinistra.
« Benissimo. Volete dire che è composto, come un quadro? ». (Silenzio).
Poi osservarono che una chela era più grossa dell’altra: dunque non era simmetrico.
A mo’ di suggerimento, dissi che se con i meteoriti fossero arrivati molti di quegli oggetti, avrebbero scoperto che in quasi tutti gli individui la chela più grossa si trovava dalla stessa parte (destra o sinistra). (Silenzio. «Dove vuole arrivare Bateson? »).
Tornando alla simmetria, uno disse: «Sì, una chela è più grossa dell’altra, ma entrambe sono composte delle stesse parti ».
Ah! Com’è bella e nobile questa osservazione, con che prontezza il ragazzo aveva educatamente gettato nel cestino dei rifiuti l’idea che le dimensioni potessero avere un’importanza primaria o radicale e si era concentrato sulla struttura che connette. Aveva scartato un’asimmetria di dimensioni a favore di una più profonda simmetria di relazioni formali.
Sissignore, ciò che caratterizza (brutta parola) le due chele è proprio il fatto che esse incarnano relazioni simili tra le parti. Mai quantità, sempre contorni, forme e relazioni. Ecco davvero qualcosa che caratterizzava il granchio come appartenente alla creatura, come cosa vivente.
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 23

Tre livelli o tipi logici di proposizioni descrittive
Quando si analizza questa distribuzione di somiglianze formali, si scopre che l’anatomia nei suoi tratti generali presenta tre livelli o tipi logici di proposizioni descrittive:
1. Per ricavare connessioni di primo ordine si devono confrontare le parti di ogni membro della creatura con altre parti dello stesso individuo.
2. Per scoprire relazioni simili tra le parti (ossia per ottenere connessioni di secondo ordine) si devono confrontare i granchi con le aragoste o gli uomini con i cavalli.
3. Per dedurre connessioni di terzo ordine si deve confrontare il confronto tra granchi e aragoste con quello tra uomo e cavallo.
Abbiamo costruito una scala di come si deve pensare a… a che cosa? Ah, già, alla struttura che connette.
La mia tesi fondamentale può essere ora espressa in questi termini: la struttura che connette è una metastruttura. È una struttura di strutture. È questa metastruttura che definisce l’asserzione generale che sono effettivamente le strutture che connettono.
Qualche pagina sopra ho avvertito che avremmo incontrato il vuoto, e difatti eccolo: la mente è vuota; essa è niente, un non-ente. Esiste solo nelle sue idee, che sono anch’esse non-enti. Solo le idee sono immanenti, incarnate nei loro esempi, e gli esempi a loro volta sono non-enti. La chela, come esempio, non è la Ding an sich; per l’appunto non è la «cosa in sé».
È invece ciò che la mente ne fa, cioè un esempio di questa o quella cosa.
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 25

Sezione aurea
Torniamo alla classe di giovani artisti.
Ricorderete che avevo due sacchetti di carta, in uno c’era il granchio, nell’altro una splendida conchiglia. Da quale indizio, chiesi loro, potevano arguire che quella conchiglia a spirale aveva fatto parte di un essere vivente?
Quando aveva circa sette anni, mia figlia Cathy ricevette in regalo un occhio di gatto montato ad anello. Vedendoglielo al dito, le chiesi cos’era, e lei mi rispose che era un occhio di gatto.
Ma che cos’è? insistei.
“Be’, so che non è l’occhio di un gatto. Sarà una pietra.”
“Toglitelo e guarda com’è dietro.” Dissi.
Fece come le avevo detto ed esclamò: «Oh, c’è sopra una spirale! Dev’essere appartenuto a qualcosa di vivo ».
Questi dischi verdastri sono in realtà gli opercoli di una specie di chiocciola dei mari tropicali. Alla fine della seconda guerra mondiale i soldati ne portarono a casa moltissimi dal Pacifico.
La premessa maggiore di Cathy, che tutte le spirali di questo mondo, tranne i gorghi, le galassie e i vortici di vento, sono fatte da esseri viventi, era giusta. Su questo argomento esiste un’ampia bibliografia, che qualche lettore potrebbe avere interesse a consultare (le parole chiave sono serie di Fibonacci e sezione aurea).
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 26

La struttura che connette è una danza di parti interagenti
Il modo giusto per cominciare a pensare alla struttura che connette è di pensarla in primo luogo (qualunque cosa ciò voglia dire) come una danza di parti interagenti e solo in secondo luogo vincolata da limitazioni fisiche di vario genere e dai limiti imposti in modo caratteristico dagli organismi.
È come se la sostanza di cui siamo fatti fosse del tutto trasparente e quindi non percettibile, e come se le uniche apparenze da noi avvertibili fossero le crepe e i piani di frattura di quella matrice trasparente. I sogni, le percezioni e le storie sono forse le crepe e le irregolarità della matrice uniforme e senza tempo.
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 29

Io creo un contesto
Che accade quando, ad esempio, vado da uno psicoanalista freudiano? Entro in qualcosa che anche creo e che chiameremo contesto, delimitato e isolato almeno simbolicamente ‘(come un frammento del mondo delle idee) dalla chiusura della porta. La geografia della stanza e della porta viene usata come rappresentazione di uno strano messaggio non geografico.
Ma io arrivo lì con delle storie: non solo con una riserva di storie da raccontare all’analista, ma con storie che fanno parte del mio stesso essere: le strutture e le sequenze dell’esperienza infantile sono parte integrante di me. Mio padre faceva questo e questo, mia zia faceva così e cosà, e ciò che essi facevano accadeva fuori di me. Ma quali che siano state le cose da me apprese, il mio apprendere si è verificato all’interno della mia sequenza esperienziale di ciò che facevano quelle persone importanti, mia zia e mio padre.
E ora eccomi dall’analista, un’altra persona che diventa ora importante, che deve essere vista come un padre (o forse un anti-padre), poiché nulla ha significato se non è visto in un qualche contesto.
L’analista deve venir stirato o scorciato sul letto di Procruste delle storie d’infanzia del paziente. Ma riferendomi alla psicoanalisi, io ho anche ristretto l’idea di «storia ». Ho avanzato l’ipotesi che essa abbia a che fare con il contesto, concetto cruciale, in parte non definito e quindi da esaminare.
E il «contesto” è legato a un’altra nozione non definita che si chiama «significato ». Prive di contesto, le parole e le azioni non hanno alcun significato.
Che cos’è la proboscide di un elefante? Che cos’è filogeneticamente? Che cosa le ha ordinato di essere la genetica?
Come sapete, la risposta è che la proboscide di un elefante è il suo «naso” (lo sapeva perfino Kipling!). E ho messo «naso” tra virgolette perché la proboscide viene definita da un processo interno di comunicazione nella crescita. La proboscide è un «naso” in virtù di un processo di comunicazione: è il contesto della proboscide che la identifica come naso. Ciò che sta tra due occhi e sopra una bocca è un «naso”, punto e basta. È il contesto che fissa il significato, e dev’essere sicuramente il contesto ricevente a dar significato alle istruzioni genetiche. Quando chiamo questa cosa «naso” e quella «mano”, io cito — magari a sproposito — le istruzioni di sviluppo nell’organismo in crescita, e cito l’interpretazione data a questo messaggio dai tessuti che l’hanno ricevuto.
Alcuni preferirebbero definire i nasi mediante la loro ‘funzione’, l’olfatto. Se però analizziamo queste definizioni arriviamo allo stesso risultato impiegando un contesto temporale in luogo di uno spaziale. All’organo viene dato un significato attribuendogli un determinato ruolo in sequenze di interazione tra la creatura e l’ambiente. Chiamo questo contesto temporale. La classificazione temporale dei contesti interseca la classificazione spaziale; ma in embriologia la prima definizione dev’essere sempre in termini di relazioni formali. La proboscide del feto, in genere, non sente alcun odore. L’embriologia è formale.
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 31

La struttura che connette: ogni comunicazione ha bisogno di un contesto, senza contesto non c’è significato
A scuola si continuano a insegnare sciocchezze: i bambini si sentono dire che il «sostantivo” è un «nome di persona, di luogo o di cosa”, che il «verbo” è« una parola che indica un’azione” e così via. Imparano, cioè, in tenera età che una cosa la si definisce mediante ciò che, si suppone, essa è in sé, e non mediante le sue relazioni con le altre cose.
Quasi tutti noi ricordiamo di aver sentito dire che un sostantivo è «un nome di persona, di luogo o di cosa ». E ricordiamo la noia mortale che ci procurava l’analisi grammaticale e logica delle frasi. Oggi tutto ciò andrebbe cambiato: ai bambini si potrebbe dire che un sostantivo è una parola che sta in una certa relazione con un predicato, che un verbo sta in una certa relazione con un sostantivo, il suo soggetto e così via. Alla base della definizione potrebbe stare la relazione, e allora qualunque bambino sarebbe in grado di capire che nella frase «“Andare” e un verbo» c’è qualcosa che non va.
Ricordo la mia noia quando dovevo analizzare le frasi e la noia, più tardi a Cambridge, di dover studiare l’anatomia comparata. Così come venivano insegnate, erano tutt’e due materie di un’irrealtà straziante. Avrebbero potuto dirci qualcosa sulla struttura che connette: che ogni comunicazione ha bisogno di un contesto, che senza contesto non c’è significato, che i contesti conferiscono significato perché c’è una classificazione dei contesti. L’insegnante avrebbe potuto dimostrare che la crescita e la differenziazione devono essere controllate dalla comunicazione. Le forme degli animali e delle piante sono trasformazioni di messaggi. Il linguaggio è di per sé una forma di comunicazione. La struttura immessa a un’estremità dev’ essere in qualche modo rispecchiata come struttura all’uscita. L’anatomia deve contenere qualcosa di analogo alla grammatica, poiché tutta l’anatomia è una trasformazione di materiale di messaggio, che deve essere conformato in modo contestuale. E infine, conformazione contestuale non è che un sinonimo di grammatica.
Torniamo così alle strutture di connessione e alla proposizione più astratta, più generale (e vuotissima) che, in effetti, esiste una struttura delle strutture di connessione.
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 33

Ecologia
Abbiamo perduto il nocciolo del cristianesimo. Abbiamo perduto Siva, il dio danzante dell’Olimpo induista, la cui danza a livello banale è insieme creazione e distruzione, ma nella totalità è bellezza. Abbiamo perduto Abraxas, il dio bello e terribile del giorno e della notte dello gnosticismo. Abbiamo perduto il totemismo, il senso del parallelismo tra l’organizzazione dell’uomo e quella degli animali e delle piante. Abbiamo perduto persino il Dio Che Muore.
Stiamo cominciando a giocherellare con le idee dell’ecologia, e benché subito le degradiamo a commercio o a politica, c’è se non altro ancora un impulso nel cuore degli uomini a unificare e quindi a santificare tutto il mondo naturale di cui noi siamo parte.
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 34

La logica è appunto incapace di affrontare i circuiti ricorsivi senza generare paradossi
Il proposito immediato di questo libro è dunque di costruire un quadro di come il mondo è collegato nei suoi aspetti mentali. Come si accordano e si collegano fra di loro le idee, le informazioni, gli stadi di coerenza logica o pragmatica, e via dicendo? In che relazione sta la logica,il procedimento classico per costruire catene di idee, con un mondo esterno di cose e creature, di parti e di totalità? Le idee si presentano davvero in catene oppure questa struttura «lineale» viene loro imposta da studiosi e filosofi? Com’è collegato il mondo della logica, che evita il «ragionamento circolare», con un mondo in cui le serie causali circolari sono piuttosto la regola che l’eccezione?
Oggetto dell’indagine e della descrizione è una vasta rete o matrice di materiale di comunicazione e di tautologie, premesse e esemplificazioni astratte, tutti collegati tra di loro.
Ma oggi, nel 1979, non esiste alcun metodo convenzionale per descrivere un simile intrico. Non sappiamo neppure da che parte cominciare.
Cinquant’anni fa si sarebbe pensato che i procedimenti migliori per tentare questa impresa fossero o logici o quantitativi o di entrambi i generi. Vedremo invece che, come dovrebbe sapere ogni scolaretto, la logica è appunto incapace di affrontare i circuiti ricorsivi senza generare paradossi, e che le quantità appunto non sono la sostanza dei sistemi comunicanti complessi.
In altre parole, la logica e la quantità si dimostrano strumenti inadeguati per descrivere gli organismi, le loro interazioni e la loro organizzazione interna.
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 37

La combinazione di informazioni
Procederò in modo analogo, richiamando però l’attenzione del lettore su un certo numero di casi in cui due o più sorgenti di informazione si combinano per generare informazione di tipo diverso da quella che si trovava in ciascuna sorgente presa da sola.
Nessuna delle scienze esistenti si occupa oggi espressamente della combinazione di informazioni; io invece cercherò di dimostrare che il processo evolutivo deve dipendere da questi doppi incrementi di informazione. Ogni passo dell’evoluzione è un’aggiunta di informazioni a un sistema già esistente. Per questo motivo le combinazioni, le armonie e le discordanze tra elementi e strati di informazione successivi presenteranno molti problemi di sopravvivenza e determineranno molte direzioni di cambiamento.
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 38

LA MAPPA NON È IL TERRITORIO E IL NOME NON È LA COSA DESIGNATA
Questo principio, reso famoso da Alfred Korzybski, opera a molti livelli. Esso ci ricorda in termini generici che quando pensiamo alle noci di cocco o ai porci, nel cervello non vi sono né noci di cocco né porci. Ma in termini più astratti la proposizione di Korzybski asserisce che sempre quando c’è pensiero o percezione oppure comunicazione sulla percezione vi è una trasformazione, una codificazione, tra la cosa comunicata, la Ding an sich, e la sua comunicazione. Soprattutto, la relazione tra la comunicazione e la misteriosa cosa comunicata tende ad avere la natura di una classificazione, di un’assegnazione della cosa a una classe. Dare un nome è sempre un classificare e tracciare una mappa è essenzialmente lo stesso che dare un nome.
Tutto sommato, Korzybski parlava da filosofo e cercava di convincere gli altri a disciplinare il loro modo di pensare. Ma era una battaglia perduta in partenza. Quando passiamo ad applicare la sua massima alla storia naturale dei processi mentali umani, la cosa non è più così semplice. Forse la distinzione tra il nome
e la cosa designata, o tra la mappa e il territorio, è tracciata in realtà solo dall’emisfero dominante del cervello. L’emisfero simbolico o affettivo, di solito quello destro, è probabilmente incapace di distinguere il nome dalla cosa designata: certo esso non si Occupa di questo genere di distinzioni. Accade quindi che certi tipi di comportamento non razionale siano necessariamente presenti nella vita dell’uomo. È un fatto che noi abbiamo due emisferi, e da questo fatto non possiamo prescindere. E’ un fatto che questi due emisferi operino in modo un po’ diverso l’uno dall’altro, e non possiamo sfuggire alle complicazioni che questa differenza comporta.
Con l’emisfero dominante possiamo considerare, ad esempio, una bandiera come una sorta di nome del paese o dell’organizzazione che essa rappresenta. Ma l’emisfero destro non fa questa distinzione e considera la bandiera sacramentalmente identica a ciò che essa rappresenta.
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 48

Possiamo conoscere la cosa generale, ma è la cosa specifica che ci sfugge
Una catena sottoposta a tensione si spezzerà nel suo anello più debole. Questo lo si può prevedere. Ciò che è difficile è individuare l’anello più debole prima che si spezzi. Possiamo conoscere la cosa generale, ma è la cosa specifica che ci sfugge. Vi sono catene costruite per spezzarsi a una certa tensione e in un certo anello; ma una buona catena è omogenea e non permette alcuna previsione.
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 62

I grandi uomini sono stati i nuclei storici di profondi cambiamenti?
Osserveremo più avanti che vi è un abisso tra le asserzioni relative a un individuo specifico e quelle relative a una classe. Tali asserzioni sono di tipo logico diverso, e le previsioni che muovono dalle une alle altre sono sempre incerte. L’asserzione “Il liquido bolle” è di tipo logico diverso dall’asserzione «Questa molecola sarà la prima a muoversi ».
Quanto sopra è per molti versi pertinente alla teoria della storia, alla filosofia su cui si fonda la teoria evoluzionistica e, in generale, alla nostra comprensione del mondo in cui viviamo.
Nella teoria della storia, la filosofia marxista sostiene, seguendo Tolstoj, che i grandi uomini che sono stati i nuclei storici di profondi cambiamenti o invenzioni sociali erano in un certo senso marginali ai cambiamenti che hanno fatto precipitare. Si sostiene, ad esempio, che nel 1859 il mondo occidentale era maturo (forse più che maturo) per creare e ricevere una teoria dell’evoluzione che riflettesse e giustificasse l’etica della Rivoluzione industriale. Da questo punto di vista, si potrebbe far apparire poco importante lo stesso Darwin. Se non fosse stato lui a formulare la sua teoria, qualcun altro ne avrebbe formulata una simile nel giro di cinque anni. E in effetti il parallelismo fra la teoria di Alfred Russel Wallace e quella di Darwin sembrerebbe a prima vista confortare questa opinione.
I marxisti, se ho ben capito, sosterrebbero che deve necessariamente esistere un anello più debole, che in presenza di determinate forze6 o tensioni sociali certi individui saranno i primi a iniziare una certa tendenza, e che non importa chi essi siano.
Sono convinto che sia una sciocchezza affermare che non ha importanza quale singolo uomo sia stato il nucleo del cambiamento. È appunto questo che rende la storia futura imprevedibile. L’errore marxista non è altro che una grossolana confusione di tipi logici, una confusione tra l’individuo e la classe.
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 64

La lettera che non scriviamo può essere un messaggio efficace
La lettera che non scriviamo, le scuse che non porgiamo, il cibo che non mettiamo fuori per il gatto possono essere tutti messaggi sufficienti ed efficaci, poiché zero può aver significato in un contesto; e il contesto lo crea chi riceve il messaggio. Questa capacità di creare il contesto è l’abilità del ricevente, e acquisirla è la sua parte della coevoluzione di cui dicevo sopra. Egli deve acquisire questa abilità mediante l’apprendimento o mediante una felice mutazione, cioè mediante una fortunata incursione nel casuale. Il ricevente in un certo senso dev’essere pronto per la scoperta giusta quando essa arriva.
Così, è ipotizzabile che nell’ambito di un processo stocastico sia valida l’inversa della proposizione: «dal nulla nasce nulla” senza informazione. Una pronta disposizione può servire a selezionare certe componenti del casuale che in tal modo diventano informazioni nuove. Tuttavia, dev’esserci sempre una certa quantità di aspetti casuali da cui poter formare le nuove informazioni.
Questa circostanza suddivide l’intero campo dell’organizzazione, dell’evoluzione, della maturazione e dell’apprendimento in due aree separate, quella dell’epigenesi, o embriologia, e quella dell’evoluzione e dell’apprendimento.
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 69

I processi dinamici del cambiamento si alimentano del casuale
Contrapposto all’epigenesi e alla tautologia, che costituiscono i mondi della replicazione, c’è tutto il regno della creatività, dell’arte, dell’apprendimento e dell’evoluzione, in cui i processi dinamici del cambiamento si alimentano del casuale. L’essenza dell’epigenesi sta nella ripetizione prevedibile; l’essenza dell’apprendimento e dell’evoluzione sta nell’esplorazione e nel cambiamento.
È dal casuale che gli organismi estraggono le nuove mutazioni, ed è lì che l’apprendimento stocastico prende le sue soluzioni. L’evoluzione porta all’acme, alla saturazione ecologica di tutte le possibilità di differenziazione; l’apprendimento porta a un sovraccarico della mente. Con il ritorno all’uovo, ignorante e prodotto in serie, la specie, che non si arresta, sgombra ancora una volta la propria memoria e si prepara ad accogliere il nuovo.
IL NUMERO È DIVERSO DALLA QUANTITÀ
I numeri sono il risultato del contare, le quantità sono il risultato del misurare. Si capisce quindi come i numeri possano essere precisi, poiché fra ciascun intero e il successivo c’è discontinuità: fra il due e il tre c’è un salto. Nel caso della quantità questo salto non c’è; e poiché nel mondo della quantità mancano i salti, è impossibile che le quantità siano esatte. Si possono avere esattamente tre pomodori; non si possono mai avere esattamente tre litri d’acqua. La quantità è sempre approssimata.
IL LINGUAGGIO SOTTOLINEA DI SOLITO SOLO UN ASPETTO DI QUALUNQUE INTERAZIONE
Di solito ci esprimiamo come se una singola «cosa potesse avere una qualche caratteristica. Diciamo che una pietra è «dura”, «piccola”, «pesante”, «gialla”, «densa”, fragile”, «calda”, «in moto”, «ferma”, «visibile”, «commestibile”, «incommestibile”, eccetera.
Così è fatto il nostro linguaggio: «La pietra è dura”, e via di seguito. È un modo di parlare che va benissimo al mercato: «Questa è una nuova marca ».
«Le patate sono marce ». «Le uova sono fresche ».
« Il contenitore è rotto». «Il diamante è difettoso ».
« Un chilo di mele basterà ». E così via.
Ma nella scienza o nell’epistemologia questo modo di parlare non va bene. Per pensare correttamente è consigliabile supporre che tutte le qualità, gli attributi, gli aggettivi e così via si riferiscano almeno a due insiemi di interazioni temporali.
« La pietra è dura” significa (a) che, colpita, essa si è dimostrata resistente alla penetrazione, e (b) che le parti molecolari della pietra sono in qualche modo
tenute insieme da certe interazioni continue tra quel le stesse parti.
La pietra è ferma è un commento sull’ubicazione della pietra rispetto all’ubicazione di chi parla e di altre eventuali cose in moto. È anche un commento su fatti interni alla pietra: la sua inerzia, l’assenza di distorsione interna, l’assenza di attrito superficiale
e così via.
Mediante la sintassi del soggetto e del predicato il linguaggio asserisce continuamente che le «cose in un certo modo «hanno” qualità e attributi. Un modo di parlare più preciso sottolineerebbe che le cose sono prodotte, sono viste separate dalle altre cose” e sono rese «reali” dalle loro relazioni interne e dal loro comportamento rispetto ad altre cose e a chi parla.
È necessario chiarire bene questa verità universale:
le «cose”, quali che siano nel loro mondo pleromatico e ‘cosale’, possono entrare nel mondo della comunicazione e del significato solo mediante i loro nomi, le loro qualità e i loro attributi (cioè mediante resoconti delle loro relazioni e interazioni interne ed esterne).
Bateson G. “MENTE E NATURA”, Adelphi, pag. 89

NEL PROCESSO MENTALE GLI EFFETTI DELLA DIFFERENZA DEVONO ESSERE CONSIDERATI COME TRASFORMATE (cioè VERSIONI CODIFICATE) DELLA DIFFERENZA CHE LI HA PRECEDUTI
A questo punto, dobbiamo considerare come le differenze esaminate nella discussione del secondo criterio e il loro seguito di effetti sotto forma di altre differenze diventano materiale di informazione, di ridondanza, di struttura e così via. In primo luogo dobbiamo notare che qualunque oggetto, evento o differenza del cosiddetto ‘mondo esterno’ può diventare una sorgente d’informazione, purché sia incorporato in un circuito dotato in una rete opportuna di materiale flessibile in cui esso possa produrre dei cambiamenti. In questo senso l’eclissi di sole, l’impronta dello zoccolo di un cavallo, la forma di una foglia, l’occhio sulla penna di un pavone, insomma qualunque cosa può essere incorporata nella mente se mette in moto queste successioni di conseguenze.
Una lezione del professor Konrad Lorenz
Ciò che sembra verificarsi in queste tradizionali secolarizzazioni è uno spostamento dell’attenzione dalla relazione a uno degli estremi, agli oggetti o persone che erano in relazione. È un percorso frequente che porta a una volgarizzazione dell’epistemologia e alla perdita della comprensione o illuminazione ottenuta mettendo una accanto all’altra la concezione della natura e quella della famiglia.
Tuttavia, esistono ancora alcuni totemisti praticanti, perfino tra i biologi professionisti. Seguire una lezione del professor Konrad Lorenz significa scoprire che cosa facevano i cavernicoli dell’Aurignaciano quando dipingevano sulle pareti e sulle volte delle caverne renne e mammut vivi e attivi. Gli atteggiamenti e i movimenti espressivi di Lorenz, la sua cinesica, cambiano di momento in momento secondo la natura dell’animale di cui parla. Ora è un’oca, pochi minuti dopo un pesce ciclide, e così via. Va alla lavagna e disegna rapidamente una creatura, poniamo un cane, vivo e incerto se attaccare o ritirarsi. Poi, con un brevissimo intervento di gesso e cancellino, una variazione nella nuca e nell’angolazione della coda, e il cane è chiaramente sul punto di attaccare.
Lorenz fece una serie di conferenze alle Hawaii, e l’ultima la dedicò a problemi della filosofia della scienza. Mentre parlava dell’universo di Einstein, il suo corpo pareva contorcersi tutto quasi in empatia con quell’astrazione.
E, misteriosamente, come gli Aurignaciani, egli non è capace di disegnare una figura umana: i suoi tentativi, come i loro, producono solo fantocci filiformi. Ciò che il totemismo insegna sul sé è profondamente non visuale.
L’empatia di Lorenz per gli animali gli conferisce un vantaggio quasi sleale sugli altri zoologi. Egli è in grado di leggere molte cose, e certo lo fa, in un confronto (conscio o inconscio) tra ciò che vede fare all’animale e ciò che si prova a fare la stessa cosa. (Molti psichiatri usano lo stesso trucco per scoprire i pensieri e i sentimenti dei loro pazienti). Due descrizioni diverse sono sempre meglio di una sola.
Il mondo dei processi mentali è capace di guarire lentamente da solo
La mia opinione è che la Creatura, il mondo dei processi mentali, è sia tautologica sia ecologica. Voglio dire che è una tautologia capace di guarire lentamente da sola. Se la si lascia stare, qualunque ampia porzione di Creatura tende a stabilizzarsi verso la tautologia, cioè verso una coerenza interna di idee e di processi. Ma ogni tanto la coerenza si lacera, la tautologia si infrange come la superficie di uno stagno quando vi si getta un sasso. Poi, lentamente ma immediatamente, la tautologia comincia a guarire. E la guarigione può essere spietata: nel corso di questo processo possono venire sterminate intere specie.
272
Su che genere di superficie si dovranno proiettare l’ ‘estetica’ e la ‘coscienza’?
P. E poi vi è la coscienza, che in questo libro non ho nemmeno toccato — o che ho toccato solo una volta o due. La coscienza e l’estetica sono i grandi problemi non toccati.
F. Ma nelle biblioteche ci sono sale intere piene di libri su questi problemi «non toccati ».
P. No, no, ciò che non è stato toccato è la domanda: su che genere di superficie si dovranno proiettare l’ ‘estetica’ e la ‘coscienza’?
F. Non capisco.
P. Voglio dire qualcosa del genere: la ‘coscienza’ e l’ ‘estetica’ (qualunque sia il significato di queste parole) o sono entrambe caratteristiche presenti in tutte le menti (così come sono state definite in questo libro), oppure sono emanazioni.., tarde creazioni fantasiose di queste menti. In entrambi i casi, è la definizione primaria di mente che deve accogliere le teorie dell’estetica e della coscienza. È su questa definizione primaria che dev’essere proiettato il passaggio successivo. La terminologia per trattare la bellezza-bruttezza e la terminologia per la coscienza devono essere elaborate a partire dalle idee contenute in questo libro o da idee simili (o proiettate su queste idee).

P. Dev’esserci un motivo se a queste domande non è mai stata data risposta. Cioè, come prima indicazione per una risposta potremmo considerare proprio questo: il fatto storico che tanti uomini abbiano provato e non ci siano riusciti. La risposta
dev’ essere in qualche modo nascosta. Dev’essere così: il fatto stesso di porre queste domande porta l’investigatore fuori strada, su una pista falsa.
Un elenco di punti ‘da scolaretto’
P. In primo luogo ci sono i sei criteri di mente:
1. Fatta di parti che non sono in sé mentali. La ‘mente’ è immanente in certi generi di organizzazione delle parti.
2. Le parti sono attivate da eventi nel tempo. Le differenze, benché statiche nel mondo esterno, possono generare eventi se tu ti muovi rispetto ad esse.
3. Energia collaterale. Lo stimolo (in quanto differenza) non può fornire alcuna energia, ma ciò che reagisce ad esso possiede un’energia, di solito fornita dal metabolismo.
4. Poi le cause-ed-effetti si dispongono in catene circolari (o più complesse).
5. Tutti i messaggi sono codificati.
6. Da ultimo c’è il fatto più importante: i tipi logici.
Tutti questi punti sono abbastanza ben definiti e si sostengono l’un l’altro piuttosto bene. Forse l’elenco è ridondante e potrebbe essere ridotto, ma in questo momento ciò non ha importanza. Al di là di questi sei punti c’è il resto del libro, il quale riguarda diversi generi di quella che ho chiamato doppia descrizione e che vanno dalla visione binoculare all’effetto combinato dei ‘grandi’ processi stocastici e all’effetto combinato della ‘calibrazione’ e della ‘retroazione’. Chiamiamoli anche ‘rigore e immaginazione’ o ‘pensiero e azione’.
Ecco tutto.
F. Benissimo. E dove sistemeresti i fenomeni della bellezza, della bruttezza e della coscienza?
P. E non dimenticare il sacro. Ecco un altro argomento che non è stato trattato nel libro. Vedi, io non faccio ogni volta una domanda diversa, io rendo più ampia la stessa domanda. Il sacro (checché ciò significhi) è certamente collegato (in qualche modo) al bello (checché ciò significhi). E se riuscissimo a dire come sono collegati, riusciremmo forse a stabilire il significato delle parole. O forse ciò non sarebbe mai necessario. Ogni volta che aggiungiamo alla domanda un pezzo ad essa collegato otteniamo più indicazioni sul genere di risposta che dovremmo aspettarci.
F. Quindi adesso abbiamo sei pezzi della domanda?
P. Sei?
F. Sì. All’inizio di questa conversazione erano due; ora sono sei. C’è la coscienza, la bellezza e il sacro, poi c’è la relazione tra coscienza e bellezza, la relazione tra bellezza e sacro e la relazione tra sacro e coscienza. In tutto, sei.
P. No. Sette. Dimentichi il libro. I tuoi sei pezzi presi insieme costituiscono una specie di domanda triangolare, e questo triangolo dev’essere in relazione con ciò che sì trova in questo libro.

È mostruoso… volgare, riduzionista, sacrilego… chiamalo come vuoi… arrivare a precipizio con una domanda troppo semplificata. È un peccato contro tutti e tre i nostri nuovi princìpi: contro l’estetica, contro la coscienza, contro il sacro.
F. Ma dove?
P. Già, ecco. Questa domanda dimostra la stretta relazione tra coscienza, bellezza e sacro. La domanda troppo semplice e la risposta volgare vengono dalla coscienza che corre intorno come un cane con la lingua penzoloni — alla lettera il cinismo. Essere consci della natura del sacro o della natura della bellezza è la follia del riduzionismo.
281
Il nostro insegnamento è antiquato e obsoleto
Mentre buona parte di ciò che le università insegnano oggi è nuovo e aggiornato, i presupposti o premesse di pensiero su cui si basa tutto il nostro insegnamento sono antiquati e, a mio parere, obsoleti.
Mi riferisco a nozioni quali:
a) Il dualismo cartesiano che separa la ‘mente dalla ‘materia’.
b) Lo strano fisicalismo delle metafore che usiamo per descrivere e spiegare i fenomeni mentali: ‘potenza’, ‘tensione’, ‘energia’, ‘forze sociali’, ecc.
c) Il nostro assunto antiestetico, derivato dall’importanza che un tempo Bacone, Locke e Newton attribuirono alle scienze fisiche; cioè che tutti i fenomeni (compresi quelli mentali) possono e devono essere studiati e valutati in termini quantitativi.
La visione del mondo — cioè l’epistemologia latente e in parte inconscia — generata dall’insieme di queste idee è superata da tre diversi punti di vista:
a) Dal punto di vista pragmatico è chiaro che queste premesse e i loro corollari portano all’avidità, a un mostruoso eccesso di crescita, alla guerra, alla tirannide e all’inquinamento. In questo senso, le nostre premesse si dimostrano false ogni giorno, e di ciò gli studenti si rendono in parte conto.
b) Dal punto di vista intellettuale, queste premesse sono obsolete in quanto la teoria dei sistemi, la cibernetica, la medicina olistica, l’ecologia e la psicologia della Gestalt offrono modi manifestamente migliori di comprendere il mondo della biologia e del comportamento.
c) Come base per la religione le premesse che ho menzionato divennero chiaramente intollerabili e quindi obsolete circa un secolo fa. Dopo l’avvento dell’evoluzione darwiniana, ciò fu espresso in modo piuttosto chiaro da pensatori come Samuel Butler e il principe Kropotkin. Ma già nel Settecento William Blake capì che la filosofia di Locke e di Newton poteva generare solo «tenebrosi mulini satanici ».
Ogni aspetto della nostra civiltà è necessariamente spaccato in due. Nel campo dell’economia ci troviamo di fronte a due caricature esagerate della vita
— quella capitalista e quella comunista — e ci viene detto che dobbiamo schierarci per l’una o per l’altra di queste due mostruose ideologie in lotta. Nella sfera del pensiero, siamo lacerati tra varie forme estreme di negazione dei sentimenti e la forte corrente del fanatismo anti-intellettuale.
Come nella religione, le garanzie costituzionali della ‘libertà religiosa’ sembrano favorire esagerazioni simili: uno strano protestantesimo del tutto secolare, una vasta gamma di culti magici e una totale ignoranza religiosa. Non è un caso che mentre da un lato la Chiesa cattolica sta rinunciando all’uso del latino, dall’altro la nuova generazione stia imparando a salmodiare in sanscrito!
Così, in questo mondo del 1978, noi cerchiamo di dirigere un’università e di mantenerne standard ‘elevati’ di fronte a un crescendo di sfiducia, volgarità, pazzia, sfruttamento delle risorse, vittimizzazione delle persone e caccia al profitto immediato. Le strida dell’avidità, della frustrazione, della paura e dell’odio.
La sopravvivenza dipende da due fenomeni o processi contrastanti, due modi di raggiungere l’adattamento. Come Giano, l’evoluzione deve sempre guardare in due direzioni: all’interno, verso le regolarità dello sviluppo e la fisiologia delle creature viventi, e all’esterno, verso i capricci e le esigenze dell’ambiente.

Il mondo esterno invece è in perpetuo cambiamento ed è sempre pronto ad accogliere creature che abbiano subìto cambiamenti: esso esige quasi il cambiamento. Nessun animale, nessuna pianta possono mai essere ‘confezionati’. La ricetta interna esige la compatibilità, ma non è mai sufficiente per lo sviluppo e la vita dell’organismo. Tocca sempre alla creatura stessa compiere il cambiamento del proprio corpo. Essa deve acquisire certi caratteri somatici tramite l’uso, il disuso, l’abitudine, le privazioni e il nutrimento. Questi ‘caratteri acquisiti’, però, non devono mai esser trasmessi ai discendenti, non devono essere incorporati direttamente nel DNA.
Poco fa ho richiamato l’attenzione sulla circostanza che la selezione interna in biologia deve sempre insistere sulla compatibilità con il passato immediato.
In breve, il conservatorismo ha radici nella coerenza e nella compatibilità, le quali si accompagnano a ciò che sopra ho chiamato il rigore del processo mentale. È qui che dobbiamo cercare le radici delle obsolescenze.
E il paradosso o il dilemma che ci sconcerta e sgomenta quando ci proponiamo di correggere o combattere l’obsolescenza è semplicemente la paura che abbandonando ciò che è obsoleto, perderemo la coerenza, la chiarezza, la compatibilità, perfino il senno.
E difatti le cose stanno proprio così: «il tempo è fuori squadra” perché le due componenti che governano il processo evolutivo non vanno più al passo l’una con l’altra. L’immaginazione ha oltrepassato abbondantemente il rigore, e alle persone anziane e conservatrici come me il risultato assomiglia molto alla pazzia, o forse all’incubo, fratello della pazzia. Il sogno è un processo che non viene corretto né dal rigore interno né dalla ‘realtà’ esterna.

Il benessere e il disagio dell’individuo diventano gli unici criteri di scelta del cambiamento sociale, e la fondamentale differenza di tipo logico tra elemento e
categoria viene dimenticata finché la nuova situazione non genera (inevitabilmente) nuovi disagi. La paura della morte individuale e del dolore fanno apparire ‘positiva’ l’eliminazione delle malattie epidemiche, e solo dopo cent’anni di medicina preventiva scopriamo che la popolazione è aumentata troppo. E così via.
Non è tanto il ‘potere’, la ‘ potenza’, che corrompe quanto il mito della ‘potenza’. Si è già detto che si deve diffidare della ‘potenza’, così come dell’ ‘energia’, della ‘tensione’ e delle altre metafore fisiche: tra esse, la ‘potenza’ è una delle più pericolose. Chi si strugge per un’astrazione mitica non potrà mai essere saziato! Noi insegnanti non dovremmo alimentare questo mito.
In un combattimento a due è difficile che ciascun avversario riesca a vedere più in là della dicotomia tra vittoria e sconfitta. Come il giocatore di scacchi, egli è sempre tentato di fare una mossa astuta e ingannevole per ottenere una rapida vittoria. La disciplina del cercare la mossa migliore per ogni posizione dei pezzi è dura da raggiungere e dura da mantenere. Il giocatore deve sempre guardare a una prospettiva più lontana, a una Gestalt più vasta.
Siamo così ritornati al punto di partenza, ma ora lo vediamo in una prospettiva più ampia. Questo punto è un’università e noi ne siamo il Consiglio che la dirige. La prospettiva più ampia concerne le prospettive, e la domanda che viene posta è: noi, membri di questo Consiglio, incoraggiamo tutto ciò che negli studenti, negli insegnanti e intorno a questo tavolo promuoverà quelle più ampie prospettive capaci di riportare il nostro sistema entro una giusta sincronia o armonia tra rigore e immaginazione?
Come insegnanti, siamo saggi?

Selezione a cura di:

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

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