DIPENDENZA DA SHOPPING COMPULSIVO

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(…..) L’appartamento è totalmente irriconoscibile. La moquette beige è scomparsa sotto un mare di pacchi, bauli e mobili. L’ingresso è invaso da scatole, che riconosco come quelle dell’outlet dello Utah, più i batik di Bali e i due vasi cinesi, li oltrepasso con difficoltà ed entro in soggiorno, dove mi aspetta un’altra sorpresa. Ci sono scatole ovunque. Kilìm e dhurry arrotolati sono stati addossati contro il muro in un angolo. In un altro angolo il gamelan indonesiano si contende lo spazio con un tavolino d’ardesia e un totem indiano, Sento che tocca a me dire qualcosa. “Perbacco!” faccio, con una risatina. “Abbiamo un bel po’ di tappeti vero?” “Diciassette” puntualizza Luke, sempre con quella strana voce. “Li ho contati.” Scavalca un tavolino di bambù che ho acquistato in Tailandia e guarda l’etichetta di una grossa cassa di legno, “E a quanto pare, questa contiene quaranta tazze.” Alza lo sguardo verso di me. “Quaranta tazze?” “Lo so che sembrano tante, Luke. Ma costavano solo cinquanta petiny l’una. Era un affare. Non dovremo mai più comperare tazze in vita nostra!” Luke mi osserva per un istante. “Becky, io non voglio mai più comperare niente in vita mia.” “Senti…” Faccio un passo verso di lui, ma vado a sbattere col ginocchio contro una statua di legno dipinto che raffigura Ganesh, dio della saggezza e del successo. “Non è… non è così male! Lo so che sembra un sacco di roba, ma è come… un’illusione ottica. Una volta che avremo sballato e riposto tutto quanto, sarà fantastico.” “Abbiamo cinque tavolini” continua Luke, ignorandomi. “Lo sapevi?” “Ehm… be’…” Mi schiarisco la voce. “Non esattamente. Forse dobbiamo razionalizzare un pochino.” (……………) “Quello che voglio sapere è… come hai pagato tutta questa roba?” chiede, aggrottando la fronte. “Ho fatto un controllo veloce dei conti e non c’è traccia di vasi ming. Né di giraffe. O di tavoli da Copenaghen…” Mi guarda fisso. “Cosa sta succedendo, Becky?” Sono con le spalle al muro. Anche se volessi fuggire, probabilmente finirei impalata sulle zanne dell’elefante in legno acquistato in Tanzania. Be’…” Non riesco a guardarlo negli occhi. “Ho… ho una carta di credito.” “Quella che tieni nascosta nella borsa?” dice Luke senza battere ciglio. “Ho controllato anche quella ” Oh, Dio. Non c’è via di scampo.” “Veramente… non è quella” dico, deglutendo a fatica. “È un’altra.” “Un’altra?” Luke mi guarda fisso. “Hai una seconda carta di credito segreta?” “Ma è solo per le emergenze! Può capitare a tutti un’emergenza…” “Emergenza dei tavoli da pranzo? Emergenza un gamelan indonesiano?” Silenzio. Non so cosa rispondere. Ho le guance in fiamme e le dita aggrovigliate dietro la schiena. “Così, hai continuato a pagare i conti in segreto?” Vedendo l’angoscia sul mio volto, la sua espressione cambia. “Non li hai pagati.” “Il fatto è che…” Le mie dita si annodano ancora di più. “Mi hanno concesso un limite molto alto.” “Per amor del cielo, Becky!” “È tutto a posto. Pagherò! Tu non devi preoccuparti di niente. Ci penserò io.” “Con cosa?” ribatte Luke. Segue un silenzio penetrante. Guardo Luke, offesa. “Quando comincerò a lavorare” rispondo, con voce tremante. “Ho intenzione di guadagnare, sai, Luke. Non sono una scroccona.” Luke mi guarda per un momento, poi sospira. , “Becky, non possiamo andare avanti così” dice Luke, alla fine. “Lo sai quanto è costata la nostra luna di miele?” “Ehm… no.” D’un tratto mi rendo conto che non ne ho la minima idea. Io ho comperato i due biglietti aerei ma, a parte questo, è stato Luke che ha pagato tutto il resto. La luna di miele ci ha ridotti sul lastrico? Gli lancio un’occhiata e, per la prima volta, mi accorgo di quanto sia preoccupato. Oh, Dio. Provo una paura improvvisa. Siamo rimasti senza soldi e Luke ha cercato di nascondermelo. Me lo sento. È il mio intuito di donna. (…………) “Luke, siamo molto poveri?” dico, con tutta la calma possibile. Luke si volta e mi guarda. “No, Becky” risponde con tono paziente. “Non siamo molto poveri. Ma lo saremo presto se continui a comperare montagne di stronzate.” Montagne di stronzate? Sto per lanciarmi in una replica indignata quando vedo la sua espressione. E così chiudo la bocca e annuisco umilmente. (……) “I love shopping con mia sorella” (2004) Sophie Kinsella

 

La Dipendenza da Shopping Compulsivo, riceve una prima teorizzazione nel 1915 ad opera di Kraepelin che la definisce “oniomania” o “mania di comprare”.

Attualmente col termine di shopping compulsivo si definisce una dipendenza caratterizzata dalla compulsione immediata ed indifferibile ad acquistare di tutto, di più, al di là della propria situazione finanziaria, lavorativa e relazionale.

Più dell’80% dei soggetti è rappresentato da donne con un età media di 40 anni che appartengono a una fascia sociale media. Queste donne, spesso, hanno presentato germi di questa dipendenza già dall’adolescenza ed hanno sofferto anche di disturbi del comportamento alimentare.

A tutt’oggi tale dipendenza non ha ottenuto “riconoscimento ufficiale ” nei principali manuali diagnostici dei disturbi mentali (vedi DSM IV). Tale “esclusione” potrebbe essere imputata alla circostanza che in tale tipo di dipendenza, come anche altre tipo la dipendenza affettiva, manca l’assunzione di una sostanza esterna come ad esempio nella tossicodipendenza. Inoltre tale dipendenza si presenta come possibile sintomo in altri disturbi ufficiali quali: Disturbo Ossessivo Compulsivo, Disturbo del Controllo degli Impulsi, Depressione.

CRITERI DIAGNOSTICI PER LA DIPENDENZA DA SHOPPING

Per il dr. Lorrin Koran della Stanford University, lo shopping si configura come un disturbo del comportamento quando si verificano queste condizioni:

  • il denaro speso per gli acquisti è superiore alle proprie possibilità economiche;
  • gli acquisti sono frequenti all’interno di una stessa settimana;
  • gli acquisti effettuati sono fuori da ogni logica motivazione. Qualsiasi cosa si acquisti è funzionale solo a soddisfare un bisogno compulsivo.
  • lo shopping risponde a un bisogno che non può essere soddisfatto, per cui il mancato acquisto crea pesanti crisi di ansia e frustrazione;
  • il dedicarsi agli acquisti è un comportamento nuovo rispetto alle abitudini precedenti.

Oggigiorno questa dipendenza si sposa bene con la moderna società dei consumi che rappresenta un’incentivo ad acquistare di tutto, di più, al di là anche delle reali possibilità economiche, incentivando l’uso del denaro a debito. Il brano citato in apertura è preso da una serie di bestseller di successo “I love shoppping” che fotografano bene il fenomeno.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

 

DIPENDENZA DA LAVORO

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Fra le dipendenze più subdole c’è la dipendenza da lavoro. Il manager che arriva a lavorare fino a 22 ore al giorno, il dipendente che passa 15 ore al lavoro e racconta alla moglie di essere stato in palestra per nascondere il suo comportamento. Sono solo alcuni casi di Workaholics , i “drogati del lavoro”. Questo comportamento ossessivo-compulsivo nasce come dipendenza che noi chiamiamo “ben vestita”, appartenente soprattutto a colletti bianchi e manager. Queste persone quando entrano in azienda vengono magnificate perché si impegnano molto, ma l’impegno diventa presto una malattia. I disturbi sono psichici e di tipo organico. Mangiano e bevono poco fino ad arrivare a un deperimento organico. Sull’altro fronte accusano ansia, agorafobia e soprattutto depressione.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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DIPENDENZA DA INTERNET

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In questi ultimi anni abbiamo assistito alla nascita di una nuova tecnologia che ha ampliato le possibilità di comunicazione e di accesso alle fonti di informazione fino ad ora sconosciute. Sembra, però che questa nuova tecnologia, stia producendo dei fenomeni psicopatologici che si esprimono con una sintomatologia simile a quella che osserviamo in soggetti tossicodipendenti. Infatti esiste una vera e propria psicopatologia che va sotto il nome di Internet Addiction Disorder (I.A.D.) (disturbo da dipendenza da internet), dovuta all’abuso di Internet che mostra gli stessi sintomi dei tossicodipendenti.

Il termine si deve allo psichiatra americano Ivan Goldberg che propose dei criteri diagnostici. Goldberg con la sua proposta ha dato avvio ad una riflessione che ha incuriosito numerosi psicologi e psichiatri ed ha imposto all’attenzione del mondo il rischio di dipendenza da Internet.

Questi sono i principali sintomi che caratterizzano l’I.A.D.:
1. Bisogno di trascorrere un tempo sempre maggiore in rete per ottenere soddisfazione;
2. marcata riduzione di interesse per altre attività che non siano Internet;
3. sviluppo, dopo la sospensione o diminuzione dell’uso della rete, di agitazione psicomotoria, ansia, depressione, pensieri ossessivi su cosa accade on-line, classici sintomi astinenziali;
4. necessità di accedere alla rete sempre più frequentemente o per periodi più prolungati rispetto all’intenzione iniziale;
5. impossibilità di interrompere o tenere sotto controllo l’uso di Internet;
6. dispendio di grande quantità di tempo in attività correlate alla rete;
7. continuare a utilizzare Internet nonostante la consapevolezza di problemi fisici, sociali, lavorativi o psicologici recati dalla rete.

Le modificazioni psicologiche che si producono nell’individuo che diviene dipendente dalla rete sono : perdita delle relazioni interpersonali, modificazioni dell’umore, alterazione del vissuto temporale, cognitività completamente orientata all’utilizzo compulsivo del mezzo; il soggetto tende a sostituire il mondo reale con un oggetto artificioso, quasi una sorta di “feticismo tecnologico”, con il quale riesce a costruire un proprio mondo personale e in questo caso virtuale analogo al mondo del tossicodipendente che ha un proprio linguaggio, uno specifico abbigliamento, atteggiamenti e comportamenti diversi e differenti rispetto al mondo reale nel quale è abituato a vivere.

Ogni dipendenza implica dei meccanismi: la tolleranza (per cui si è costretti ad aumentare le dosi di una sostanza per ottenere lo stesso effetto), l’astinenza (con comparsa di sintomi specifici in seguito alla riduzione o sospensione di una particolare sostanza) e “craving” o smania che porta a un fortissimo e irresistibile desiderio di assumere una sostanza, desiderio che, se non soddisfatto, causa intensa sofferenza psichica e a volte fisica, con fissazione del pensiero, malessere, alterazione del senso della fame e della sete, irritabilità, ansia, insonnia, depressione e, nei casi più gravi sensazioni di derealizzazione e depersonalizzazione.

Questi elementi sono tipici di droghe come tossicodipendenza, tabagismo, alcolismo, gioco d’azzardo, attività sessuale irrefrenabile, assunzione di cibo seguita da vomito e sono anche riconoscibili in quanti fanno un uso eccessivo di Internet per soddisfare sul piano virtuale quel che non riescono a ottenere sul piano della realtà, fino al punto di percepire il mondo reale come un semplice ostacolo o impedimento all’esercizio della propria onnipotenza che sperimentano con immenso piacere nel mondo virtuale.

La dipendenza da Internet ha in comune con le altre droghe il tratto ossessivo-compulsivo, la compulsione da Internet si basa sul “piacere” anziché sulla “fobia”. E proprio perché si basa sul piacere, anziché sul disagio e la sofferenza, eliminarla risulta molto difficile.

Nelle chat, dove uno è libero di usare la fantasia nel presentarsi agli altri e nell’immaginarli, non è difficile incontrare persone che dichiarano un’identità sessuale diversa da quella reale, così come caratteristiche fisiche, età, occupazione, stato civile. Mentire dà a ciascuno l’euforia di una libertà illimitata e forse, per la prima volta in vita, l’ebbrezza di essere affascinanti, mostrando lati della propria persona che solo in un contesto privo di riscontri visivi, si sente di poter esaltare. In tal modo chi chatta ha la possibilità di realizzare in modo virtuale il proprio ideale dell’io, e di riflesso sentirsi finalmente ideale.

Con queste sensazioni piacevoli a portata di mano, come si fa a spegnere il computer e tornare nella realtà dove nessuno lo crede davvero ideale?A questo punto le ore davanti allo schermo del computer dedicate allo scambio di informazioni, sensazioni ed emozioni aumentano.Poi scatta la tentazione di incontrarsi e spesso la realtà non rispecchia le aspettative, allora l’illuso insoddisfatto diventa disilluso, e quello soddisfatto, ma respinto, diventa un depresso.

Nonostante la realtà smentisca il virtuale, non per questo ci si astiene, infatti se solo il virtuale dà quello che nega il reale, allora ci si immette nel virtuale, riducendo i contatti reali, ormai divenuti fonte d’ansia e quindi da evitare!

E poi il sesso virtuale, vera e propria dipendenza, dove la masturbazione individuale si accompagna alla condivisione. La possibilità di essere espliciti e diretti, nell”anonimato, porta a scoprire forme di eccitazione ignote e all’inserimento nelle proprie perversioni con potere seduttivo. In tal modo ci si allontana dai rapporti sessuali reali i quali appaiono insignificanti e troppo limitati.

Tra le varie posizioni assunte dal soggetto, quella perversa è quella che più “resiste” a un approccio curativo. Nella maggioranza dei casi, questo tipo di declinazione della propria sessualità assume l’aspetto più di una trasgressione personalizzata che non viene percepita come problematica dal soggetto. La rete si presenta come un osservatorio privilegiato della perversione per alcune sue peculiari caratteristiche. Il suo mondo digitale e astratto, immaginario e virtuale, così impalpabile, parallelo a quello reale pare trasfigurato in un palcoscenico ideale sul quale il perverso mette in scena diverse identità, coperto dall’anonimato e al riparo dalla contaminazione del contatto e della vicinanza fisica, trovando una immediata corrispondenza al suo mondo magico, artificiale nel quale ogni differenza tra i sessi e le generazioni è annullata, per ritornare a una dimensione fantasmatica in cui dominano la finzione e l’illusione che si possa in qualche modo sfuggire alle leggi del vivere comune e al principio di realtà. La rete inoltre rappresenta uno spazio relazionale del tutto particolare, in cui l’interazione avviene tramite tastiera e monitor (lasciamo per ora in sospeso le tecnologie più avanzate quali audio e video). Ciò costringe a una mancanza di contatto diretto con il proprio interlocutore che, tuttavia, nel caso particolare delle perversioni, rappresenta un vantaggio in quanto tale assetto consente una distanza di “sicurezza” da chi si trova all’altro capo del collegamento.

La tossicodipendenza potrebbe essere vista come un bisogno dell’individuo di crearsi un mondo personale indipendentemente dalla sostanza o strumento che lo rende dipendente. E’ evidente che attraverso internet si possono provare intensi e piacevoli sentimenti di fuga, superando on-line i problemi della vita reale, con un effetto simile ai “viaggi”consentiti da alcune droghe e inoltre permette al soggetto di provare un senso di onnipotenza, connesse con il superamento di ogni limite personale e spazio temporale. Il tempo sembra fermarsi in rete, la parola fine non c’è mai.

I soggetti che utilizzano le rete, oltre a non rendersi conto delle diverse ore già trascorse dinanzi allo schermo, tendono ad alterarsi facilmente con chi disturba il loro “viaggio”; esperienza questa che può essere paragonata alla risposta che un alcolista da ad un amico trovandosi ad una festa “soltanto un biccherino”, o a quella del fumatore che dice a se stesso “solo un’ultima sigaretta e andrò a dormire; lo stesso procedimento viene messo in atto dagli internet dipendenti che risponderanno irritati a chi gli chiede di disconnettersi “ancora un minuto e spengo”, oppure diranno a se stessi razionalizzando “un altro minuto non farà molta differenza” ma poi rimarranno connessi ancora per ore e ore.

Altra caratteristica importante tra gli internet dipendenti è la negazione del problema come spesso accade con qualunque altro tipo di dipendenza; differenza questa ancor più difficile da riconoscere.E’ molto difficile infatti chiedere aiuto per qualcosa che la maggior parte delle persone apprezza per la sua potenza e il suo potere innovativo; e quando questi soggetti vengono messi di fronte alla chiara evidenza di un comportamento tossicomanico si trincerano dietro l’opinione comune secondo la quale internet è grandioso, “non può far male”.

Ogni giorno molti utenti rischiano di allontanarsi dai rapporti interpersonali “faccia a faccia”, indispensabili per una vita sana e socialmente equilibrata, preferendo relazioni virtuali; queste inevitabilmente portano ad una spersonalizzazione e ad una proiezione del proprio sè in un luogo non fisico che, data la facilità, la velocità e l’ampiezza geografica dei rapporti il soggetto preferisce.

Si possono individuare vari tipi di gruppi affetti dal disturbo :

  • Il gruppo degli utenti a rischio presentano un vissuto di curiosità nei confronti delle opportunità offerte dalla rete simile alla fase di luna di miele del soggetto che ha iniziato un rapporto stabile con l’eroina; tendono ad osservare ed apprendere come muoversi in questo nuovo mondo; in questa fase il soggetto custodisce gelosamente ogni nuova conquista iniziando a modificare la propria identità personale
  • Il gruppo degli utenti abusatori ha caratteristiche analoghe ai soggetti che utilizzano oppiacei da diverso tempo: gravi problemi nelle relazioni affettive, importanti problematiche lavorative legate all’utilizzo della rete, problematiche psicofisiche (problemi visivi, alterazione del ritmo circadiano, disturbi nelle condotte alimentari, ecc). Il soggetto in questa fase chiamata della “sostituzione” è profondamente immerso nella comunità internet; grazie al web raggiunge ciò che prima non era mai riuscito a ottenere: avrà tanti amici, troverà sostegno, nuovi stimoli, fiducia, ecc. (ma veri?) L’utente adesso ha sempre un posto dove andare, sa sempre cosa fare; tutte quelle attività che permettevano al soggetto di andare avanti nella vita ora non contano più!
  • Il gruppo degli utenti dipendenti presenta aspetti psicopatologici più gravi; in particolare stato confusionale per ore, allucinazioni semplici visive, prosopoagnosia, ipertermie, tremori; Importanti problemi nella vita relazionale: abbandono coniugale da parte del partner, seri problemi nell’ambiente lavorativo. Il soggetto ha un’assoluta mancanza di consapevolezza. Altri disturbi presenti nei soggetti dipendenti sono: prolungamento del periodo del tempo di collegamento prefissato, grande quantità di tempo del soggetto viene spesa alla ricerca del materiale da utilizzare in rete, interruzione o riduzione di importanti attività sociali, lavorative o ricreative a causa dell’utilizzo di internet; uso continuativo della rete nonostante la consapevolezza di avere un problema sociale, psichica o fisica collegato ad esso.

E’ opportuno quindi percepire il proprio eventuale problema e raggiungerne la coscienza.

Curioso è il ruolo degli operatori nei canali chat. Questi particolari utenti del canale, hanno determinati “poteri” come ad es. eliminare altri utenti dal canale o impedirne l’accesso, dare il ruolo di operatori ad altri utenti, etc. Il ruolo degli operatori dovrebbe essere quello di moderare il canale stesso, “kikkare” ovvero togliere dal canale utenti che disturbano la chat, “bannare” (impedire l’accesso al canale) utenti che effettuano spam (messaggi pubblicitari, testo ripetuto, etc.). Ogni utente in chat ha la facoltà di creare una stanza, diventando operatore non appena accede per primo alla stanza stessa. Essere operatore non è un titolo per grazia ricevuta, è un titolo acquisito da sè quando si crea una stanza o dato da un altro operatore . Tutti possono creare una stanza! Nessuna laurea, nessun esame, nessun altro particolare merito! Molto spesso si da questo titolo per semplice simpatia verso un utente, per amicizia nella vita reale. Essere operatore, quindi, deve essere considerato un titolo ben lungi da far pensare alla persona che lo detiene, come “speciale”, “particolare”, “superiore”.

Per chi usa il proprio “titolo” di operatore con fini diversi da quelli di moderare il canale, potrebbe creare due aspetti negativi :

– Aver bisogno del titolo di operatore per sentirsi superiore e più “interessante” verso gli altri utenti della chat e verso se stessi. Questo accresce la propria autostima in modo del tutto ingiustificato anche nella realtà, danneggiando la psiche di chi da troppa importanza al proprio titolo.

– Gli operatori che mal usano la loro posizione , distorcendo il mondo della chat e avvicinandolo al mondo reale, acquisiscono una specie di titolo “dittatoriale”, decidendo della “vita” o della “morte” di un utente del canale chat. L’operatore che fa mal uso del suo titolo, quindi si sente padrone-dittatore del proprio mondo (canale chat), li dentro può dettar legge, eliminare utenti “antipatici”, scrivere quello che vuole nel canale (senza timore di essere eliminato da nessuno), far credere ad altri utente del canale che lui è degno di maggior attenzione, è interiormente superiore per il solo motivo di essere operatore. Può screditare altri utenti o parlare male di loro, in pubblico o privato. Tutti comportamenti scorretti, maleducati, infantili, non da “operatore corretto” e che invece di enfatizzare la persona per il titolo che ha, ha l’effetto completamente opposto.

In realtà bisogna rendersi conto che è soltanto una chat e non la vita reale.

Ovviamente chi si vuol fregiare degnamente del titolo di operatore di un determinato canale della chat, si dovrebbe limitare al ruolo che gli compete, ovvero quello di moderare la chat, di essere utile al canale, senza limitare la libertà di parlare se non nuoce al pubblico del canale stesso, senza abusare del proprio ruolo, senza crearsi falsi aloni di “superiorità” (del tutto ingiustificati), senza eliminare utenti che sono a lui personalmente antipatici. Vi immaginate un simile individuo che abusa del proprio potere nella realtà? Non è certo questo il corretto modo di “controllare” qualcosa, né il internet né nella realtà.

E’ facile essere preda di minacce e di insulti di ogni tipo in chat, proprio per la peculiarità del mezzo, infatti la propria identità è nascosta. Non bisogna però dimenticare che si può risalire attraverso il numero ip al computer dal quale si sta chattando. Minacciare in chat, usare violenza attraverso una chat con parole e metodi psicologici, può essere perseguito. Attraverso il “log” del provider attraverso il quale si ha accesso ad internet e il “log” del server attraverso il quale si chatta, si può risalire all’identità. Se ci si sente minacciati, offesi ed in qualche modo lesi, è consigliabile contattare il servizio “abuse” del provider. E’ facile rendersi conto di come sia vile colui che minaccia usando l’anonimato e credendo di non essere perseguibile per il solo motivo che si trova su Internet. Il mondo ideale di queste persone sole e vili può essere proprio quello di Internet. Non lasciatevi quindi infastidire o impaurire di colui che usa il media Internet in questo meschino modo.

Non importa quello che il “minacciatore telematico” dice di voi, non fate l’errore di lasciarvi influenzare dalle sue offese o dalle sue minacce, perdendo la stima in voi stessi. Non fate l’errore di credere alle minacce di denunciarvi e farvi avere delle pene secondo sue fantomatiche accuse, questo lo può decidere un giudice e non lui! Non è legalmente permesso attaccare tramite sistemi telematici il proprio computer, ad esempio rallentando la connessione tramite programmi come i bombardatori a pacchetti e altri sistemi analoghi; non è legale tentare di introdursi nel computer di persone collegate ad internet attraverso il numero IP. E’ possibile proteggersi in svariati modi, come ad esempio installando un programma Firewall (ovviamente muniti di licenza d’uso). Vi sono programmi in grado di monitorare determinati attacchi, di registrare il numero IP di colui che tenta l’intrusione. Evitate sempre di cadere nelle trappole tese da coloro che vogliono soltanto la violenza e lo scontro verbale a suon di brutte parole, anche perché spesso non intendono risolvere le questioni in “scontri” leali, ma usano trucchi e strumenti subdoli. L’ignoranza, l’arroganza ed il gusto per la violenza sono vicini a queste persone scorrette.

Non si creda quindi colui che desidera usare Internet per sfogare la propria violenza repressa agendo verso gli altri, di poterlo fare liberamente o di aver trovato un mondo anarchico in cui poter scorazzare da “bandito”, vi sono delle leggi da rispettare. Molte azioni effettuate su internet : minacce, aggressioni verbali, offese, attacchi informatici verso altri computer e altre manifestazioni possono essere sanzionabili penalmente. Molto spesso infatti si conosce anche nella vita reale la persona minacciata, e comunque non bisogna dimenticare che “dietro” Internet vi sono uomini e donne in carne ed ossa!

Si possono classificare quattro tipi di violenza:

– Violenza per paura sprigionata dalla persona che si sente minacciata da una situazione, da un gruppo di persone o da una persona singola. La persona entra in panico e cerca con la violenza di togliersi da questa situazione. Si dovrebbe affrontare la situazione di queste persone cercando di minimizzare il panico dell’altra persona, convincendola che non siamo una minaccia, senza atteggiarsi in maniera autoritaria.

– Violenza per delirio è sprigionata dalla persona che non percepisce limiti di alcuna natura (fisica, morale, etc.), ad esempio la persona sotto gli effetti delle droghe incluso l’alcool. Per affrontare la persona in tale stato, bisognerebbe concentrare la sua attenzione su qualsiasi cosa che non sia se stesso, con voce convinta ed autoritaria, senza dare possibilità di scelta al soggetto.

– Violenza per capriccio irragionevole è basata su un comportamento irragionevole, ad esempio per un sindrome psicotica da rabbia cronica da sfociare all’esterno. Il soggetto in tal caso vuole intenzionalmente provocare violenza per sfogarsi in qualche cosa. Questa è una delle situazioni più difficili da gestire. Infatti bisognerebbe agire in due modi verso tali persone : togliere l’innesco emotivo alla persona, ad esempio non dando alcuna importanza alle sue richieste e fargli anche capire che il suo comportamento/richieste non verranno più tollerate o soddisfatte.

– Violenza criminale usata a livello coercitivo per ottenere qualcosa da una persona. In questo caso la persona vuole da noi qualcosa, tranne che una sfida.

In ultima analisi non bisognerebbe dimenticare che una persona che minaccia o si lascia andare in manifestazioni violente (anche sotto forma di aggressioni verbali) si può pensare in realtà come una persone vile, che cerca di togliersi dalla situazione di paura con la violenza, con scarsa fiducia nei suoi mezzi che non siano quelli violenti. In realtà colui che scatta per primo tra chi ha un diverbio è quello che sente l’impulso di dimostrare che “ha ragione”. Deve, con molta probabilità, dimostrare al proprio ego ed a eventuali persone che assistono al “litigio” che deve “vincere”.

Le chat consentono agli utenti di dialogare in tempo reale da un capo all’altro del pianeta. Purtroppo sempre più spesso si vedono i canali chat come unico e solo mezzo per conoscere poi nella realtà altre persone. Conoscersi si ma non come unico e solo mezzo per farlo. Molto spesso chi si descrive o cerca di far credere in modo positivo con chi chatta, non è in tal modo ma come vorrebbe apparire nella vita reale.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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DIPENDENZA DA GIOCO D’AZZARDO

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Il gioco d’azzardo è considerato come una vera e propria forma di “dipendenza senza droga”. Il D.S.M. IV (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) propone i seguenti criteri diagnostici per il “comportamento maladattivo legato al gioco d’azzardo”, e devono essere presenti almeno 4 dei sintomi seguenti:.

  • Coinvolgimento sempre crescente nel gioco d’azzardo (ad esempio, il soggetto è continuamente intento a rivivere esperienze trascorse di gioco, a valutare o pianificare la prossima impresa di gioco, a escogitare modi per procurarsi il denaro con cui giocare)
  • Bisogno di giocare somme di denaro sempre maggiori per raggiungere lo stato di eccitazione desiderato
  • Irrequietezza e irritabilità quando si tenta di giocare meno o di smettere
  • Il soggetto ricorre al gioco come fuga da problemi o come conforto all’umore disforico (ad esempio, senso di disperazione, di colpa, ansia, depressione)
  • Quando perde il soggetto ritorna spesso a giocare per rifarsi (“inseguimento” delle perdite)
    Il soggetto mente in famiglia e con gli altri per nascondere il grado di coinvolgimento nel gioco
  • Il soggetto compie azioni illegali (ad esempio, reati di falso, truffa, furto, appropriazione indebita) per finanziare il gioco.
  • Il soggetto mette a rischio o perde una relazione importante, un lavoro, un’opportunità di formazione o di carriera a causa del gioco.
  • Confida negli altri perchè gli forniscano il denaro necessario a far fronte a una situazione economica disperata, causata dal gioco (una “operazione di salvataggio”).

Si sta esaminando la possibilità di introdurre un 10° criterio. Se verrà accettato il numero dei criteri necessari alla diagnosi potrà cambiare

  • Reiterati e inutili sforzi di tenere sotto controllo l’attività di gioco, di ridurla o di smettere di giocare

L’allarme sociale sulle problematiche legate al gioco d’azzardo riflette la diffusa percezione della crescente gravità del problema.La massiccia invasione di poker-machines, l’enorme crescita dell’offerta di possibilità legali di scommettere (lotto e super-enalotto, “gratta e vinci” , scommesse sull’ippica, centri scommesse della Snai ,) alimenta le speranze illusorie (il-ludere- entrare nel gioco) di molti , e sappiamo che il secondo tempo della speranza spesso si chiama de-lusione (sempre facendo riferimento all’etimo- uscita dal gioco-).Ma, allo stesso tempo, è evidente l’impensabilità di intervenire sulle problematiche legate al gioco d’azzardo attraverso un’ottica proibizionista, (l’idea di proibire tout court molte forme di gioco oltre a risultare estremamente impopolare priverebbe lo stato di ingenti risorse economiche, visto che le entrate per il gioco del lotto ed affini costituiscono una vera e propria forma di tassazione parallela.). Se pensiamo al problema del giocatore compulsivo in analogia al problema delle tossicodipendenze appare evidente che lo “spacciatore” più importante risulterebbe lo stato stesso, che perciò dovrebbe salire per primo sul banco degli imputati, mente il giocatore che cade in rovina sarebbe (ed a tutti gli effetti è) la persona da aiutare. Sappiamo inoltre che politiche sociali di rigoroso proibizionismo non fanno che alimentare lo sviluppo di circuiti clandestini illegali alternativi .

Qual è la relazione tra gioco ed azzardo? Se facciamo riferimento alla ormai classica categorizzazione di Caillois delle quattro forme fondamentali di gioco (alea, agon, mimicry, ilinx,) possiamo intanto evidenziare come la componente della casualità (il dado, la sorte, la fortuna\sfortuna,) appartenga in misura più evidente (anche se non esclusiva) ai giochi detti di alea, nei quali la componente casuale è preponderante (esempio classico la roulette). L’aleatorietà, cioè l’incertezza sull’esito, permette la scommessa, la scommessa determina la vincita o la perdita, vincite e perdite possono rinforzare o indebolire il desiderio di scommettere nuovamente.

Il giocatore definito compulsivo , che va comunque inquadrato lungo un continuum (giocatore occasionale, abituale, a rischio, compulsivo,) evidenzia una progressiva perdita della capacità di porre dei limiti al coinvolgimento nel gioco, perdite economiche frequenti e sempre più vistose, assorbimento sempre più esclusivo nell’attività di gioco (tanto che da alcuni egli è definito ludomane) . E’ stato segnalato il caso di uno di questi giocatori che nell’andare ad assistere la moglie che stava partorendo viene “distratto” dai videopoker del bar al piano terra dell’ospedale, dove rimane a giocare per 10 ore di seguito, ricordandosi del lieto evento solo quando il neonato aveva già diverse ore. Ci sono numerose testimonianze di un restringimento del campo di coscienza (simile a ciò che si verifica nei fenomeni di trance) e ad aspetti quasi psicotici del giocatore compulsivo (perdita dell’esame di realtà).

In una significativa analogia con la dipendenza da sostanze, sono state inoltre evidenziate forme di assuefazione (bisogno di scommettere cifre sempre più alte,) e di astinenza (sudorazione, tremori, tachicardia, ansia,) in giocatori ai quali il gioco stesso viene impedito (ad es. a causa di ospedalizzazione o detenzione).

L’inseguimento della perdita, vale a dire il desiderio di rifarsi, precipita in un progressivo e sempre più vorticoso disastro economico il giocatore compulsivo. Compaiono a questo punto fenomeni quali la richiesta di prestiti ad usura , le frequenti menzogne in famiglia volte a nascondere la reale situazione economica, la scarsa attenzione o il disinteresse per l’attività lavorativa, che conducono in lassi di tempo più o meno lunghi a gravi crisi personali (a volte con suicidi o tentativi di suicidio) che possono motivare il giocatore compulsivo a chiedere aiuto (più spesso sono i familiari del giocatore a rompere la cortina di omertà, vergogna e disperazione).

LE CAUSE

Le ricerche su possibili fattori genetici e neurobiologici sono ancora agli inizi e non hanno evidenziato nulla di certo. Esiste sicuramente da parte del giocatore compulsivo la ricerca di picchi di attivazione (“hig””) che possono far pensare a meccanismi di neuromediazione caratteristicamente differenti dal funzionamento medio (in particolare un basso livello di attività serotonergica).

Il gambling compulsivo viene da alcuni studiosi considerato un “equivalente depressivo”, vale a dire un comportamento che sta al posto di una depressione negata (che solitamente compare quando il giocatore smette di giocare). Non è ovviamente di facile comprensione quanto di questo elemento depressivo sia dovuto a vicende relazionali ed affettive e quanto influisca l’elemento psicobiologico.

Sul versante psicoanalitico l’ipotesi più promettente e suggestiva prende in considerazione l’elemento di sfida alla casualità sotteso al comportamento compulsivo del giocatore patologico, il tentativo ossessivamente messo in atto di sconfiggere la brutale indifferenza del caso, inseguendo la sensazione di avere la dea bendata dalla propria parte.

La sfida al caso, la scommessa con il fato introduce il giocatore in una dimensione spazio-temporale assolutamente speciale (che per certi versi richiama la teorizzazione di Winnicott sullo spazio e le condotte transizionali). L’elemento oggettivo viene messo tra parentesi (le perdite che si fanno sempre più ingenti non destano la preoccupazione che meriterebbero) ed il giocatore è assolutamente convinto che l’azzardo finalmente pagherà e tutto ritornerà a posto; l’elemento soggettivo della “fiducia” non viene compensato dal dubbio in una distorsione che è al contempo cognitiva ed emotiva ed assume valore difensivo rispetto ad una considerazione più realistica della propria implicazione nel gioco e nelle perdite.
MODELLI DI INTERVENTO

Per giocatori compulsivi che hanno “toccato il fondo” segnalo l’esistenza di gruppi di auto-aiuto (Giocatori Anonimi), che sulla falsariga dei gruppi di auto-aiuto per altre problematiche, si incontrano per riconoscere di aver perso il controllo della situazione , condividere l’esperienza di impotenza nei confronti del gioco, proporsi l’astinenza dal gioco e confrontare nell’ambito del gruppo le forme di inganno ed autoinganno ancora in atto.

Segnalo poi l’esistenza di gruppi terapeutici per giocatori d’azzardo compulsivi, che a differenza dei gruppi di auto-aiuto prevedono, e sono condotti, da psicoterapeuti e coinvolgono la famiglia del giocatore nel processo terapeutico. Frequentemente accade che la famiglia del giocatore compulsivo risente dei fenomeni negativi legati alle perdite e cerchi aiuto mentre ancora il giocatore stesso è completamente assorbito dall’inseguimento della perdita (vale a dire da un desiderio di rifarsi che provoca ulteriori perdite ed aggrava la situazione).

Nell’ottica psicodinamica il giocare compulsivamente (cioè seguendo un irresistibile impulso a continuare, avendo smarrito la capacità di smettere,) è considerato un sintomo, che alla stregua di altri sintomi (dall’agorafobia alla tricotillomania all’ulcera peptica,) segnala un disagio o malessere di personalità e, ad un altro livello protegge da disastri peggiori ed in quanto tale non va rimosso con operazioni di “chirurgia psichica” ma compreso nel suo significato. Un intervento che si preoccupi solo di eliminare il sintomo favorisce spesso quei fenomeni di “migrazione” ( il giocatore che smette di giocare e, ad es. inizia a bere, o fumare cento sigarette al giorno o a passare con il rosso ai semafori non evidenzia un buon risultato clinico).

La funzione protettiva del sintomo deve essere sempre tenuta presente (nel lavoro clinico con dipendenti da sostanze ho compreso come ha volte l’uso di droga può evitare un crollo psicotico o un grave atto eteroaggressivo), e la dipendenza da gioco va inquadrata in rapporto alla soggettività del giocatore, alla sua struttura di personalità, storia affettiva, relazioni interpersonali significative, fase del ciclo di vita.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

 

DIPENDENZA DA CHAT

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Nelle chat, dove uno è libero di usare la fantasia nel presentarsi agli altri e nell’immaginarli, non è difficile incontrare persone che dichiarano un’identità sessuale diversa da quella reale, così come caratteristiche fisiche, età, occupazione, stato civile. Mentire dà a ciascuno l’euforia di una libertà illimitata e forse, per la prima volta in vita, l’ebbrezza di essere affascinanti, mostrando lati della propria persona che solo in un contesto privo di riscontri visivi, si sente di poter esaltare. In tal modo chi chatta ha la possibilità di realizzare in modo virtuale il proprio ideale dell’io, e di riflesso sentirsi finalmente ideale.

Con queste sensazioni piacevoli a portata di mano, come si fa a spegnere il computer e tornare nella realtà dove nessuno lo crede davvero ideale?A questo punto le ore davanti allo schermo del computer dedicate allo scambio di informazioni, sensazioni ed emozioni aumentano.Poi scatta la tentazione di incontrarsi e spesso la realtà non rispecchia le aspettative, allora l’illuso insoddisfatto diventa disilluso, e quello soddisfatto, ma respinto, diventa un depresso.

Nonostante la realtà smentisca il virtuale, non per questo ci si astiene, infatti se solo il virtuale dà quello che nega il reale, allora ci si immette nel virtuale, riducendo i contatti reali, ormai divenuti fonte d’ansia e quindi da evitare!

Ogni giorno molti utenti rischiano di allontanarsi dai rapporti interpersonali “faccia a faccia”, indispensabili per una vita sana e socialmente equilibrata, preferendo relazioni virtuali; queste inevitabilmente portano ad una spersonalizzazione e ad una proiezione del proprio sè in un luogo non fisico che, data la facilità, la velocità e l’ampiezza geografica dei rapporti il soggetto preferisce.

Si possono individuare vari tipi di gruppi affetti dal disturbo :

  • Il gruppo degli utenti a rischio presentano un vissuto di curiosità nei confronti delle opportunità offerte dalla rete simile alla fase di luna di miele del soggetto che ha iniziato un rapporto stabile con l’eroina; tendono ad osservare ed apprendere come muoversi in questo nuovo mondo; in questa fase il soggetto custodisce gelosamente ogni nuova conquista iniziando a modificare la propria identità personale
  • Il gruppo degli utenti abusatori ha caratteristiche analoghe ai soggetti che utilizzano oppiacei da diverso tempo: gravi problemi nelle relazioni affettive, importanti problematiche lavorative legate all’utilizzo della rete, problematiche psicofisiche (problemi visivi, alterazione del ritmo circadiano, disturbi nelle condotte alimentari, ecc). Il soggetto in questa fase chiamata della “sostituzione” è profondamente immerso nella comunità internet; grazie al web raggiunge ciò che prima non era mai riuscito a ottenere: avrà tanti amici, troverà sostegno, nuovi stimoli, fiducia, ecc. (ma veri?) L’utente adesso ha sempre un posto dove andare, sa sempre cosa fare; tutte quelle attività che permettevano al soggetto di andare avanti nella vita ora non contano più!
  • Il gruppo degli utenti dipendenti presenta aspetti psicopatologici più gravi; in particolare stato confusionale per ore, allucinazioni semplici visive, prosopoagnosia, ipertermie, tremori; Importanti problemi nella vita relazionale: abbandono coniugale da parte del partner, seri problemi nell’ambiente lavorativo. Il soggetto ha un’assoluta mancanza di consapevolezza. Altri disturbi presenti nei soggetti dipendenti sono: prolungamento del periodo del tempo di collegamento prefissato, grande quantità di tempo del soggetto viene spesa alla ricerca del materiale da utilizzare in rete, interruzione o riduzione di importanti attività sociali, lavorative o ricreative a causa dell’utilizzo di internet; uso continuativo della rete nonostante la consapevolezza di avere un problema sociale, psichica o fisica collegato ad esso.

E’ opportuno quindi percepire il proprio eventuale problema e raggiungerne la coscienza.

Curioso è il ruolo degli operatori nei canali chat. Questi particolari utenti del canale, hanno determinati “poteri” come ad es. eliminare altri utenti dal canale o impedirne l’accesso, dare il ruolo di operatori ad altri utenti, etc. Il ruolo degli operatori dovrebbe essere quello di moderare il canale stesso, “kikkare” ovvero togliere dal canale utenti che disturbano la chat, “bannare” (impedire l’accesso al canale) utenti che effettuano spam (messaggi pubblicitari, testo ripetuto, etc.). Ogni utente in chat ha la facoltà di creare una stanza, diventando operatore non appena accede per primo alla stanza stessa. Essere operatore non è un titolo per grazia ricevuta, è un titolo acquisito da sè quando si crea una stanza o dato da un altro operatore . Tutti possono creare una stanza! Nessuna laurea, nessun esame, nessun altro particolare merito! Molto spesso si da questo titolo per semplice simpatia verso un utente, per amicizia nella vita reale. Essere operatore, quindi, deve essere considerato un titolo ben lungi da far pensare alla persona che lo detiene, come “speciale”, “particolare”, “superiore”.

Per chi usa il proprio “titolo” di operatore con fini diversi da quelli di moderare il canale, potrebbe creare due aspetti negativi :

– Aver bisogno del titolo di operatore per sentirsi superiore e più “interessante” verso gli altri utenti della chat e verso se stessi. Questo accresce la propria autostima in modo del tutto ingiustificato anche nella realtà, danneggiando la psiche di chi da troppa importanza al proprio titolo.

– Gli operatori che mal usano la loro posizione , distorcendo il mondo della chat e avvicinandolo al mondo reale, acquisiscono una specie di titolo “dittatoriale”, decidendo della “vita” o della “morte” di un utente del canale chat. L’operatore che fa mal uso del suo titolo, quindi si sente padrone-dittatore del proprio mondo (canale chat), li dentro può dettar legge, eliminare utenti “antipatici”, scrivere quello che vuole nel canale (senza timore di essere eliminato da nessuno), far credere ad altri utente del canale che lui è degno di maggior attenzione, è interiormente superiore per il solo motivo di essere operatore. Può screditare altri utenti o parlare male di loro, in pubblico o privato. Tutti comportamenti scorretti, maleducati, infantili, non da “operatore corretto” e che invece di enfatizzare la persona per il titolo che ha, ha l’effetto completamente opposto.

In realtà bisogna rendersi conto che è soltanto una chat e non la vita reale.

Ovviamente chi si vuol fregiare degnamente del titolo di operatore di un determinato canale della chat, si dovrebbe limitare al ruolo che gli compete, ovvero quello di moderare la chat, di essere utile al canale, senza limitare la libertà di parlare se non nuoce al pubblico del canale stesso, senza abusare del proprio ruolo, senza crearsi falsi aloni di “superiorità” (del tutto ingiustificati), senza eliminare utenti che sono a lui personalmente antipatici. Vi immaginate un simile individuo che abusa del proprio potere nella realtà? Non è certo questo il corretto modo di “controllare” qualcosa, né il internet né nella realtà.

E’ facile essere preda di minacce e di insulti di ogni tipo in chat, proprio per la peculiarità del mezzo, infatti la propria identità è nascosta. Non bisogna però dimenticare che si può risalire attraverso il numero ip al computer dal quale si sta chattando. Minacciare in chat, usare violenza attraverso una chat con parole e metodi psicologici, può essere perseguito. Attraverso il “log” del provider attraverso il quale si ha accesso ad internet e il “log” del server attraverso il quale si chatta, si può risalire all’identità. Se ci si sente minacciati, offesi ed in qualche modo lesi, è consigliabile contattare il servizio “abuse” del provider. E’ facile rendersi conto di come sia vile colui che minaccia usando l’anonimato e credendo di non essere perseguibile per il solo motivo che si trova su Internet. Il mondo ideale di queste persone sole e vili può essere proprio quello di Internet. Non lasciatevi quindi infastidire o impaurire di colui che usa il media Internet in questo meschino modo.

Non importa quello che il “minacciatore telematico” dice di voi, non fate l’errore di lasciarvi influenzare dalle sue offese o dalle sue minacce, perdendo la stima in voi stessi. Non fate l’errore di credere alle minacce di denunciarvi e farvi avere delle pene secondo sue fantomatiche accuse, questo lo può decidere un giudice e non lui! Non è legalmente permesso attaccare tramite sistemi telematici il proprio computer, ad esempio rallentando la connessione tramite programmi come i bombardatori a pacchetti e altri sistemi analoghi; non è legale tentare di introdursi nel computer di persone collegate ad internet attraverso il numero IP. E’ possibile proteggersi in svariati modi, come ad esempio installando un programma Firewall (ovviamente muniti di licenza d’uso). Vi sono programmi in grado di monitorare determinati attacchi, di registrare il numero IP di colui che tenta l’intrusione. Evitate sempre di cadere nelle trappole tese da coloro che vogliono soltanto la violenza e lo scontro verbale a suon di brutte parole, anche perché spesso non intendono risolvere le questioni in “scontri” leali, ma usano trucchi e strumenti subdoli. L’ignoranza, l’arroganza ed il gusto per la violenza sono vicini a queste persone scorrette.

Non si creda quindi colui che desidera usare Internet per sfogare la propria violenza repressa agendo verso gli altri, di poterlo fare liberamente o di aver trovato un mondo anarchico in cui poter scorazzare da “bandito”, vi sono delle leggi da rispettare. Molte azioni effettuate su internet : minacce, aggressioni verbali, offese, attacchi informatici verso altri computer e altre manifestazioni possono essere sanzionabili penalmente. Molto spesso infatti si conosce anche nella vita reale la persona minacciata, e comunque non bisogna dimenticare che “dietro” Internet vi sono uomini e donne in carne ed ossa!

Si possono classificare quattro tipi di violenza:

– Violenza per paura sprigionata dalla persona che si sente minacciata da una situazione, da un gruppo di persone o da una persona singola. La persona entra in panico e cerca con la violenza di togliersi da questa situazione. Si dovrebbe affrontare la situazione di queste persone cercando di minimizzare il panico dell’altra persona, convincendola che non siamo una minaccia, senza atteggiarsi in maniera autoritaria.

– Violenza per delirio è sprigionata dalla persona che non percepisce limiti di alcuna natura (fisica, morale, etc.), ad esempio la persona sotto gli effetti delle droghe incluso l’alcool. Per affrontare la persona in tale stato, bisognerebbe concentrare la sua attenzione su qualsiasi cosa che non sia se stesso, con voce convinta ed autoritaria, senza dare possibilità di scelta al soggetto.

– Violenza per capriccio irragionevole è basata su un comportamento irragionevole, ad esempio per un sindrome psicotica da rabbia cronica da sfociare all’esterno. Il soggetto in tal caso vuole intenzionalmente provocare violenza per sfogarsi in qualche cosa. Questa è una delle situazioni più difficili da gestire. Infatti bisognerebbe agire in due modi verso tali persone : togliere l’innesco emotivo alla persona, ad esempio non dando alcuna importanza alle sue richieste e fargli anche capire che il suo comportamento/richieste non verranno più tollerate o soddisfatte.

– Violenza criminale usata a livello coercitivo per ottenere qualcosa da una persona. In questo caso la persona vuole da noi qualcosa, tranne che una sfida.

In ultima analisi non bisognerebbe dimenticare che una persona che minaccia o si lascia andare in manifestazioni violente (anche sotto forma di aggressioni verbali) si può pensare in realtà come una persone vile, che cerca di togliersi dalla situazione di paura con la violenza, con scarsa fiducia nei suoi mezzi che non siano quelli violenti. In realtà colui che scatta per primo tra chi ha un diverbio è quello che sente l’impulso di dimostrare che “ha ragione”. Deve, con molta probabilità, dimostrare al proprio ego ed a eventuali persone che assistono al “litigio” che deve “vincere”.

Le chat consentono agli utenti di dialogare in tempo reale da un capo all’altro del pianeta. Purtroppo sempre più spesso si vedono i canali chat come unico e solo mezzo per conoscere poi nella realtà altre persone. Conoscersi si ma non come unico e solo mezzo per farlo. Molto spesso chi si descrive o cerca di far credere in modo positivo con chi chatta, non è in tal modo ma come vorrebbe apparire nella vita reale.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

DIPENDENZE AFFETTIVE

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“Quando giustifichiamo i suoi malumori, il suo cattivo carattere, la sua indifferenza, o li consideriamo conseguenze di un’infanzia infelice e cerchiamo di diventare la sua terapista, stiamo amando troppo.

Quando non ci piacciono il suo carattere, il suo modo di pensare e il suo comportamento, ma ci adattiamo pensando che se noi saremo abbastanza attraenti e affettuosi lui vorrà cambiar per amor nostro, stiamo amando troppo.

Quando la relazione con lui mette a repentaglio il nostro benessere emotivo, e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando troppo.”

(Robin Norwood)

 

Il presente articolo è tratto dal sito MALdAMORE che invito a visitare per tutti gli approfondimenti relativi a questo tipo di dipendenza

INIZIATIVE: Seminari Esperenziali e Corsi di Formazione sulle Problematiche e Dipendenze Affettive e Relazionali

La problematica della dipendenza affettiva è abbastanza recente, e si può dire che è nata sull’onta del successo, negli anni ’70,di un libro della psicologa americana Robin Norwood “Donne che amano troppo”. Ma traccie di tale tipo di dipendenza si possono rinvenire anche prima, ad opera di altri studiosi. Lo psicanalista Fenichel nel 1945 nel libro Trattato di psicanalisi delle nevrosi e psicosi introduceva il termine amoredipendenti ad indicare persone che necessitano dell’amore come altri necessitano del cibo o della droga.

Nella dipendenza affettiva, l’amore verso l’altro presenta diverse caratteristiche delle dipendenze in generale, pur presentando, rispetto a queste ultime una differenza sostanziale: essa si sviluppa nei confronti di una persona e ciò la rende più difficile da riconoscere e da contrastare.

Una premessa è d’obbligo: è normale che in una relazione, in particolare durante la fase dell’innamoramento, ci sia un certo grado di dipendenza, il desiderio di “fondersi coll’altro”, ma questo desiderio “fusionale” collo stabilizzarsi della relazione tende a scemare. Nella dipendenza affettiva, invece, il desiderio fusionale perdura inalterato nel tempo ed anzi ci si tende a “fondersi nell’altro”.

Il dipendente dedica completamente tutto sé stesso all’altro, al fine di perseguire esclusivamente il suo benessere e non anche il proprio, come dovrebbe essere in una relazione “sana”. I dipendenti affettivi, solitamente donne, nell’amore vedono la risoluzione dei propri problemi, che spesso hanno origini profonde quali “vuoti affettivi” dell’infanzia. Il partner assume il ruolo di un salvatore , egli diventa lo scopo della loro esistenza, la sua assenza anche temporanea da la sensazione al soggetto di non esistere (DuPont, 1998). Chi è affetto da dipendenza affettiva non riese a cogliere ed a beneficiare dell’amore nella sua profondità ed intimità. A causa della paura dell’abbandono, della separazione, della solitudine, si tende a negare i propri desideri e bisogni, ci si “maschera” replicando antichi copioni passati, gli stessi che hanno ostacolato la propria crescita personale.

Proprio per questi motivi spesso questo tipo di personalità dipendente si sceglie partner “problematici”, portatori a loro volta di altri tipi di dipendenza (droghe, alcol, gioco d’azzardo, ecc…). Ciò sempre al fine di negare i propri bisogni, perchè l’altro ha bisogno di essere aiutato. Ma è un’aiuto “malato” in cui si diventa “codipendenti”, anzi si rafforza la dipendenza dell’altro, perchè possa essere sempre “nostro”. In questi casi la persona non è assolutamente in grado di uscire da una relazione che egli stesso ammette essere senza speranza, insoddisfacente, umiliante e spesso autodistruttiva. Inoltre sviluppa una vera e propria sintomatologia come ansia generalizzata, depressione, insonnia, inappetenza, malinconia, idee ossessive. Quasi sempre c’e incompatibilità d’anima, mancanza di rispetto, progetti di vita diversi se non opposti, bisogni e desideri che non possono essere condivisi, oltre ad essere poco presenti momenti di unione profonda e di soddisfazione reciproca (vedi anche articolo sulla CODIPENDENZA )

Chi è affetto da tale tipo di dipendenza s’identifica con la persona amata. La caratteristica che accomuna tutti i rapporti dei dipendenti da amore è la paura di cambiare. Pieni di timore per ogni cambiamento, essi impediscono lo sviluppo delle capacità individuali e soffocano ogni desiderio e ogni interesse.I dipendenti affettivi sono ossessionati da bisogni irrealizzabili e da aspettative non realistiche. Ritengono che occupandosi sempre dell’altro la loro relazione diventi stabile e durataura. Ma, immancabilmente, le situazioni di delusione e risentimento che si possono verificare li precipitano nella paura che il rapporto non possa essere stabile e duraturo, ed il circolo vizioso riparte, a volte addirittura “amplificato”. Non ci si rende conto che l’amore richiede onesta e integrità personale perché l’amore è un accrescimento reciproco, uno scambio reciproco tra persone che si amano.Gli affetti che comportano paura e dipendenza, tipici della dipendenza affettiva, sono invece destinati a distruggere l’amore. Chi soffre di tale dipendenza è così attento a non ferire l’altro, da non rendersi conto che in questo modo finisce col ferire gravemente sé stesso.

Spesso, anche se non sempre e necessariamente, la persona amata è irraggiungibile per colui o colei che ne dipende. Anzi, in questi casi si può affermare che la dipendenza si fonda sul rifiuto, anzi, se non ci fosse, paradossalmente, il presunto amore non durerebbe. Infatti la dipendenza si alimenta dal rifiuto, dalla negazione di sè, dal dolore implicito nelle difficoltà e cresce in proporzione inversa alla loro irrisolvibilità. A questo riguardo Interessanti sono anche le considerazioni della psichiatria Marta Selvini Palazzoli. A suo parere quello che incatena nella dipendenza affettiva è l ‘Hybris , vale a dire la ingiustificata, assurda, sconsiderata presunzione di farcela. La presunzione di riuscire prima o poi a farsi amare da chi proprio non vuole saperne di amarci o di amarci nel modo in cui noi pretendiamo

Il già citato psicanalista Fenichel è del parere che gli amoredipendenti necessitano enormemente di essere amati nonostante abbiano scarse capacità di amare. Essi elemosinano continuamente dal partner maggior amore ottenendo, però il risultato opposto. Si legano a partner che considerano non adatti a loro, ma nonostante ciò li renda arrabbiati ed infelici non riescono a liberarsi di quest’ultimi.

La dipendenza affettiva colpisce, sopratutto il sesso femminile, in tutte le fascie d’età . Sono donne fragili che, alla continua ricerca di un amore che le gratifichi, si sentono inadeguate.Esse hanno difficoltà a prendere coscienza di loro stesse e del loro diritto al proprio benessere che non hanno ancora imparato che amarsi è non amare troppo, che amarsi è poter stare in una relazione senza dipendere e senza elemosinare attenzioni e continue richieste di conferme.

Attualmente, la dipendenza affettiva, non è stata classificata come patologia nei vari sistemi diagnostici psichiatrici, come il DSM IV e si cerca di farla rientrare nei vari disturbi contemplati in essi, anche se ricerche svolte in questo campo, come quelle di Giddens, la considerano come un disturbo autonomo. Secondo quest’ultimo la dipendenza presenta alcune specifiche caratteristiche: L'”ebbrezza” (il soggetto affettivamente dipendente prova una sensazione di ebbrezza dalla relazione dei partner, che gli è indispensabile per stare bene). La “dose” – il soggetto affettivamente cerca “dosi” sempre maggiori di presenza e di tempo da spendere insieme al partner. La sua mancanza lo getta in uno stato di prostrazione. Il soggetto esiste solo quando c’è l’altro e non basta il suo pensiero a rassicurarlo, ha bisogno di manifestazioni continue e concrete. L’aumento di questa “dose”non di rado esclude la coppia dal resto del mondo. Se la dipendenza è reciproca la coppia si alimenta di se stessa. L’altro è visto come un’ evasione, come l’unica forma di gratificazione della vita. Le normali attività quotidiane sono trascurate quotidianamente. L’unica cosa importante è il tempo trascorso con l’altro perché è la prova della propria esistenza, senza di lui non si esiste, diventa inimmaginabile pensare la propria vita senza l’altro. Tutto ciò rivela un basso grado di autostima, seguito da sentimenti di vergogna e di rimorso. In alcuni momenti si è “lucidi” su questo tipo di relazione con l’altro, s’intuisce che la dipendenza è dannosa ed è necessario farne a meno. Ma subentra la considerazione di essere dipendenti e ciò rafforza il basso livello d’autostima personale e quindi spinge ancora di più verso l’altro che accoglie e perdona, ben felice, talvolta, di possedere. Quindi ogni tentativo di riscatto dalla propria dipendenza muore sul nascere.

A queste caratteristiche comune a tutte le dipendenze, elaborate da Giddens, nè aggiungerei, un’altra, non presente nelle altre dipendenze: la PAURA. Paura ossessiva e fobica di perdere la persona amata, che s’alimenta a dismisura ad ogni piccolo segnale negativo che si percepisce. A volte basta rimanere inaspettatamente soli o non ricevere una telefonata per avere paura di un’abbandono definitivo.

Inoltre nel soggetto affetto da tale tipo di dipendenza è possibile rintracciare una sorta di ambivalenza affettiva che è riassumibile nella massima del poeta latino Ovidio: “Non posso stare nè con tè, nè senza di tè” . “Non posso stare con tè” per il dolore che si prova in seguito alle umiliazioni, maltrattamenti, tradimenti e quant’altro si subisce. “Non posso stare senza di tè” perchè è indicibile la paura e l’angoscia che si prova al solo pensiero di perdere la persona amata.

Riepilogando i sintomi della dipendenza affettiva sono (l’elenco è lungi dall’essere esaustivo):

  • Paura di perdere l’amore
  • Paura dell’abbandono, della separazione
  • Paura della solitudine e della distanza
  • Paura di mostrarsi per quello che si è
  • Senso di colpa
  • Senso d’inferiorità nei confronti del partner
  • Rancore e Rabbia
  • Coinvolgimento totale e vita sociale limitata
  • Gelosia e possessività

Vorrei concludere con una mia personale considerazione:

Un’amore autentico nasce dall’incontro fra due unità e non due metà.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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CODIPENDENZA

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Le relazioni sono come una danza con un flusso visibile di energia che passa da un partner all’altro. Alcune relazioni sono una lenta e nera danza della morte

 

Varie sono le definizioni della codipendenza che ci sono succedute nel tempo, a seconda anche del settore in cui la si studiava (prevalentemente quello della tossicodipendenza ed alcolismo). Personalmente ritengo che parliamo di

Codipendenza è quando una persona fa in modo che sia influenzata in modo eccessivo dal comportamento di un’altro ed al contempo cerca di controllare in modo eccessivo quello stesso comportamento.L’altro può essere una qualsiasi delle persone significative della propria vita: marito, genitore, figlio, amico. Quest’ “altro”, solitamente è affetto a sua volta da qualche forma di dipendenza patologica.Il concetto di codipendenza nasce nel campo della tossicodipendenza ed alcolismo. Si notava come molti partner degli alcolisti e tossicodipendenti tendevano sia a ripetere copioni passati (la presenza di un genitore con la stessa dipendenza del partner) che a mettere al centro della propria vita il benessere e la salvezza dell’altro. Taluni studiosi estremizzano la codipendenza arrivando a definirla una vera e propria patologia psicologica, cronica e progressiva. In questi casi i codipendenti necessitano di relazionarsi con persone dipendenti per un’insana forma di benessere. Scelgono ad esempio un’alcolista, perchè quest’ultimo necessita anche di un salvatore, e dipenderà dal codipendente. Anzi, a volte, se riescono nel loro ruolo di salvatori, la relazione finisce, e cercano subito un altro da salvare.Entrando nello specifico le caratteristiche del codipendente sono:

  • concentrano la loro vita sugli altri la loro vita dipende dagli altri cercano la felicità fuori da sé aiutano gli altri invece che se stessi desiderano la stima e l’amore degli altri controllano i comportamenti altrui cercano di cogliere gli altri in errore anticipano i bisogni altrui sono attratte dalle persone bisognose d’aiuto attribuiscono agli altri il proprio malessere si sentono responsabili del comportamento altrui sopportano sempre più comportamenti altrui che non avrebbero sopportato in precedenza avvertono sintomi d’ansia e depressione hanno una paura ossessiva di perdere l’altro sviluppano sensi di colpa per i comportamenti sbagliati dell’altro
  • provengono spesso da famiglie con esperienza di codipendenza

La codipendenza può essere anche caratterizzata come una relazione disfunzionale di tipo simbiotico. Tale tipo di relazione si viene a creare quando uno o entrambi cercare nell’altro la compensazione delle proprie carenze, dei propri bisogni insoddisfatti, al fine di sostenersi reciprocamente. Ad esempio chi è maggiormente istintivo cerca persone che hanno sviluppato maggiormente l’aspetto razionale e viceversa. In questo modo ci si illude che l’altro è fondamentale per il proprio equilibrio in quanto compensa nostre carenze. Se uno dei due decide di “evolvere”, cioè di superare o compensare i propri bisogni, l’altro si sente inevitabilmente tradito e abbandonato, in quanto sente il venir meno di quella relazione che lo faceva sentire al sicuro. Infatti questo tipo di relazione disfunzionale come tutte le relazioni simbiotiche non prevede cambiamenti, ma equilibrio, staticità, dipendenza. Per superare tale relazione disfunzionale bisogna innanzitutto riconoscere l’esistenza di bisogni insoddisfatti che causano tali comportamenti errati e poi cambiare il proprio modo di relazionarsi con gli altri.Utile è citare la parabola di Gesù su Marta e Maria. Maria se ne stava seduta a conversare con Gesù e i suoi discepoli, Marta ordinava in casa e cucinava. Ad un certo punto Marta incominciò a sbattere i piatti accusando Maria di non fare nulla, lamentandosi di dover far tutto da sola mentre la sorella chiacchierava. Gesù, inaspettatamente per Marta, rimproverò proprio lei. Per Gesù Maria si stava comportando bene, era lei che aveva ragione. Perché per Gesù l’importante è stare con le persone, pensando un po’ anche a sé stessi, non solo preoccuparsi di ordinare e cucinare per loro. Nella codipendenza si commette l’errore di sostenere l'”altro” dipendente a scapito di sé stessi, e lo stesso sostegno che si fornisce spesso è di tipo materiale, non attento alle esigenze interiori dell’altro.A questo fine è utile accennare ad uno dei modelli teorici più rappresentativi dei rapporti disfunzionali tra gli individui: il triangolo drammatico di S. Karpman. Questo triangolo vede ai suoi vertici tre ruoli: il Salvatore, il Persecutore e la Vittima. La loro relazione è di reciprocità in quanto la presenza dell’uno implica giocoforza quella degli altri. Nella codipendenza uno dei due membri della relazione può assumere anche due ruoli diversi, contemporaneamente. La persona che si immedesima nel ruolo del Salvatoreavverte la necessità di aiutare l’altro, anche se questi non ne ha effettivo bisogno. Egli ritiene che l’altro sia bisognoso del suo aiuto, mentre, invece, è lui che ha bisogno di sentirsi utile perché sono presenti sensi di colpa o insicurezza ed inferiorità. Il Salvatore si preoccupa soltanto di sé e l’aiuto offerto agli altri gli serve per sentirsi accettato e amato dagli altri. Una persona che assume tale tipologia di comportamento non deve essere fermato, perché potrebbe sentirsi tradito e diventare un Persecutore, ma deve essere aiutato a valorizzare la sua persona piuttosto che le sue azioni, al fine di sentirsi riconosciuto ed amato dagli altri a prescindere dall’aiuto che può fornire loro. Tale tipologia di persona è attratto da chi soprattutto da tende ad assumere il ruolo di Vittima, cioè da chi valuta sé e i suoi comportamenti sempre in modo negativo, con il conseguente atteggiamento di forte inferiorità nei confronti degli altri. Egli esercita una forte attrattiva sia nei confronti del Salvatore, dal quale riceve attenzioni esagerate e talvolta inutili, sentendosi così aiutato a risollevarsi dalla sue frustrazioni, sia nei confronti del Persecutore, il quale, criticandolo e maltrattandolo, lo convince sempre di più della sua inferiorità e delle sue insicurezze. La Vittima non deve essere assecondata nelle sue frustrazioni, cosa questa che giustificherebbe le sue paure inconsce, ma deve essere aiutata a valutare se stessa a prescindere dal giudizio degli altri e dall’aiuto che questi potrebbero offrirgli. Deve, inoltre, capire e convincersi che ha dentro sé tutto ciò che serve per cavarsela da sola. Per fare ciò deve essere spinta a provare concretamente le proprie azioni ed esperienze per modificare il rapporto negativo che ha con sé e con il mondo. E’ Persecutore, colui il quale nutre disperazione e rabbia che lo spingono ad assumere un atteggiamento punitivo e vendicativo nei confronti di tutti. Egli si considera realizzato se riesce a far giustizia, a prescindere dalle richieste e dai bisogni effettivi degli altri, e nasconde gioia e soddisfazione nel perseguitare gli altri dietro i suoi sentimenti di giustizia e di onestà. Per aiutare il Persecutore bisogna invitarlo ad assumere con sé e con gli altri atteggiamenti carichi di tenerezza, facendogli conoscere un differente modo di porsi nei confronti degli altri. La tenerezza è un sentimento che è utile a dosare nella giusta misura amore ed odio. Ognuno dei personaggi che assumono i diversi ruoli del triangolo drammatico pensano di agire in funzione del bene dell’altro, ma invece agiscono solo in funzione di ciò che è bene per sé stessi, cosa questa che porta ad incomprensioni e a rapporti patologici. Per ovviare a ciò l’individuo deve prendere consapevolezza del suo comportamento e dei bisogni inespressi sottesi ad esso; per fare ciò egli deve assumere un atteggiamento logico e razionale, al fine di chiedersi il perché dei suoi comportamenti e di quelli degli altri componenti.Solo così egli potrà sostituire i comportamenti automatici con quelli dettati dal buon senso e dalla ragionevolezza. In una relazione disfunzionale di questo tipo ciascuno degli interlocutori deve innanzitutto chiedere all’altro che cosa si aspetta da lui per concordare insieme un percorso comune e per soddisfare attese che in altro modo rimarrebbero insoddisfatte. Il dialogo e la negoziazione sono necessari per fondare rapporti sani e costruttivi.

Nella codipendenza si assumono, alternativamente, i ruoli di salvatore, persecutore e vittima. Si è salvatore nel momento in cui il pensiero di salvare l’altro diventa l’obiettivo principale della propria vita, una vera e propria ossessione. Proprio quest’ultima caratteristica rivela anche il ruolo di persecutore. Infatti l’ossessione di “salvare” se spinta all’eccesso e dura nel tempo, assume la forma di una vera e propria persecuzione. Persecuzione che si manifesta col rigido controllo dell’altro, col colpevolizzarlo di ogni azione che compie e via dicendo. Nel momento in cui si fallisce sia nel ruolo di salvatore che di persecutore, ecco che si diventa vittima. Vittima di una persona che si ritiene sia la causa di tutti i nostri mali, che nonostante il nostro “altruismo” ci ha “respinto” al punto da farci sentire vittima. Questo è il gioco perverso della codipendenza.

 

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

ALCOLISMO – DIPENDENZA DA ALCOL

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Secondo il DSM IV TR (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) per poter dire che un uomo o una donna sono alcoldipendenti è necessario che si verifichino almeno 3 delle seguenti condizioni riscontrabili in un periodo di almeno 12 mesi:

  • Tolleranza: la necessità di aumentare la quantità di alcol per mantenere gli effetti desiderati
  • Sintomi da astinenza o necessità di ingerire alcol per evitare sintomi da astinenza
  • Ingestione di quantità d’alcol maggiori o per periodi di tempo più lunghi di quanto pensato
  • Desiderio persistente o tentativi di ridurre o controllare la quantità di alcol assunta
  • Impegno di tempo per procurarsi e bere alcol o per riprendersi dai suoi effetti
  • Abbandono di attività sociali, lavorative o ricreazionali a causa del bere
  • Persistenza del bere nonostante la consapevolezza di avere problemi sociali, psicologici e fisici legati al bere

Tutto ciò succede in genere, ma non sempre, al di fuori della consapevolezza; l’Alcolista cioè molto difficilmente si rende conto di ciò che gli sta succedendo, nega di avere questi problemi, di vivere quelle difficoltà, nasconde a se stesso la realtà e possibilmente scarica sugli altri le responsabilità di ciò che gli succede; altre volte si rende conto di ciò che sta succedendo ma non riesce a smettere comunque a causa dell’impulso compulsivo che prova nell’assumere alcol.

Il NOA dell’ASL Città di Milano effettua la seguente distinzione:

Bevitore adeguato

Uomo

2,5 bicchieri di vino a 12° – 2 lattine di birra a 5° – 2 bicchierini di superalcolici a 40°

Donna

1,5 bicchieri di vino a 12° – 1 lattina di birra a 5° – 1 bicchierino di superalcolici a 40°

Abusatore

(oltre le quantità sopraddette all’interno dei pasti)

Bevitore eccessivo

(oltre le quantità sopraddette anche al di fuori dei pasti, con la possibilità di incorrere in disturbi di tipo fisico)

Bevitore problematico

(utilizza l’alcol per sfruttare gli effetti farmacologici)

Alcoldipendente

Colui che non riesce a smettere anche quando comincia a capire che l’alcol per lui è un danno, che gli comporta o gli comporterà seri problemi di natura fisica.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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RIFLESSIONI SULL’ALCOLISMO DI BATESON

Orgoglio di un alcolizzato
1. É chiaro che quel principio della vita di un alcolizzato che l’A.A. chiama ‘orgoglio’ non è strutturato contestualmente intorno a successi avuti in passato. Essi non usano il termine per indicare orgoglio per qualcosa che si è compiuto; l’accento non è sull’ ‘Io sono riuscito…’, ma piuttosto sull’ ‘Io sono capace…’. Si tratta dell’accettazione ossessiva di una sfida, un ripudio della frase ‘Io non sono capace
2. Dopo che l’alcolizzato ha cominciato a soffrire — o a essere biasimato — per il suo alcolismo, questo principio di ‘orgoglio’ viene mobilitato dietro la proposizione ‘Sono capace di mantenermi sobrio’. Ma, si noti bene, il successo in questa impresa distrugge la ‘sfida’; l’alcolizzato diventa troppo sicuro di sé, rilassa la sua determinazione; si arrischia a bere un goccio e finisce col prendere una sbornia. Si può dire che la struttura contestuale della sobrietà cambia per il fatto stesso di riuscire a restare sobri. La sobrietà, a questo punto, non è più l’ambito contestuale appropriato per l’ ‘orgoglio’: ora è il rischio costituito dal bere che getta la sfida e provoca il fatale ‘Io sono capace…’.
3. Quelli dell’A.A. fanno di tutto per far capire che questo cambiamento nella struttura contestuale non avverrà mai. Essi ristrutturano l’intero contesto ripetendo continuamente che « Una volta alcolizzati, si è alcolizzati per sempre ». Essi tentano di far sì che l’alcolizzato assuma l’alcolismo all’interno del proprio io, come un analista di scuola junghiana cerca di far scoprire al paziente il suo ‘tipo psicologico’ perché egli possa poi imparare a convivere con le forze e le debolezze di quel tipo. Per contro, la struttura contestuale dell’ ‘orgoglio’ dell’alcolizzato colloca l’alcolismo fuori dell’io: « Io sono capace di oppormi al bere ».
4. La componente di sfida presente nell’ ‘orgoglio’ dell’alcolizzato è connessa con il correre il rischio. Questo principio si potrebbe esprimere così: “Io sono capace di fare una cosa dove il successo è improbabile e l’insuccesso disastroso”. É chiaro che questo principio non potrà mai servire a mantenere una sobrietà permanente: appena il successo comincia ad apparire probabile, l’alcolizzato deve sfidare il rischio di un bicchierino. L’elemento di ‘scalogna’ o ‘probabilità’ di insuccesso pone l’insuccesso al di là dei limiti dell’io. «L’insuccesso, se ci sarà, non sarà dovuto a me.. L’ ‘orgoglio’ dell’alcolizzato restringe via via il concetto di ‘io’, situando gli eventi fuori della sua portata.
5. Il principio dell’ ‘orgoglio nel rischio’ si rivelerà quasi suicida. Niente di male se per una volta sfido l’universo per vedere se esso è dalla mia parte, ma se questa sfida la ritento continuamente e in modo sempre più incalzante, m’imbarco in un’impresa il cui unico risultato sarà di dimostrare che l’universo mi odia. Eppure, nonostante tutto, i resoconti dell’A.A. mostrano ripetutamente che, al colmo della disperazione, l’orgoglio talvolta impedisce il suicidio. La quietanza definitiva di morte non dev’essere rilasciata dall’ “io”.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 355

Un breve periodo di lotta vittoriosa indebolisce la sua determinazione, ed egli ci ricasca
Diciamo subito che, in Occidente, nelle normali abitudini relative al bere vi è una tendenza molto forte verso la simmetria. A parte i casi di alcolismo, due individui che bevano insieme sono spinti dall’uso a restar pari, un bicchiere a te, un bicchiere a me. A questo stadio, l’ ‘altro’ è ancora reale, e la simmetria, o rivalità, tra i due è di natura amichevole.
Quando invece l’alcolizzato cerca di resistere al bere, egli comincia a trovar difficile resistere al contesto sociale secondo cui egli dovrebbe restar pari con gli amici nel bere. L’A.A. dice: “Il cielo sa con quanta forza e per quanto tempo noi abbiamo tentato di bere come gli altri!”.
Man mano che le cose peggiorano, l’alcolizzato diventa solitamente un bevitore solitario ed esibisce l’intera gamma di reazioni alla sfida. La moglie e gli amici cominciano a insinuargli che il suo bere è una debolezza ed egli può reagire, in modo simmetrico, sia irritandosi con loro sia affermando la sua forza nel resistere alla tentazione dell’alcool. Ma, com’è caratteristico delle reazioni simmetriche, un breve periodo di lotta vittoriosa indebolisce la sua determinazione, ed egli ci ricasca. Uno sforzo simmetrico richiede un antagonismo continuo da parte dell’avversario.
A poco a poco, il punto focale della battaglia cambia, e l’alcolizzato si trova impegnato in un nuovo e più esiziale tipo di conflitto simmetrico: ora deve dimostrare che l’alcool non può ucciderlo. “Sanguina la sua testa, ma non si piega”: egli è ancora “il capitano della sua anima”, per ciò che vale…
Nel frattempo i suoi rapporti con la moglie, col capufficio e con gli amici sono andati guastandosi. Non gli era mai piaciuta la posizione complementare del suo capufficio, in quanto autorità; e ora, man mano che egli va in rovina, anche sua moglie è sempre più costretta ad assumere una parte complementare: sia che essa cerchi di imporglisi o di mostrarsi protettiva o tollerante.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 359

TOCCARE IL FONDO
Toccare il fondo esemplifica la teoria dei sistemi a tre livelli:
1. L’alcolizzato rimugina sugli sconforti della sobrietà fino a un punto di soglia, dove gli si rivela il fallimento dell’epistemologia dell’ ‘autocontrollo’. Allora si ubriaca perché il ‘sistema’ è più grande di lui — e quindi tanto vale arrendersi ad esso.
2. Si abbandona ripetutamente all’ubriachezza finché dimostra che c’è un sistema ancora più grande. Allora sperimenta il panico di ‘toccare il fondo’.
3. Se amici e terapisti lo rassicurano, può anche darsi che egli raggiunga una nuova precaria situazione di equilibrio — intossicandosi del loro aiuto — finché dimostra che questo sistema non funziona e di nuovo ‘tocca il fondo’, ma a un livello più basso. In questo, come in tutti i sistemi cibernetici, il segno (positivo o negativo) dell’effetto di una qualunque intrusione nel sistema dipende dall’istante in cui essa ha luogo.
4. Infine, il fenomeno di toccare il fondo è collegato in modo complesso all’esperienza del doppio vincolo. Bill W. racconta di aver toccato il fondo quando nel 1939 si sentì dire dal dottor William D. Silkworth di essere un alcolizzato senza speranza; questo evento è considerato l’inizio della storia dell’A.A. Il dottor Silkworth, inoltre, “ci forni gli strumenti con cui trapassare l’ego dell’alcoIizzato più coriaceo, quelle frasi sconvolgenti con cui descriveva la nostra malattia: l’ossessione della mente che ci spinge a bere e l’allergia del corpo che ci condanna alla pazzia o alla morte ». Questo è un doppio vincolo fondato correttamente sull’epistemologia dell’alcolizzato, che è imperniata sulla dicotomia mente-corpo. L’alcolizzato è spinto da queste parole sempre più indietro, fino al punto in cui solo un cambiamento involontario nell’epistemologia dell’inconscio profondo — un’esperienza spirituale — renderà per lui irrilevante questa descrizione letale.
Bateson G., “Verso un’ecologia della mente”, Adelphi, pag. 365

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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TEST SULL’USO DEI SOCIAL NETWORK

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Per capire se si è davvero dipendenti dai social media i membri della Baylor University  hanno stilato una lista di sei domande, basandosi sui dei comportamenti che caratterizzano generalmente le dipendenze: rilevanza, euforia, tolleranza, conflitto, sintomi di astinenza e ricadute.

Ecco quali sono dunque le sei domande e affermazioni che vi aiuteranno a capire se il vostro attaccamento ai social media rappresenta a tutti gli effetti una dipendenza.

    • Rilevanza: l’uso dei social media è profondamente integrato nella vostra vita quotidiana? (Uso Facebook, Twitter, Snapchat, Instagram o Pinterest e altri durante tutta la giornata).
    • Euforia: usate i social media tutto il giorno per avere una maggiore euforia? (Io uso i social media quando mi annoio o sono da solo ).
    • Tolleranza: avete bisogno di spendere sempre più tempo sui social media per essere soddisfatti? (Mi ritrovo a usare i social media sempre più spesso).
    • Sintomi di astinenza: siete nervosi quando non potete usare i social media? (Ho paura di rinunciare a qualcosa di importante quando non sono sui social media).
    • Conflitto: il tuo uso dei social media sta causano problemi? (Il mio uso dei social media ha causato conflitti con i miei amici, mi distrae in classe o durante il lavoro).
    • Ricaduta: hai provato a smettere di usare i social media ma non ci sei riuscito? (Ho cercato di ridurre il mio tempo sui social media, ma non è durato molto).

Se avete risposto ‘sì’ a tre o più di queste domande, e se le affermazioni riflettono il vostro pensiero o comportamento, probabilmente è giunto il momento di riconsiderare il vostro utilizzo dei social media.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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ALGORITMO PER PREVENIRE LA DIPENDENZA DA ALCOL E DROGA TRA I GIOVANI

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Scoperto l’algoritmo per prevenire la dipendenza da alcol e droga tra i giovani.

Si tratta del programma scolastico Preventure, elaborato dalla Professoressa canadese Patricia Conrod sulla base di una sofisticata associazione tra attitudini comportamentali e rischio addiction. Il metodo si basa su due step fondamentali. Il primo. La somministrazione di specifici test all’interno degli istituti superiori per identificare gli studenti più inclini al vizio in base a quattro profili-tipo: impulsivo, ansiosissimo, super pessimista e adrenalico. Il secondo consiste nell’assegnare ogni gruppo a un team di psicologi e docenti che elaboreranno per loro un percorso di prevenzione ad hoc. Una scuola di pensiero che sta riscuotendo successo in tutto il mondo, dal Canada all’Europa, come dimostrato dagli esperimenti portati a termine.

Dottoressa Rosalia Cipollina

(Psicologa e Psicoterapeuta specializzata in Psicologia Scolastica e dell’età evolutiva)

riceve in studio a Roma, Napoli e Salerno ed effettua consulenze telefoniche e via Skype a pagamento per chi è impossibilitato a recarsi in studio.
Per prenotare una consulenza scrivere a cipollinar@iltuopsicologo.it o chiamare il 320 3744077