GAMING DISORDER

Condividi

La dipendenza da videogiochi entra ufficialmente nell’elenco delle malattie dell’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). Durante l’Assemblea Generale in corso a Ginevra i Paesi membri hanno votato a favore dell’adozione del nuovo aggiornamento dell’International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems (Icd-11), che contiene per la prima volta il “Gaming Disorder” (dipendenza da videogiochi).

Il nuovo testo, che sarà in vigore dal primo gennaio 2022,viene usato per uniformare diagnosi e classificazioni in tutto il mondo. Il “gaming disorder” è definito come «una serie di comportamenti persistenti o ricorrenti legati al gioco, sia online che offline, manifestati da: un mancato controllo sul gioco; una sempre maggiore priorità data al gioco, al punto che questo diventa più importante delle attività quotidiane e sugli interessi della vita; una continua escalation del gaming nonostante conseguenze negative personali, familiari, sociali, educazionali, occupazionali o in altre aree importanti». Per essere considerato patologico il comportamento deve essere reiterato per 12 mesi, «anche se la durata può essere minore se tutti i requisiti diagnostici sono rispettati e i sintomi sono gravi».

Sulla percentuale di gamers che diventano patologici, le stime sono molto diverse. Una recente ricerca su Cyberpsichological Behaviour, ad esempio, ha stimato che il 7% dei giocatori online può essere definito dipendente, mentre in altri studi pubblicati il numero varia dall’1,5% dei più ottimisti fino ad una preoccupante percentuale del 20%. Numeri in ogni caso impressionanti se si pensa che in Italia, ad esempio, secondo una ricerca Aesvi-Gfk, ci sono 29,3 milioni di videogiocatori. E secondo alcune stime, nel nostro Paese sarebbero a rischio per “gaming disorder” circa 270mila ragazzi, per la quasi totalità maschi, in una fascia d’età tra i 12 ed i 16 anni.

 

Dottor Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

DIPENDENZA DA VIDEOGIOCHI E DEFICIT DI ATTENZIONE E IPERATTIVITA’

Condividi

Uno studio condotto dai ricercatori della Loma Linda University, conferma che il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Adhd) è associato all’uso smodato dei videogiochi. La ricerca dell’università californiana, “Video game addiction, Adhd symptomatology, and video game reinforcement”, pubblicata lo scorso 6 giugno sull’American Journal of Drug and Alcohol Abuse, rileva, infatti, l’associazione tra gravità dell’Adhd e gravità della dipendenza da videogame e mostra che il rischio di dipendenza esiste indipendentemente dal tipo di videogioco usato o preferito.

“Il risultato è coerente con la nostra ipotesi e con una ricerca precedente, e suggerisce che le persone con maggiore gravità dei sintomi di Adhd possono essere maggiormente a rischio di sviluppare abitudini di gioco problematiche”, ha affermato Holly E. R. Morrell, professoressa della Loma Linda University School of Behavioral Health e ricercatrice principale del progetto.

Lo studio è uscito nel periodo in cui la dipendenza da videogiochi è stata riconosciuta un problema di salute pubblica internazionale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha aggiunto la voce “gaming disorder” nell’undicesima edizione della Classificazione internazionale delle malattie (International Classification of Diseases), pubblicata il 18 giugno.

L’esito di ricerche precedenti ha mostrato che il 23% dei giocatori di videogame presentavano sintomi di dipendenza tali da produrre effetti negativi su salute, benessere, sonno, studio e socializzazione.

Nella ricerca della Loma Linda University, il numero di ore trascorse a giocare è stato associato alla gravità della dipendenza. I maschi hanno mostrato maggiore gravità di dipendenza rispetto alle femmine. La prof.sa Morrell e il suo team hanno testato circa 3.000 giocatori tra i 18 e i 57 anni. L’età non costituiva un fattore di studio.

Esperta nel campo della dipendenza, la prof.sa Morrell ha pubblicato di recente uno studio a più mani, intitolato “Cyberpsychology, Behaviour e Social Networking”, in cui descrive alcuni dei rischi associati alla dipendenza da videogame: problemi di salute fisica e mentale, ma anche sociali e di operatività professionale.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

TEST SULLA DIPENDENZA DA SELFIE (SELFITE)

Condividi

Scattarsi dei selfie, oltre che essere una moda, potrebbe essere anche una forma di disagio psicologico per diversi studiosi. A tal fine un gruppo di ricercatori della Nottingham Trent University e della Thiagarajar School of Management a Madurai (India) ha elaborato un test composto da queste 20 affermazioni:

1. Fare un selfie mi dà la sensazione di poter apprezzare di più l’ambiente in cui mi trovo

2. Condividere i miei selfie crea una sana competizione con i miei amici e colleghi

3.Ottengo molta attenzione condividendo i miei selfie sui social network

4. I selfie riducono il mio livello di stress

5. Mi sento sicura quando faccio un selfie

6. Sono più apprezzata dai miei coetanei quando mi faccio dei selfie e li condivido sui social

7. Riesco ad esprimere meglio me stessa nel mio ambiente attraverso i selfie

8. Assumere pose diverse nei selfie mi aiuta ad accrescere il mio status sociale

9. Mi sento più popolare quando pubblico i miei selfie sui social

10. Farmi più selfie migliora il mio umore e mi rende felice

11. Divento più positiva quando mi faccio dei selfie

12. Divento il membro più forte nel mio gruppo grazie ai post con i selfie

13. Farsi dei selfie fornisce ricordi migliori sull’occasione e sull’esperienza

14. Carico spesso dei selfie per ottenere più “Mi piace” e commenti sui social

15. Quando pubblico dei selfie, mi aspetto che i miei amici mi valutino

16. Scattarmi dei selfie cambia immediatamente il mio stato d’animo

17. Mi faccio molti selfie e li guardo privatamente per aumentare la mia autostima

18. Quando non mi scatto un selfie, mi sento isolato dai miei coetanei

19. Considero fare i selfie come dei trofei per i futuri ricordi

20. Uso strumenti di fotoritocco per migliorare il mio selfie in modo da apparire migliore agli occhi degli altri

A ciascuna di esse, coloro che fanno il test devono attribuire un punteggio che va da un minimo di 1, totalmente in disaccordo, ad un massimo di 5, totalmente d’accordo. I risultati che è possibile ottenere sono tre:

– coloro che ottengono un punteggio da 0 a 33 sono in una zona limite, ossia si fanno selfie almeno tre volte al giorno, ma non li pubblicano sui social media;

– il punteggio da 34 a 67 determina una dipendenza acuta, quando la persona se ne scatta molti e li pubblica sui social;

– chi ottiene punteggio da 68 a 100 invece ha una dipendenza cronica perché sente un bisogno incontrollabile di scattare foto di sé 24 ore su 24, pubblicandole su Facebook e Instagram più di sei volte al giorno.

Scattarsi selfie e pubblicarli sui vari social può essere una modalità di riconoscimento sociale utilizzata da chi ha poca stima e sicurezza in sé.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

TEST SULLA DIPENDENZA DA GIOCO D’AZZARDO

Condividi

The South Oaks Gambling Screen

Lesieur H.R., Blume S.B., (1987), Am J Psychiatry, 144:9

ISTRUZIONI:  Questo è un test per aiutarti a stabilire se potresti avere un Disturbo da Gioco d’Azzardo Patologico che richieda l’attenzione di un professionista. Questo test (SOGS 1987) non è ideato per fare la diagnosi di un disturbo o per sostituirsi alla consultazione o alla diagnosi di un professionista. Si consiglia di stampare questa pagina per compilare agevolmente il test.

1.       Indicare quali, tra i seguenti tipi di comportamenti “d’azzardo”, avete seguito durante la vostra vita. Per ogni tipo di comportamento segnare solo una risposta: “MAI”, “MENO DI UNA VOLTA A SETTIMANA”, “UNA O PIU’ VOLTE A SETTIMANA”.

 

MAI

Meno di

1 volta a settimana

Più di 1

volta a

settimana

A

      Giocare a carte per soldi

B

      Scommettere su cavalli, cani, o altri animali (in agenzia, alla pista, o con un bookmakers)

C

      Scommettere su vari sport

D

      Giocare con i dadi per soldi

E

      Recarsi al casinò (legali e non )

F

      Giocare al lotto o altre lotterie

G

      Giocare a Tombola (BINGO)

H

      Giocare in borsa o sulle transazioni economiche

I

      Giocare alle slot-machine, poker-machine, o altre acchine

J

      Giocare al biliardo, golf, o giocare a qualsiasi altro gioco di abilità per soldi

 

 

2.       Qual è la somma di denaro più alta che avete puntato in un giorno?

–          Non ho mai puntato nessuna somma”

–          fino a 1 euro

–          da 1 a 5 euro

–          da 5 a 50 euro

–          da 50 a 500 euro

–          da 500 a 5.000 euro

–          oltre 5.000 euro

 

3.       I vostri genitori hanno (hanno avuto) problemi con il gioco d’azzardo?

–          Entrambi giocano troppo

–          Solo mio padre gioca troppo

–          Solo mia madre gioca troppo

–          Nessuno dei due gioca troppo

4.       Quando giocate d’azzardo e perdete, ogni quanto tornate il giorno dopo per cercare di vincere la somma persa?

–          Mai

–          Talvolta (meno della metà delle volte che perdo)

–          La maggior parte delle volte che perdo

–          Ogni volta che perdo

5.       Avete mai preteso (o vi siete mai vantati) di aver vinto al gioco una somma di denaro che invece avevate perso?

–          Mai

–          Sì, ma meno della metà delle volte che perdo

–          Sì, la maggior parte delle volte

6.       Credete di avere un problema con il gioco d’azzardo?

–          No

–          Sì, in passato ma non adesso

–          Sì

Domande dalla 7 alla 16: Rispondere SI o NO

7.       Avete mai giocato d’azzardo più di quanto non volevate?

 

8.       Gli altri hanno criticato il modo con cui affrontate il gioco d’azzardo?  

 

9.       Vi siete mai sentiti in colpa per il modo con cui giocate o per quello che vi accade quando giocate?          

                                                                                                 

10.     Vi siete mai sentiti come se desideraste di smettere di giocare d’azzardo ma avete pensato di non riuscirvi?                                                                                               

 

11.     Avete mai nascosto al/alla vostro/a partner, ai vostri figli, oppure ad altre persone importanti per voi, scontrini di puntata, fisches, biglietti dalle lotteria, o altri oggetti legati al gioco d’azzardo?                                                                                         

 

12.    Avete mai litigato con le persone con cui vivete su come gestite il vostro denaro?

 

13.     (Se avete risposto Sì alla domanda precedente) Gli argomenti di discussione sul denaro sono mai stati centrati sul gioco d’azzardo?

 

14.     Avete mai preso in prestito del denaro da qualcuno a cui non siete stati in grado di restituire la somma a causa del gioco d’azzardo?         

 

15.     Avete mai sottratto tempo al lavoro o alla scuola a causa del gioco d’azzardo?

 

 

16.     Se avete chiesto in prestito del denaro per giocare d’azzardo o per pagare i debiti di gioco, da chi o da dove avete preso i soldi?

–          Dal bilancio familiare

–          Dal/dalla vostro/a partner

–          Da altri parenti

–          Dalle banche, dagli istituti di credito, ecc.

–          Da carte di credito

–          Dagli strozzini

–          Dai risparmi, valori o altri oggetti personali

–          Dalla vendita dei vostri beni personali o familiari

–          Facendo debito sul vostro conto bancario

–          Avete (avete avuto) un conto aperto con un scommettitore

–          Avete (avete avuto) un conto aperto con un casinò

Risultati:

Assegnare il punteggio 1 se si è risposte come segue alle seguenti domande:

Domanda 4 –   “La maggior parte delle volte che perdo

Domanda 5 –   “Sì, ma meno della metà delle volte che perdo

Oppure

Sì, la maggior parte delle volte

Domanda 6 –   “Sì, ma meno della metà delle volte che perdo

Oppure

Assegnare il punteggio 1 se si è risposto  “SI” alle seguenti domande:

7 – 8 – 9 – 10 – 11 13 14 15 –  16a – 16b – 16c – 16d – 16e – 16f – 16g – 16h – 16i

 

Il punteggio totale del test si calcola sommando i punteggi ottenuti dalle domande sopra elencate.

Totale :  ______  (si calcola su 20 domande)

0 – 2   =  Nessun problema

3 – 4  =  Giocatore problematico a rischio

5 o più  =  Giocatore d’azzardo patologico

Il risultato del test non è sufficiente per una diagnosi; si rimanda ad una valutazione specialistica

TEST REPERITO SUL WEB

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

RIFLESSIONI SUL GIOCATORE PATOLOGICO

Condividi

Le riflessioni che seguono sono tratte dal libro di Dostoevskij Il giocatore. Lo stesso autore è stato un giocatore patologico e il suo libro nonostante sia datato 1866 è ancora terribilmente attuale

 

«Tesoro mio, amico mio eterno, angelo mio celeste, tu naturalmente capisci, ho perduto al gioco tutto […] vi sono sventure che portano in se stesse anche la punizione […]. E se tu hai pietà di me, non aver pietà, perché non lo merito! […]. Ma quando ho ricevuto oggi trenta talleri, io non volevo giocare per due ragioni […]. Ma arrivato alla stazione, mi sono messo vicino al tavolo da gioco e nel pensiero ho incominciato a indovinare [i numeri] […]. Ne sono stato così sbalordito che ho incominciato a giocare. […] Anja, salvami per l’ultima volta, mandami trenta talleri. Anja, io sto ai tuoi piedi e te li bacio e so che tu hai pieno diritto di disprezzarmi e di pensare ancora: “Giocherà anche questi!”. Su cosa posso giurarti che non li giocherò? Ti ho ingannata» (Dostoevskij, 1950).

«Ero come preso dalla febbre e nell’eccitazione ho puntato tutto il mio mucchio di denaro […] ho sentito un brivido di terrore corrermi per la schiena mentre mi prendeva un tremito alle mani e ai piedi. In un attimo mi sono reso conto con terrore cosa significava per me perdere: insieme a quell’oro puntavo tutta la mia vita! “Rouge!”, ha gridato il croupier e io ho tirato un sospiro di sollievo, mentre un formicolio di fuoco mi correva per tutto il corpo» (Dostoevskij, 1866a, pp. 156 sg.).

«Chissà per quale ghiribizzo, pur essendo il rosso già uscito sette volte, ho continuato a puntare su di esso. Sono convinto che qui almeno per la metà c’era di mezzo la mia vanagloria; mi era venuta una gran voglia di sbalordire gli spettatori col gran rischio che correvo, e del resto ricordo chiaramente che – strana sensazione – al di là di ogni sollecitazione della vanagloria, mi sono sentito totalmente dominato da una folle sete di rischio. Può darsi che l’animo, dopo aver provato tante sensazioni, non solo non se ne sazi, ma al contrario ne ricavi un’eccitazione che lo spinga ad esigerne sempre di nuove e di più forti, fino a restarne definitivamente spossato» (Dostoevskij, 1866a, p. 160).

«Je te ferai voir des étoiles en plein jour [Ti farò vedere stelle in pieno giorno]. Vedrai delle donne quali non l’hai mai viste – così mademoiselle Blanche, donna di mondo, lusinga il giovane Aleksej, reduce dalla strepitosa vincita, invitandolo a seguirla nella ville lumière – […]. Naturalmente insieme scialacqueremo in due mesi questi centocinquantamila franchi […]. Ma non lo sai tu che un solo mese di una tal esistenza vale più di tutt’intera la tua vita? Un mese – et après le déluge! [e poi il diluvio] » (Dostoevskij, 1866a, pp. 173 sg.).

«La via del denaro è l’unica capace di condurre al primo posto anche una nullità. Io non sono una nullità, ma so (me lo dice lo specchio), che il mio aspetto mi nuoce, perché il mio viso è assolutamente comune. Ma se io fossi ricco come Rothschild chi mai si occuperebbe del mio viso? E migliaia di donne non si precipiterebbero a un mio solo cenno verso di me con la loro bellezza? […] Forse sono anche intelligente. Ma se anche fossi un portento di ingegno, si troverebbe senza dubbio in società uno più intelligente di me e io sarei perduto. Eppure, se io fossi un Rothschild, credete che quel portento di ingegno avrebbe qualche superiorità su di me? Non gli si permetterebbe neppure di parlare in mia presenza! […]. Il denaro certo è una potenza dispotica e nello stesso tempo la più alta uguaglianza, e in questo consiste appunto la sua grande forza. Il denaro livella tutte le ineguaglianze» (Dostoevskij, 1875, p. 115)

Dostoevskij F. (1866a). Il giocatore. Milano: Garzanti, 1992.

Dostoevskij F. (1875). L’adolescente. Torino: Einaudi, 1997.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

TOSSICODIPENDENZA

Condividi

La tossicodipendenza è la condizione di chi avverte la necessità irrefrenabile e frequente di assumere una sostanza nociva (in genere una droga) malgrado il danno fisico, psicologico, affettivo, emotivo o sociale che tale assunzione possa comportargli come conseguenza; è considerata una sindrome bio-psico-sociale, generata dall’abuso di sostanze stupefacenti e psicotrope, molte delle quali letali, che colpisce ormai tutte le categorie sociali nella maggioranza dei Paesi del Mondo, anche se interessa maggiormente le fasce giovanili. La tossicodipendenza è in genere considerata anche un problema sociale, in ispecie per le conseguenze indirette sull’ordine pubblico Molte sostanze causano dipendenza, fra le più diffuse vi sono la cocaina, l’eroina, il tabacco e l’alcool.

Dipendenza psicologica e dipendenza fisica (biologica)
La dipendenza, nei suoi effetti e sotto il profilo pratico dell’astinenza, può essere biologica (se la mancata assunzione della sostanza provoca effetti fisici sull’organismo) o psicologica (se la mancanza della sostanza provoca alterazioni umorali, caratteriali e relazionali), o può riguardare entrambi gli effetti.

Naturalmente, in entrambe le accezioni la dipendenza si innesca con modalità e misure variabili da individuo a individuo, dipendendo dalle soggettive condizioni fisiche o intellettive (in queste ovviamente includendo il lato emotivo della personalità). Tali condizioni sono soggette a variare poi nel tempo, in relazione alla protrazione nell’assunzione della sostanza.

Relativamente alla dipendenza fisica, alcune definizioni sottolineano la possibile assuefazione dell’organismo all’elemento tossico: in questo caso, la vita dell’individuo si è stabilizzata con la regolare assunzione della sostanza nociva, al punto che la mancanza deve quanto prima essere colmata con nuove assunzioni al fine di tornare alla “normalità”.

In ordine alla dipendenza psicologica, invece, da altri analisti si richiama l’attenzione sulla c.d. “assuefazione mentale” e sullo stato di appagamento derivante dall’assunzione. È questa una condizione nella quale la mente associa, in prescissione di giudizio (razionale o etico), uno stato di piacevolezza occorso nel passato (tanto come sensazione piacevole, quanto come attenuazione di dolore), registrato come dato dell’esperienza, ed intende reiterarne la celebrazione con nuove assunzioni, che andranno poi acquisendo valore di essenziale necessità. La minore soddisfazione specifica eventualmente derivatane, non fa che modificare l’esigenza nel senso di percezione di necessità di dosi crescenti.

Una certa interazione fra i due aspetti è estremamente frequente soprattutto durante l’astinenza, tanto per l’intuibile riflesso sulla psiche di uno stato di grave sofferenza fisica, quanto per la somatizzazione che talvolta si produce in chi abbia un patimento psicologico profondo. Del resto, è praticamente considerato un dato oggettivo che nell’organismo si hanno comunque sia una variazione dei livelli di dopamina e di alcune proteine come le dinorfine e le endorfine, sia altri riscontri neurologici in presenza di simili situazioni, e dunque la distinzione fra i due versanti della sindrome va sempre più sfumandosi.

Studio delle cause
La ricerca delle cause della dipendenza impegna numerosi studiosi di varie specialità , che si interrogano sulle basi biologiche, psicologiche e sociologiche della dipendenza. Va detto che, data la drammatica importanza del fenomeno, le analisi sono generalmente effettuate con metodi non esenti da una certa interdisciplinarità, e non va dimenticato che vi sono ovvie e note implicazioni di carattere etico, religioso, ideologico, economico e politico, il ché può talvolta condurre ad abbassamenti del grado di oggettività dei dati e dei risultati.

In più, quantunque paia ormai acclarato che vi sono effettivamente blocchi parziali di motivazioni individuali comuni, o almeno simili, nell’accesso alle sostanze tossiche, si deve notare che in realtà le tossicodipendenze sono fra loro diverse per sostanza, e che quindi quanto vale per la dipendenza da una sostanza non è detto sia immediatamente e completamente applicabile alle dipendenze da altre sostanze.

Come detto, in materia di cause vi sono interpretazioni focalizzate sull’aspetto psicologico (individualistico), altre su quello sociologico, altre ancora su quello biologico. Non sempre resta netta la separazione fra l’analisi dell’accesso all’assunzione di droga e l’analisi della dipendenza, anche perché la prima causa della dipendenza è l’assunzione, che pertanto non può omettersi dalla disamina.

Ragioni individuali della dipendenza
Risultato di un incontro tra una persona, una sostanza e una situazione (e dunque prodotto del caso, più che di grandi cause), la condizione sociale del tossicodipendente è in genere contraddistinta dalla tendenza all’isolamento, dalla propensione al “lasciarsi andare”, dalla rinuncia progressiva alle posizioni personali e familiari acquisite, a vantaggio della strada, dell’indistinzione del gruppo, dell’avventura.

La condizione esistenziale, peraltro, è per lo più segnata dall’incapacità di sopportare la frustrazione, dalla ricerca dell’indipendenza assoluta e dalla conseguente incapacità di accettare la dipendenza relativa in cui tutti viviamo, dall’assolutizzazione del piacere a scapito della realtà, dalla difficoltà di accesso al simbolico, da mancata individuazione.

Capita di osservare il caso di persone adulte (in genere quarantenni, tossicodipendenti da più di venti anni), con una personalità non destrutturata, impegnate nel lavoro, con famiglia, che hanno conservato (quasi) tutto ciò che avevano, ma hanno eroso lentamente le loro ragioni di vita, fino al punto da ‘perdersi’ definitivamente in età adulta, ritrovandosi tardivamente di fronte alla necessità della decisione e della scelta.

Il quadro variegato delle “posizioni” occupate dai singoli e la vasta gamma delle esperienze personali non impediscono ad alcuni analisti, tuttavia, di rilevare quanto devastante sia, per tutti i soggetti coinvolti, l’azione delle sostanze sulla vita affettiva, quanto modificati ne escano emozioni, sentimenti, passioni.

Riportano quasi univocamente gli operatori dei servizi pubblici o privati di assistenza, che chi riesce a raccontare il vuoto emotivo generato da anni di permanenza in quella condizione – una volta conquistata la condizione drug free (cioé, una volta disintossicato) – riferisce frequentemente anche di una violenza della scoperta delle emozioni suscitate dalle persone, da ciascuna persona, la bellezza delle infinite emozioni che ogni persona riserva quotidianamente, se si è in grado di vivere l’incontro con l’umanità altrui.

Secondo un’interpretazione, peraltro di molto seguito, andando alla ricerca delle cause che hanno portato un ragazzo all’uso della droga, si rischia di non trovare nulla nella sua biografia. Per questo, non avrebbe molto senso presumere che ci debba essere una causa grande, ad esempio un trauma o una violenza subito magari tanto tempo prima. Le vite dei ragazzi si rivelerebbero tutte alquanto comuni e simili.

C’è chi parla di una ‘ferita originaria’, ma per altri si tratta solo di una forte suggestione, indimostrabile se da riferire a tutti i ragazzi. Interpellati nei momenti in cui la dipendenza è attiva, i ragazzi potrebbero concedere anche che la causa sia da cercare nella famiglia, in un padre particolare o in una madre particolare, ma ad una riflessione più profonda, ad un ascolto più attento, subito seguirebbe una smentita. Il lavoro dell’ascolto, a dire di chi lo pratica, rivelerebbe infatti l’inconsistenza delle accuse, delle recriminazioni e delle spiegazioni drammatiche della condizione personale attuale. Quasi tutti i ragazzi che si avviano ai programmi di recupero riconoscono che la responsabilità della loro condizione non deve esser cercata fuori di loro.

Disturbo dall’eziologia multifattoriale, la tossicodipendenza non sarebbe, per alcuni, né ‘piaga sociale’ né ‘tunnel’: per comprendere questo fenomeno sociale, occorrerebbe fare riferimento alle discipline che se ne occupano, a partire dalla Medicina delle tossicodipendenze.

Anche se oggi prevale l’interesse per le componenti sociali della tossicodipendenza (disagio sociale, devianza, sociopatia), il supporto farmacologico e i trattamenti sanitari in genere non vanno sottovalutati: la sofferenza cerebrale è reale e va osservata non solo durante le cosiddette crisi d’astinenza ma lungo tutta la ‘carriera’ del tossicomane. Il carattere reversibile del meccanismo d’azione di quasi tutte le sostanze non tragga in inganno: solo apparentemente la persona è quella di prima, dopo la caduta in una condotta d’abuso. L’instaurazione della dipendenza non si riduce, infatti, al condizionamento del comportamento ad opera delle sostanze: la stessa personalità subisce trasformazioni spesso irreversibili, a causa della durata della ‘carriera’ del tossicomane.

Che si possa uscire dall’assuefazione con uno sforzo della volontà è la grande speranza (taluni però parlano di illusione), ripetutamente esibita dal tossicodipendente nei suoi rapporti con i Servizi – SER.T., Servizio sociale dei Comuni, Comunità di recupero, Centri di ascolto – e negli scambi con la famiglia. Questa convinzione è tenacemente difesa, a dispetto del chiaro contenuto di malafede che rivela.

Le varie forme di disintossicazione e di svezzamento sperimentate non bastano a liberare la persona dalle catene generate nell’anima dalle condotte d’abuso. L’intervento terapeutico e quello educativo soltanto costituiscono la risposta adeguata ai bisogni della persona in cerca di sé e delle proprie ragioni di vita smarrite.

La battaglia contro le sostanze, allora, andrà combattuta su tutti i fronti, a partire da un’assistenza alla persona che può raggiungere le forme deludenti della sola ‘riduzione del danno’, ma che non si ferma alla pura e semplice offerta farmacologica.

La natura complessa del disturbo, per cui intervengono elementi biologici, psicologici e sociali, postula l’intervento di diverse discipline – è quello che viene chiamato approccio multimodale – rappresentate dai relativi specialisti: l’équipe socio-sanitaria del SER.T. (medico, psicologo-psicoterapeuta, assistente sociale, infermiere), l’équipe socio-sanitaria dei Dipartimenti di salute mentale (psichiatra, psicologo-psicoterapeuta, assistente sociale), gli Educatori e gli Operatori di Comunità, gli Operatori sociali dei Centri di ascolto.

L’approccio multimodale dovrà essere integrato dal metodo a rete, cioè dal coinvolgimento di tutti i ‘soggetti’ interessati: la famiglia del tossicodipendente, il SER.T., il Servizio sociale del Comune, i Centri di ascolto del Volontariato, gli altri Presidi sociali e sanitari.

Dopo dieci o venti anni di abusi il lavoro riparativo e ricostruttivo deve fare i conti con la dimensione del tempo vissuto: una crescita naturale interrotta tanto tempo prima non viene semplicemente ‘ripresa’ al punto in cui era stata interrotta. La costruzione della dimensione di un personale progetto di vita, come meta di tutte le azioni di ‘recupero’, è orientata necessariamente al futuro più che alla restaurazione impossibile di un passato che non c’è più! Al di là e oltre il ‘recupero’, si richiede un’azione di reinserimento lavorativo e sociale e controlli di tipo epidemiologico che osservino e valutino gli esiti nel tempo dei tentativi fatti di fuoriuscita dalla dipendenza (followup).

Il cammino di salvezza del tossicodipendente è scandito da ripetuti tentativi nel tempo che possono durare anche venti anni. Il percorso più signicativo è quello che conduce a un Centro di ascolto, dove il ragazzo viene motivato al cambiamento, grazie al coinvolgimento parallelo della famiglia, poi alla Comunità di recupero, senza omettere la collaborazione sistematica con i medici del SER.T., perché il lavoro sociale promosso e sostenuto dai Volontari non prescinde mai dal ricorso ai medici, tutte le volte che si verifica una ricaduta e fino a quando non si registra la totale emancipazione da tutte le sostanze: il supporto farmacologico è il minore dei mali e serve ad evitare più rovinose cadute.

L’esito della ‘carriera’ del tossicodipendente è la morte, la definitiva emarginazione sociale o il pieno reinserimento sociale, che sarà valutato sulla base dell’indipendenza (ri)conquistata e della capacità di valorizzazione di tutte le figure di riferimento che vanno a costituire il personale paesaggio affettivo. Il dibattito attuale su che cosa si debba considerare come meta verso la quale indirizzare l’intervento riabilitativo e occasione di verifica del risultato raggiunto propone l’alternativa tra ristabilimento della persona e inserimento lavorativo: c’è chi ritiene che il risultato da conseguire sia soprattutto e preliminarmente la ‘liberazione’ della persona da ogni forma di schiavitù e c’è chi ritiene che la libertà riconquistata si misuri soltanto a partire dalla riconquistata capacità lavorativa della persona, che così cessa di farsi assistere dalla società e impara a provvedere a se stessa.

L’esperienza di volontariato, che si traduce oggi nelle forme avanzate in lavoro sociale, è sostenuta da motivazioni orientate ai valori della giustizia e della solidarietà, come nelle altre esperienze di volontariato, ma si arricchisce di una caratteristica spirituale in più: la virtù della pazienza. Questo esercizio, infatti, è l’arma che consente di durare nel tempo più del ragazzo, che può ‘sostare’ nella sua condizione di dipendenza anche per venti anni. Gli stessi genitori del ragazzo vengono formati dal Volontari all’idea che bisogna durare più del proprio figlio. Durare nel tempo è la forma che assume l’amore in questo campo.

Questa Voce avrà senso solo alla condizione che, oltre a dare notizie, fornisca spunti per l’azione. Il numero delle persone impegnate ad aiutare le famiglie dei tossicodipendenti è oltremodo esiguo, si potrebbe dire irrilevante. Il numero dei ragazzi che hanno bisogno di aiuto, invece, è grande.

Il cuore dell’azione di volontariato, nel campo delle tossicodipendenze, è dato dall’aiuto alla famiglia. Lo sguardo rivolto ad essa non nasce da una propensione religiosa o etica – queste componenti possono essere presenti nell’Operatore, ma non sono quelle determinanti – ma da una scelta di metodo. Nel lavoro sociale si affermano oggi due grandi tendenze: il metodo sistemico e il metodo relazionale. Il primo ci aiuta a pensare il ragazzo nella famiglia come sistema; il secondo ci aiuta a pensare il concreto come relazione: più che gli individui e la loro somma, il loro stare negli stessi luoghi, conta la natura delle loro relazioni. È come se fosse impossibile pensare un ragazzo fuori della sua condizione di figlio e non legato a nessuno.

Allora, la tossicodipendenza apparirà subito come una patologia della famiglia, nel senso che essa fa ammalare tutta la famiglia. La prospettiva relazionale guiderà l’azione, nel senso che, più che guardare agli aspetti clinici della condizione tossicomanica, che sono di competenza degli psicoterapeuti, favorirà la percezione di persone sempre da pensare in relazione a qualcuno. Allora, la tossicodipendenza apparirà subito come una patologia della relazione. Per questa via, ci avviciniamo al vero significato della tossicodipendenza. Se consideriamo il fatto che una visione sistemica è possibile assumere dentro la stessa prospettiva relazionale, assumere la patologia della relazione come l’oggetto più proprio della tossicodipendenza e come campo d’azione non significa escludere l’interesse per la famiglia o mettere in alternativa i due sguardi e i due metodi.

Ragioni sociali della dipendenza
Alcune correnti di pensiero, di impostazione prettamente sociologica, sogliono porre l’indice su alcune condizioni “ambientali” che sarebbero causa della caduta in dipendenza dell’assuntore di droga. Si vorrebbe, per queste, che fattori di disagio (e disadattamento) siano motivazione negativa che distoglie dalla sospensione dell’assunzione, conducendo alla dipendenza.

Se infatti, si sottolinea, già il primo accesso all’uso delle sostanze, in sé una forma di autolesionismo quasi sempre sufficientemente percepita per tale, è spesso effetto di bisogno di affermazione in un gruppo di individui di riferimento, anche la dipendenza subisce gli effetti di condizionamenti esterni avvertiti come impulsi suggestivi o come carenza di riflessioni deterrenti.

In pratica, si sostiene che la lotta alla dipendenza non venga confortata dall’ausilio di elementi che la società dovrebbe fornire, e cioè condizioni generali di vita appaganti, modelli morali corroboranti, ragioni esistenziali valide. Sull’ultimo punto, si ha una curiosa vicinanza fra queste teorie e quelle di alcune comunità religiose. Il “tossico”, si dice, non ha una vera e propria ragione per vivere, non essendo soddisfatto della vita che conduce (e che la società gli consente di condurre): in taluni casi può decidere di lasciarsi morire volendo vivere “lucidamente” solo i momenti dell’assunzione della sostanza, in altri può decidere di voler combattere la sua guerra personale contro “il sistema” assumendo il ruolo del “cattivo”, del rinnegato, del reietto, e preferisce consapevolmente restare un drogato poiché questo stato – in qualche maniera – finalmente gli dà un ruolo.

A questo si aggiunga che lunghissima è la lista dei personaggi famosi, molti dei quali artisti di successo, che fanno uso di droghe leggere e pesanti, circostanza che anche quando non esibita dall’interessato, comunque riesce a valicare la sua privacy ed a presto divenire di dominio pubblico. La fama dei soggetti, unitamente alla considerazione che chiunque sia famoso “deve” avere doti speciali imitabili (come prova il seguito almeno epistolare riscosso da taluni criminali autori di fatti clamorosi), conduce l’individuo che non ha ricevuto dalla società valori sufficienti a riprendere un cammino più consueto, a prendere a modello quelle celebrità, magari anche nella convinzione che “se la prende Tizio, non può far male, perché Tizio è famoso, dunque non è uno scemo”. Il risultato è appunto, non solo la carenza di motivi per smettere, ma talvolta anche la speranza che la dipendenza sia una soluzione.

Una sintesi che spesso sconfina ai limiti dell’ideologia è quella che riassume che la società, dunque, non fornirebbe agli individui condizioni di vita accettabili anche dai più deboli, né modelli morali sufficienti a far fronteggiare le difficoltà, né infine ragioni per voler vivere una vita “normale” ed astenersi dal recarsi per propria mano danno.

La lotta alla dipendenza
Come appena sopra visto, assai diverse sono le impostazioni ideologiche in argomento, ed altrettanto diverse sono le teorie su quali siano le migliori tecniche per raggiungere il pieno recupero alla normalità dei tossicodipendenti. Vi sono teorie che prediligono metodologie forzose ed altre che preferiscono un approccio più colloquiale, con tutte le estremizzazioni di effetti per le une e per le altre. Al momento, però, non si individua una linea assolutamente da prediligere, poiché per tutte le metodologie oggi in uso la purtroppo vasta casistica presenta numeri sconfortanti in termini di “ricaduta”, il ché è secondo alcuni un segnale di remota distanza dall’aver trovato un metodo efficace.

In ogni caso si deve partire dall’avere “a disposizione” il soggetto, ciò che non è affatto frequente in assenza di una forma in qualche modo coercitiva. Il tossicodipendente in realtà non sempre avverte il bisogno di essere “curato”, anzi spesso considera i tentativi di assistenza delle vere e proprie intrusioni nella sua espressione di libero arbitrio. Ed anche quando lo desiderasse, non sempre si riesce – almeno da subito – a far prevalere questo desiderio sull’astinenza.

Per questo, molto spesso il c.d. “percorso terapeutico” non comincia se non per conversione di un provvedimento giudiziario detentivo in un obbligo di frequentazione (o di soggiorno) in una struttura specializzata, ad esempio una Comunità.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

PORNODIPENDENZA

Condividi

La pornodipendenza E’ una ricerca compulsiva di emozioni profondamente piacevoli: la ricerca e contemplazione di materiale pornografico (prevalentemente immagini) o lo scambio verbale attraverso chat erotica massimizza la piacevolezza delle emozioni. Normalmente la masturbazione controllata, anch’essa compulsiva, accompagna il tutto. E’ controllata per mantenere a lungo (fino a punte di 10/12 ore), il livello dell’eccitazione. Quando questa eccitazione si trasforma in malessere, l’unica possibilità di interruzione è l’eiaculazione, con calo verticale della tensione, disprezzo per le immagini fino a quel momento contemplate.
Il pornodipendente è normalmente, una persona intelligente e sensibile. Può essere di entrambi i sessi, di tutte le età, religioso o meno, sposato (più della metà) e non sposato, etero e gay.

Vari sono i problemi che comporta la pornodipendenza
Dal punto di vista sessuale:
– masturbazione compulsiva prolungata e controllata (finalizzata a massimizzare il piacere della visione pornografica), con eiaculazione finale liberatoria;
– calo quasi assoluto del desiderio sessuale verso la propria partner, con una forma di fastidio per il suo corpo;
– semiimpotenza o impotenza totale all’atto con una donna reale;
– possibilità di erezione masturbatoria ed eiaculazione solo attraverso la visione di materiale pornografico;
– dolore lancinante ai testicoli al momento dell’eiaculazione;
– condizionamento a guardare le donne reali solo ed esclusivamente come corpi pornografici.

Dal punto di vista psicologico e sociale la pornodipendenza modifica in modo negativo e profondo tutti gli aspetti della vita di un individuo: rapporti di lavoro, capacità di applicazione ed attenzione al proprio lavoro (in special modo per i liberi professionisti), applicazione allo studio, rapporti sociali in genere, in particolare rapporti di amicizia e di amore, progressiva sfiducia in sè e tendenza a zero della propria autostima, possibilità di vivere la dimensione reale della propria vita.
Il mutamento nel consumo di pornografia dovuto a Internet ha cambiato questa forme di dipendenza .
Una qualsiasi dipendenza è tale in relazione alla quantità di sostanza assunta: se è al di sotto di certi limiti (rispetto al tempo), non si viene a creare la situazione di dipendenza. Prima di Internet non c’era una disponibilità di pornografia (rispetto alla modalità di fruizione ed alla possibilità di reperimento), tale da generare la dipendenza ed i comportamenti sopra descritti. Con l’avvento di Internet la disponibilità/offerta di pornografia è divenuta praticamente infinita, a costo zero. Ed a questo riguardo i minore che usano la rete incorrono nello stesso identico rischio degli adulti

Il disagio estremo, la paura di impazzire o di perdersi totalmente ad un certo punto spingono il pornodipendente a cercare di capire che cosa significa e il perché di quella follia. E ad un certo punto cerca sulla stessa rete gruppi o persone accomunate dallo stesso problema

Si esce non facendo sforzi eroici per opporsi alla tentazione: quando essa si ripresenta riuscirà sempre a vincere ogni volontà. Ma creando la situazione per cui la tentazione non venga: cominciando a stimarsi ed amarsi e cominciando a vivere in conseguenza di questo ritrovato amore e stima per se stessi.
Premessa indispensabile per uscirne è la presa di coscienza del problema. Dopo questa presa di coscienza, e vari tentativi, a volte anche vani, piano piano se ne può uscire.

Generalmente le aree d’intervento per “curare” la pornodipendenza sono quattro: individuare le emozioni in gioco, ricostruire la stima di sè, ritessere i legami con gli altri, in particolare colle donne, reintrodurre progressivamente una reale vita sessuale.

Si può fare prevenzione se si capiscono, se si “sentono”, se si conoscono le dinamiche e le conseguenze di questa dipendenza. Ma, prima di tutto, se non si ha un approccio moralistico con il fenomeno.

EFFETTUA IL TEST SULLA PORNODIPENDENZA

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

DIPENDENZE SPIRITUALI

Condividi

Mai come adesso è attuale il problema delle dipendenze spirituali, lì dove quelle fisiche e mentali si sono gia ampiamente espresse. Esempio la dipendenza da sostanze stupefacenti per liberare la mente dai condizionamenti del mondo dei consumi (figli dei fiori). Dipendenza dalla psicoterapia di tutti i generi e dagli psicoterapeuti (analisi interminabili) nel tentativo di comprendere il confine tra libertà e integrazione sociale.

Insomma il bisogno di reintegrazione per l’individuo è un tema ricorrente, così come gli effetti disgreganti della civiltà, come essa è andata a svilupparsi degli ultimi decenni, sono visibili in molteplici forme di dipendenza che l’individuo ha generato per ricostruire quell’unità scissa tra mass media, moda, narcisismo, frustrazioni e mancanze.

In tal senso la dipendenza “salvifica” porta però ad una condizione regressiva dove ci appare tutto più semplice e dove ci sembra di non dover fare sforzi per chiedere le cose perché tutto è gia bello e pronto in dosi preconfezionate. In tal modo siamo persi nella simbiosi con l’altro o con una sostanza che ci invischia. A questo punto tutto è funzionale per addormentarsi: alcol, farmaci, fumo, relazioni malate da cui non riusciamo a staccarci, rappresentano una condizione di costante ubriacatura che ci anestetizza evitando il contatto col dolore e con la sofferenza interiore. Un disordine alimentare che sembra nutrirci ma che manifesta continui bisogni mai soddisfatti in pieno. Anche una sessualità appariscente e bella da vedersi, la vanità ricercata con modificazioni continue del corpo, in questo caso anche dipendenti dal bisturi e dal silicone.

Dipendenze anche nelle movenze sciolte e disinvolte di giovani generazioni che reclamano avidamente libertà scambiandola con atteggiamenti nullafacenti o con metalli infissi nel corpo: si riesce ad evitare il ricovero solo perché ormai si è capito che la dipendenza è normale.

Il processo per la disintossicazione da tutto questo verte su alcuni punti fondamentali. Prima capire quali sono le origini dell’uomo per poi comprendere dove andare a cercare la natura persa in una realtà sintetica che ha falsato anche i rapporti ed i contatti tra le persone ed ovviamente con noi stessi.
Si deve però essere capaci di riconoscere quale sostanza genera la propria dipendenza e quale aspetto di no stessi coinvolga;

Nel secolo scorso era sensato parlare in termini di dipendenze psicologiche, dove tutto appariva dipendere dall’educazione e dai traumi che primariamente si addebitavano ai nostri genitori. Oggi si continua con una New-Age nel pensare che tutto dipende da un potere superiore che risiede in noi e nell’universo intero, e che può spiegarci chi siamo e da dove veniamo e cosa sono la vita e la morte. L’ennesima ammissione dei limiti dell’uomo; il pensiero che una forza superiore sia in grado di spiegare l’origine dei nostri problemi non più dovuta a cose riconoscibili con l’analisi dei fatti. Nasce così la domanda nei confronti di forze superiori e rivolte a maestri nel contesto di pratiche spirituali: la lista delle persone in attesa è enorme.

L’offerta varia, dalla meditazione, lo yoga a pratiche mistiche. I costituiscono per questo vere e proprie organizzazioni e comunità come vere e proprie sette cui affidare la propria anima persa. Vi è all’interno chi è capace di sostenerci, ma a sostenerci è ancora qualcos’altro da noi ed è ancora una volta impossibile assumersi le proprie responsabilità: perseguitati della dipendenza.

Perché oggi incombe il problema della dipendenza spirituale.

Le comunità per la disintossicazione da sostanze stupefacenti dovranno far spazio a quelle per il recupero dalla dipendenza affettiva e spirituale.

Ma i principi sono sempre gli stessi: la mancanza.

La solitudine, l’insicurezza ed il senso di colpa per non aver soddisfatto qualcuno o se stessi in quanto ideale.

La vita di ognuno di noi è intossicata dal “peccato” (peccato che non l’ho fatto …o che non sono così…). È per questo abbiamo bisogno di una riabilitazione che ci riscatti dal vuoto e dalle carenze.

L’importante per ognuno di noi è rendersi conto di questo bisogno di riempire buchi con l’illusione di trovare soluzioni a basso costo energetico. La sostanza questa volta è ancora più sottile e risiede in una materia imponderabile e sottile. Una sostanza che può venderci chiunque e renderci schiavi senza che c’è ne rendiamo conto, perché stavolta non c’è nessuna sostanza materiale da iniettare: tutto passa direttamente attraverso il nulla, come si ama definire il problema spirituale rispetto a quello concreto e materiale.

GUGLIELMO DE MARTINO

Maestro Yoga e Shiatsu

www.guglielmodemartino.it

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

DIPENDENZA DA VIDEOGIOCHI

Condividi

Il fenomeno dei videogiochi oggi ha raggiunto dimensioni notevoli a livello planetario.
Il Centro Studi Minori e Media ha recentemente illustrato i risultati dell’indagine “Minori in videogioco” , alla quale hanno partecipato ben 2037 studenti di 39 scuole italiane (scuole medie e scuole superiori) di 18 città del nord, del centro e del sud, in rappresentanza di 8 regioni. Dallo studio è emerso che il 58,5% degli studenti gioca con i videogames una volta al giorno, il 20,5% due volte al giorno. Il tempo medio di gioco è inferiore a un’ora per il 57% degli studenti, mentre uno studente su quattro gioca da una a tre ore. I generi preferiti sono l’avventura (29%) e lo sport (21,5%), anche se gli studenti che giocano per più di tre ore al giorno prediligono i giochi di combattimento. Quasi la metà dei ragazzi gioca da solo. Gli eventuali compagni di gioco sono preferenzialmente gli amici (37%), i fratelli o le sorelle (17,5%) o il papà (15%). E’ interessante notare che il 40,5% dei giocatori si identifica qualche volta nelle storie dei loro videogochi, anche se il 43,5% dei ragazzi si dice non condizionato nell’umore dall’esito del gioco. Infine tre minori su quattro ritengono che possono scattare problemi di dipendenza da videogioco solo per chi gioca più di sei ore al giorno.

Ma il videogioco, allora, è buono o cattivo? Dipende dall’uso che se ne fa. E’ probabilmente sbagliato criminalizzare il videogioco, ma l’abuso può essere pericoloso. In quanto evoluzione tecnologica delle diverse forme di gioco, il videogame è potenzialmente “portatore” di numerosi effetti positivi: rappresenta uno stimolo per le abilità manuali e di percezione, stimola la comprensione dei compiti da svolgere, abitua a gestire gli obiettivi, favorisce l’allenamento alla gestione delle emozioni e lo sviluppo dell’abilità di prendere rapidamente delle decisioni.
Il rovescio della medaglia è costituito dai rischi relativi all’uso protratto nel tempo dei videogiochi, ossia la videomania (o videoabuso) e la videofissazione, cioè la prolungata esposizione ad un videogame, senza pause e completamente assorbiti dal gioco. Spesso l’abuso di videogiochi è seguito da altre condotte disturbate, come la sedentarietà (con conseguente rischio di sviluppo di sovrappeso corporeo), il togliere spazio alle attività connesse all’apprendimento scolastico (spesso praticate frettolosamente e con scarsa concentrazione), nonché la sostituzione del videogioco ad ogni altra forma di relazione sociale (favorendo uno stato di isolamento ed una tendenza all’introversione).

La dipendenza da videogiochi è ormai considerata una vera patologia alla quale applicare una cura simile a quella per la tossicodipendenza e l’alcolismo. Appunto per questo motivo che anche in Europa ad Amsterdam per la precisione,dopo Stati Uniti, Cina e Corea del Sud, anche in Europa, nel mese di luglio aprirà il primo centro di disintossicazione dai videogiochi

L’ANSA del 17 giungo 2006 ha anticipato l’apertura della clinica gestita dalla “Smith & Jones Addition Consultants”, centro olandese che si occupa dal 1991 di cura dalle dipendenze. Le cliniche avvieranno terapie di disintossicazione della durata di 2 mesi per i soggetti affetti da forti dipendenze dai videogiochi.

I sintomi più frequenti sono agitazione, tremore e ansia. In alcuni casi i soggetti affetti dalla dipendenza della “droga games” non riescono a staccarsi dallo schermo, rinunciando persino ai pasti o assumendo ulteriori droghe per aumentare le proprie prestazioni virtuali.

I pazienti della clinica, paragonati quasi ai concorrenti di un reality show, dovranno “sopravvivere” per otto settimane nei boschi fra Olanda e Germania, lontani dalla tecnologia, dai joypad e dai videogiochi e, soprattutto, dalla realtà virtuale nella quale sono ormai immersi. La clinica Smith & Jones sarà la prima ad ospitare i propri pazienti nella speranza che il paesaggio naturale li aiuti a ricreare la “realtà” e a restaurare un rapporto equilibrato con i videogiochi e il mondo reale. « scopo non è far abbandonare il computer o la consolle ai “drogati aiutarli a riavvicinarsi ad essi dopo averli disintossicati ». Nel complesso la terapia è suddivisa in multisessioni tra le quali: escursioni all’aperto, attività fisica e, nei casi più gravi, cure a base di psicofarmaci.

In Europa gli studi sul fenomeno sono ancora agli inizi e per questo alcuni ricercatori restano scettici riguardo una corretta definizione della dipendenza da videogioco e i relativi effetti. Alcuni ritengono che i sintomi come ansia, attacchi di panico, disturbi del sonno, non possono essere esclusivamente imputati all’utilizzo eccessivo di videogiochi, e non sono curabili così semplicemente.

Richard Wood, docente all’International Gaming Research Unit dell’Università di Nottingham, sostiene che « il gioco compulsivo è sintomo di altri problemi e non può essere visto come un problema in se stesso ». A differenza di Keith Bakker, direttore della struttura della “Smith & Jones Addition Consultants” che afferma invece alla BBC: « I videogiochi sembrano innocenti, ma in realtà possono dare dipendenza al pari del gioco d’azzardo e delle droghe » aggiungendo che « soggetti colpiti hanno un’età compresa tra i 13 e i 30 anni e passano circa 16 ore al giorno davanti allo schermo ».

Il profilo-tipo del dipendente da videogiochi è indicato da Keith Bakker come un adolescente maschio che vuole fuggire dalla realtà; il più delle volte è uno studente o un lavoratore. Il fatto che siano principalmente uomini vuol forse sottolineare la tendenza al bisogno e all’ambizione maschile al comando.

Secondo Bakker la situazione è molto più grave di quello che si possa pensare. I videogiochi che vengono progettati e venduti sono strutturati per far proseguire ad oltranza il giocatore, senza sosta, conducendo indirettamente il soggetto ad alterare l’immaginario e la realtà, raggiungendo nei casi più gravi la perdita del reale, ormai sostituito dal virtuale. Inoltre secondo il direttore della “Smith & Jones”, questo può aumentare l’aggressività nei ragazzi che trascorrono troppo tempo giocando con videogames basati sull’uccisione di persone.

Alcune delle cause della dipendenza dai videogiochi sono:
– pensieri ossessivi nei confronti di se stessi o di altri soggetti;
– problemi di salute;
– seri problemi relazionali;
– problemi di inserimento scolastico o lavorativo…

Il soggetto che non riesce a risolvere tali problemi tende, il più delle volte, ad identificarsi con i personaggi virtuali trasferendo in loro emozioni reali, sfoghi, ribellioni, e relazioni interpersonali.
Per confermare tale situazione le cronache orientali hanno riportato diversi casi di videogiocatori deceduti dopo lunghe sessioni di gioco, in genere a causa di problemi circolatori o di scarso nutrimento. Questo è accaduto soprattutto nei paesi dove è molto alta la percentuale di giocatori di giochi di ruolo online (circa tredici milioni di individui in tutto il mondo!).

A questo punto, visto quali possono essere le cause e gli effetti della “droga games” dovremmo proprio cercare di passare più tempo nel mondo reale, affrontando quelli che possono sembrare problemi difficili e giocare alla nostra avventura grafica preferita, all’action game o al gioco di ruolo che ci appassiona senza eccedere. Del resto nella vita reale non ci occorre un freccetta per muoverci, perché allora dovremmo complicarci la vita? E’ molto più semplice muovere le gambe!

Quindi il mondo dei videogame non consente rigide scelte di campo tra favorevoli e contrari; è necessario semmai un uso consapevole del mezzo e, come sempre in questi casi, una forma di vigilanza soprattutto da parte dei genitori sui propri figli in minore età

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

DIPENDENZA DA SMS

Condividi

La dipendenza da SMS è una vera e propria patologia che mette a rischio il sonno delle persone (soprattutto giovani e adolescenti)
Secondo i ricercatori dell’università belga di Leuven sono i più giovani a rischiare la dipendenza da SMS. I dati sono emersi da una ricerca, pubblicata sul Journal of Sleep Research, compiuta nelle Fiandre su un campione di 2.500 giovani di età compresa tra i 13 e i 16 anni. Lo studio avrebbe indicato che per controllare gli SMS ricevuti ed eventualmente per spedirli, in molti si svegliano durante la notte . E poi riaddormentarsi risulta difficile. Il 20,8 per cento degli intervistati si sveglia in mezzo alla notte da una a tre volte al mese, il 10,8 per cento lo fa una volta alla settimana, l’8,9 per cento diverse volte alla settimana e il 2,9 per cento lo fa tutte le notti. I 16enni sono quelli che accusano i “disturbi” maggiori. 

Il fenomeno va progressivamente a ridursi con l’età. In particolare i 13enni che si svegliano tutte le notti per ricevere o spedire gli SMS rappresentano il 2,2 per cento del campione (il 13,4 per cento ha dichiarato di svegliarsi fino a tre volte al mese, il 5,8 per cento una volta a settimana, il 5,3 per cento diverse volte a settimana). Secondo gli esperti l’interruzione del sonno potrebbe avere ripercussioni sul rendimento scolastico dei ragazzi. E’ buona norma spegnere il cellulare prima di addormentarsi e riaccenderlo unicamente al mattino dopo. Avvertenza banale ma evidentemente non tutti i ragazzi la seguono. E di giorno la situazione non è certo migliore, anzi . I ragazzi sono così ossessionati, spiegano gli psicologi, che non sono in grado di sostenere una conversazione senza interrompersi in continuazione per controllare il proprio cellulare, e diventano nervosi se per lunghi periodi non possono leggere i messaggi. Il mercato della telefonia mobile ha puntato “massicciamente” sui più giovani per allargare i propri orizzonti commerciali. Queste sono le conseguenze.

Se da un lato l’attrazione per gli SMS rappresenta un ostacolo al sonno, dall’altro il messaggino può rappresentare anche un modo per costruire la propria autostima (comunicare quindi essere) . La medaglia ha sempre due facce. Secondo un recente studio realizzato da Childalert , l’associazione americana di aiuto per i genitori, e pubblicato dal quotidiano Daily Telegraph ogni giorno i ragazzi sotto i 18 anni spendono decine di dollari per inviare messaggi ad amici e parenti. Per gli analisti di Childalert dietro questo traffico telematico c’è la necessità da parte dei ragazzi di definire la propria identità. Ricevere un SMS significa essere “importanti per qualcuno”. Questa consapevolezza aiuta ad aumentare la propria autostima e accresce la considerazione di se stessi. Oggi nove ragazzi su dieci possiedono un cellulare. I genitori giustificano l’acquisto con motivi di sicurezza. Ma altri sono le ragioni. Per Childalert “il cellulare favorisce l’identificazioni tra coetanei e rende le comunicazioni più facili”. E questo i genitori lo hanno capito.

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it