AUTOSTIMA

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L’immagine che ognuno ha di sé stesso è un mosaico che si realizza sulla base delle risposte che riceviamo dagli altri, partendo dalla prima infanzia. Se ci viene chiesto troppo in termini di perfezionismo e successo si possono generare un Sé ideale e degli standard di comportamento ideale che possono causare grande insoddisfazione, in quanto solitamente irraggiungibili . Quando il Sé ideale, cioè l’idea di persona che ci piacerebbe essere, è troppo esagerato, si creano problemi di autostima.

Anche frasi svalutative come “Non sei buono a niente”, “Non porti a termine mai niente” o altre meno dirette e usate magari in buona fede, soprattutto se dette dai genitori e specialmente in tenera età, vengono conservati per tutta la vita e influenzano le nostre esperienze.

Ovviamente anche le successive relazioni interpersonali , il successo scolastico-lavorativo , il vissuto corporeo , sono molto importanti per lo sviluppo dell’autostima, dopo i 13 anni circa, però, solo esperienze molto forti possono modificare la direzione verso cui si sta sviluppando l’autostima di una persona.

Detto ciò, esistono tanti modi e tante tecniche per cercare di aumentare l’autostima , la cosa fondamentale però, prima di intraprendere qualsiasi strada, è arrivare ad una presa di coscienza riguardo se stessi, sul perché ci si comporta in un determinato modo, sulla consapevolezza che i nostri pensieri negativi diventano convinzioni e fatti concreti, che spetta solo a noi cambiare la nostra vita e cose del genere. Tutte cose che difficilmente una persona riesce a mettere a fuoco da sola, senza un supporto adeguato, perché, come è facilmente immaginabile, non basta dire certe cose perché queste vengano accettate ed assimilate da un’altra persona.

Un consiglio che mi sento di dare è di cercare di riflettere sui propri obiettivi e standard ideali, in modo tale da eliminare quelli irrealistici (probabilmente tali per la maggior parte delle persone, non solo noi!) e concentrare così tutte le nostre forze solo su quelli raggiungibili. Potrebbe essere utile cercare di realizzare qualcosa ogni giorno , poche cose ci gratificano come il raggiungimento di un traguardo!

La persona con alta autostima:

  1. È solitamente attiva ed assertiva di fronte alle richieste dell’ambiente;
  2. Presenta auto-accettazione , orgoglio e rispetto di sé ;
  3. Gode di una buona popolarità tra colleghi e conoscenti;
  4. E’ fiduciosa nelle proprie capacità ;
  5. E’ in grado di affrontare un eventuale giudizio negativo degli altri.

La persona con bassa autostima

  1. È solitamente passiva e sottomessa di fronte alle richieste dell’ambiente;
  2. Presenta spesso timidezza , senso di inferiorità , scarsa auto-accettazione ;
  3. Può manifestare ansia , depressione , disturbi psicosomatici ;
  4. Ha difficoltà nelle relazioni di amicizia ed è spesso solitaria ;
  5. Difficilmente manifesta il suo dissenso, non accetta le critiche mentre dà poca importanza ai giudizi positivi;
  6. Tende a passare inosservata in un gruppo;
  7. E’ eccessivamente attenta ai propri difetti .

 

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

ASSERTIVITA’

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Il comportamento assertivo è quel comportamento attraverso il quale si affermano i propri punti di vista, senza prevaricare né essere prevaricati. Si esprime attraverso la capacità di utilizzare in ogni contesto relazionale la modalità di comunicazione più adeguata.Potremmo anche definire l’assertività come quel punto d’equilibrio fra uno stile comunicativo passivo ed uno aggressivo. Con essa viene adottato uno stile comunicativo che permette all’individuo di esprimere le proprie opinioni, le proprie emozioni e di impegnarsi a risolvere positivamente le situazioni e i problemi. Non esiste una risposta assertiva definibile in modo assoluto, essa deve essere valutata all’interno della situazione sociale ed è un processo continuo di aggiustamento della propria performance comunicativa. Il comportamento assertivo quindi non è intermedio tra il comportamento aggressivo e passivo: obiettivo per una comunicazione assertiva è la capacità di ridurre le proprie componenti aggressive e passive. L’assertività è un modo di comunicare che nasce dall’armonia tra abilità sociali, emozioni e razionalità senza necessariamente modificare la propria personalità. In questa integrazione entra in gioco l’aspetto neurovegetativo per le emozioni, quello motorio volontario per i gesti e le azioni ed infine quello corticale-cognitivo per i pensieri e le verbalizzazioni. Tra questi tre aspetti della personalità esiste un rapporto di interdipendenza per cui migliorare l’assertività significa agire su ognuno dei tre. Non solo è importante conoscere le tecniche per migliorare l’assertività, ma occorre sviluppare nuove abitudini di comportamento e perfezionare l’educazione dei sentimenti e delle emozioni. Familiarizzarsi con il mondo dei sentimenti richiede, infatti, “un’educazione sentimentale”. La struttura concettuale dell’assertività è l’ordine che ciascuno pone nella propria vita, quando con maggiore consapevolezza pensa a se stesso e interagisce con le altre persone. Questo modo di agire permette di stabilire un rapporto attivo e intelligente che si basa sulla valutazione corretta della situazione e sull’avere a disposizione i mezzi adeguati per poter scegliere la soluzione più appropriata. Il costrutto dell’assertività è costituito dall’idea di libertà come capacità di affrancarsi dai condizionamenti ambientali negativi e comprende la conoscenza di sé e della propria personalità, della teoria dei diritti assertivi (in ciò è inclusa l’idea della reciprocità, ovvero il medesimo diritto di comunicare desideri e convinzioni e di perseguire obiettivi individuali viene riconosciuto anche agli altri, il saper riconoscere e criticare le idee irrazionali che generano e mantengono i disagi e i disturbi emotivi). Il secondo aspetto riguarda la forma dell’assertività, ovvero la capacità di esprimersi in modo più evoluto ed efficace, tradotta quindi in abilità non verbali e verbali, e, più in generale, in competenza sociale. Tale aspetto è stato definito da L. Philhps (1968) come “l’ampiezza con cui l’individuo riesce a comunicare con gli altri, in modo da soddisfare diritti, esigenze, motivazioni e obblighi, in misura ragionevole e senza pregiudicare gli analoghi diritti delle altre persone, in forma di libero e aperto dialogo”. In questo caso la persona assertiva sa esprimere in modo chiaro e tecnicamente efficace, emozioni, sentimenti, esigenze e convinzioni personali riducendo sempre più le sensazioni d’ansia, disagio o aggressività. A questa modalità comunicativa si contrappone uno stile comunicativo passivo e aggressivo.

Caratteristiche del tipo aggressivo

Il soggetto con questo stile è una persona che non rispetta i limiti degli altri, è concentrato sui propri desideri senza badare a coloro che gli sono intorno. Per fare questo utilizza qualsiasi mezzo a propria disposizione, anche distruttivo e violento. La tendenza è quella di dominare gli altri e l’unico obiettivo che si pone è il potere personale e sociale. Alla base di questo tipo di comportamento vi sono ancora delle componenti d’ansia accompagnate però da rabbia e ostilità. C’è anche un disprezzo degli altri e un mancato riconoscimento della dignità altrui.

Caratteristiche del tipo passivo

Il soggetto con uno stile di comunicazione passivo pensa più ad accontentare gli altri che non se stesso, è facilmente influenzabile e subisce le situazioni senza opporsi. È un soggetto che ha un’elevata ansia sociale, che non riesce ad esprimere adeguatamente i propri bisogni e le proprie esigenze. Il suo obiettivo è ottenere il consenso di tutti ed evitare qualsiasi forma di contrasto con gli altri. Nel breve termine questo tipo di atteggiamento è utile per ridurre l’ansia, ma finisce col limitare notevolmente la capacità dì azione della persona. Alla base di questo atteggiamento vi sono spesso sensi di colpa associati ad una forte componente ansiosa.

I livelli dell’assertività

La struttura concettuale dell’assertività è basata sulla funzionalità di cinque livelli ognuno dei quali ne definisce un aspetto. Il primo livello è costituito dalla capacità di riconoscere le emozioni, il cui obiettivo riguarda l’autonomia emotiva e la percezione delle emozioni senza il coinvolgimento negativo legato alla presenza di altre persone (arrossire, balbettare, vergognarsi, ecc.). Il secondo livello: la capacità di comunicare emozioni e sentimenti, anche negativi, attraverso molteplici strumenti comunicativi rappresenta il secondo livello che riguarda la libertà espressiva, ovvero il controllo delle reazioni motorie senza che queste siano alterate o inibite dall’ansia e dalla tensione. Al terzo livello troviamo la consapevolezza dei propri diritti nel senso di avere rispetto per sé e per gli altri. Esso ha un ruolo centrale nella teoria dell’assertività in quanto la distinzione tra i comportamenti aggressivi, passivi e assertivi si fonda sui diritti e sul principio di reciprocità. Il quarto livello è rappresentato dalla disponibilità ad apprezzare se stessi e gli altri. Questo implica la stima di sé, la capacità di valorizzare gli aspetti positivi dell’esperienza con una visione funzionale e costruttiva del proprio ruolo sociale. L’ultimo livello è relativo alla capacità di auto-realizzarsi e di poter decidere sui fini della propria vita. Per raggiungere tale obiettivo è necessario possedere un’immagine positiva di se stessi, fiducia e sicurezza personale. Il possedere tali caratteristiche comporta una maggiore capacità di autocontrollo, di intervento sulle situazioni e di soluzione dei problemi, un “ambiente interno” rilassante che permette di percepire le difficoltà non come occasioni negative di frustrazione, ma come ostacoli da superare abilmente. Gli obiettivi dei vari livelli vengono raggiunti intervenendo sia sull’aspetto concettuale, di contenuto, sia sull’aspetto tecnico, riguardante il modo di agire e di comunicare.

Le componenti dell’Assertività

AUTOSTIMA Autostima come il giudizio che ogni individuo dà del proprio valore. E’ anche avere fiducia nelle proprie capacità di pensare, scegliere e prendere decisioni..

Essa si può modificare durante l’intera vita influenzata da successi e fallimenti. Successi e fallimenti che viviamo attualmente, che abbiamo già vissuto, che pensiamo di vivere nel futuro.

OBIETTIVI CHIARI L’avere obiettivi chiari può aumentare la percentuale di successi ed influire, così, positivamente sull’autostima personale.

SAPER ASCOLTARE Spesso lamentiamo che gli altri non ci ascoltano, ma chiediamoci anche se noi sappiamo ascoltare gli altri.

SAPER ASSUMERE RISCHI Affermare le proprie convinzioni e comunicare le proprie aspettative.

SAPER DIRE DI NO Fondamentale è saper dire di no senza sentirsi in colpa. Non è piacevole per nessuno dire di “no” , ma diventa essenziale quando:

  • -dire di “si” non aiuta né noi, né l’altro
  • -non sono presenti elementi obiettivi per dire di “sì”
  • -dire di “no” aiuta direttamente o indirettamente l’altro.

Il nostro “no” và motivato, spiegato, espresso in modo non aggressivo suggerendo delle alternative.

SAPER AMMETTERE GLI SBAGLI Sbagliare non è piacevole, ma è ancora più spiacevole scoprire di essere così poco importanti che non se ne accorge nessuno.

CRITICARE IN MANIERA COSTRUTTIVA Affrontare il problema in maniera razionale, obiettiva, non emotiva. La critica è espressa in maniera impersonale senza ferire l’altro e nessuno è vincente.

La critica deve essere posta in maniera specifica e riguardare il comportamento e non la persona.

Conseguentemente è l’osservazione di un fatto e non un’accusa o un giudizio emotivo. Il suo scopo è correggere in maniera costruttiva.

TECNICHE ASSERTIVE PER FARE MODIFICARE UN COMPORTAMENTO

  • Esprimere empatia con l’altro (sono partecipe del….)
  • Descrivere il comportamento che ha un impatto negativo su di noi
  • Esprimere il sentimento conseguente al suddetto comportamento
  • Spiegare il sentimento (perché mi sento così)
  • Specificare il cambiamento desiderato nel comportamento
  • Analizzare le conseguenze positive se ci sarà il cambiamento
  • Analizzare le conseguenze negative se non ci sarà il cambiamento
  • Confermare la relazione (te lo dico perché ci tengo)
  • Richiedere di risolvere insieme il problema (come posso aiutarti?)

All’interno di una comunicazione verbale assertiva è utile adoperare i seguenti criteri:

  • una maggiore autoapertura dando maggiori informazioni su noi stessi
  • comunicare i propri sentimenti perché si favorisce una maggiore apertura e chiarezza nelle relazioni, in quanto le emozioni hanno un alto valore comunicativo
  • la tecnica del “disco rotto” consistente nel ribadire e ripetere in maniera sistematica il contenuto chiave che si vuole trasferire all’interlocutore.

Il tutto all’interno di una modalità comunicativa serena, senza aggredire o irritare.

Diritti assertivi

I diritti assertivi comprendono il rispetto di se stessi, delle proprie esigenze, sentimenti e convinzioni. Tali diritti sono necessari per costruire sentimenti e pensieri positivi come l’autostima e la fiducia. Riconoscerli e rispettarli significa anche riconoscerli e rispettarli negli altri.

Ma vediamo quali sono questi diritti assertivi. Innanzitutto il più importante:

DIRE NO ALLE RICHIESTE ALTRUI SENZA SENTIRSI IN COLPA

Di seguito

  • • il diritto di fare qualsiasi cosa, purchè non danneggi nessun altro.
    • il diritto di mantenere la propria dignità agendo in modo assertivo, anche se ciò urta qualcun altro, a condizione che il movente sia assertivo e non aggressivo.
    • il diritto di fare richieste ad un’altra persona, dal momento che riconosco all’altro l’identico diritto di rifiutare.
    • il diritto ridiscutere il problema con la persona interessata, e di giungere a un chiarimento.
    • il diritto ad attuare i propri diritti ed al rispetto altrui dei propri diritti.
  • il diritto di avere idee, opinioni, punti di vista personali e non necessariamente coincidenti con quelli degli altri
  • il diritto a che le proprie idee, opinioni e punti di vista siano quanto meno ascoltati e presi in considerazione (non necessariamente condivisi) dalle altre persone
  • il diritto ad avere bisogni e necessità anche diverse da quelle delle altre persone
  • il diritto a provare determinati stati d’animo ed a manifestarli in modo assertivo se si decide di farlo
  • il dirittodi commettere degli errori, in buona fede
  • il diritto di decidere di sollevare una determinata questione o, viceversa, di non sollevarla
  • il diritto di essere realmente se stessi, anche se questo significa a volte contravvenire a delle aspettative esterne
  • il diritto di chiedere aiuto.

Essere assertivi non è facile, costa sacrificio ed esercizio costante al fine di ottenere risultati soddisfacenti. Importante è, comunque, iniziare a praticarli, se non tutti insieme, anche uno alla volta. Come si è riusciti superarne uno, passare a quello successivo. Come recita un aforisma zen “un cammino è fatto di mille passi”. Incominciamo, un passo alla volta, a fare il cammino verso l’assertività.

ESERCIZI PER ESSERE ASSERTIVI

Visionate anche le presentazioni in powerpoint

“ASSERTIVITA’, COMPORTTAMENTO ASSERTIVO E COMUNICAZIONE ASSERTIVA” del dott. Roberto Cavaliere

“L’AUTOSTIMA E L’ASSERTIVITA” della dott.ssa Rosalia Cipollina

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

ARTE DELLA GUERRA

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Il famoso ed antico libro “L’arte della guerra” rappresenta un ottimo strumento per relazionarsi all’interno del conflitto cogli altri. Ma potrebbe anche essere utile per combattere il nemico interiore. Di seguito riporto i passaggi più significativi per gli scopi suddetti.

Un risultato superiore consiste nel conquistare intero e intatto il paese nemico. Distruggerlo costituisce un risultato inferiore.

Perciò ottenere cento vittorie in cento battaglie non è prova di suprema abilità. Sottomettere l’esercito nemico senza combattere è prova di suprema abilità.

Affidati alla forma per vincere sul nemico numeroso . E quest’ultimo non riuscirà a capire come hai fatto. Tutti vedono la forma con cui ho vinto, Ma nessuno sa cosa mi porta a decidere la forma della vittoria. Evita di ripetere le tattiche vittoriose del passato, Perché la forma deve essere suggerita dall’infinità varietà delle circostanze.

Il fine del dare forma alle operazioni militari è diventare senza forma. Quando si è senza forma, nemmeno le spie più abili riescono a scoprire nulla e il nemico saggio non avrà elementi per poter preparare i suoi piani.

Ora la forma dell’operazione militare è come quella dell’acqua. L’acqua, quando scorre, fugge le altezze e precipita verso il basso. L’operazione militare vittoriosa evita il pieno e colpisce il vuoto. Come l’acqua adegua il suo movimento al terreno, la vittoria in guerra si consegue adattandosi al nemico. L’abile condottiero non segue uno shih prestabilito e non mantiene una forma immutabile.

Esiste una pianta nelle regioni occidentali chiamata iris perenne. Il suo gambo è alto dodici centimetri, ma poiché cresce in cima ad alte montagne, si sporge su abissi di migliaia di metri.

Arrampicandoti su un’altura per fare segnalazioni, non è che il tuo braccio si allunghi, ma lo si potrà vedere da lontano. Urlando sottovento, non è che la tua voce si intensifichi, ma la si potrà intendere più chiaramente.

Il Serpente che solleva la testa si diverte nelle brume, il Drago Volante cavalca le nubi. Ma quando le nuvole se ne vanno e le brume si dissolvono, Essi non sono differenti dai vermi della terra.

Col termine comando, intendo le qualità di saggezza, rettitudine, di umanità, di coraggio e di severità del generale.

Non può esservi generale, se non conosce i cinque elementi fondamentali. Chi li padroneggia, vince; chi non se ne cura, è annientato.

In quale esercito si dispensano ricompense e punizioni con il metodo più illuminato ?

Sapendo ciò, potrai prevedere quale parte sarà vittoriosa e quale sconfitta.

Fondamentale in tutte le guerre è lo stratagemma.

Quindi, se sei capace, fingi incapacità; se sei attivo, fingi inattività.

Se vuoi attaccare in un punto vicino, simula di dover partire per una lunga marcia; se vuoi attaccare un punto lontano, simula di essere arrivato presso il tuo obbiettivo.

Offri al nemico un’esca per attirarlo; fingi disordine fra le truppe, e colpiscilo.

Quando vedi il nemico pronto, preparati contro di lui; ma evitalo, dove è forte.

Simula inferiorità e incoraggiane l’arroganza.

Tienilo sotto pressione e logoralo.

Quando il nemico è unito, dividilo.

Attacca il nemico dove non è preparato, fai sortite con le truppe quando non se l’aspetta.

Non comunicare a nessuno il tuo schieramento e la strategia che intendi adottare.

Solo valutando tutto esattamente si può vincere, con cattive valutazioni si perde. Quanto esigue sono le probabilità di vittoria di chi non fa alcun calcolo ! Coi principi che ho elencato, io valuto la situazioni: il risultato, allora si definisce da solo.

Ciò che da valore alla guerra, è la vittoria. Quando la guerra dura troppo a lungo, le armi si spuntano e il morale si deprime. Quando le truppe assediano troppo a lungo le città, le loro forze si esauriscono in fretta.

Con le armi spuntate, l’ardore spento, la forza esaurita, il denaro volatilizzato, i vicini potranno avvantaggiarsi delle tue difficoltà e insorgere contro di te. Anche se hai saggi consiglieri, non potranno cambiare la situazione a tuo favore.

Ho visto troppe guerre-lampo condotte male, ma non ho mai saputo di un’operazione militare abile protratta nel a lungo.

Non vi è mai stata una guerra protratta a lungo nel tempo della quale un paese abbia tratto vantaggio.

L’obbiettivo essenziale della guerra è la vittoria, non le operazioni prolungate.

In guerra è meglio conquistare uno Stato intatto. Devastarlo significa ottenere un risultato minore.

Ottenere cento vittorie su cento battaglie non è il massimo dell’abilità: vincere il nemico senza bisogno di combattere, quello è il trionfo massimo.

Il generale esperto attacca la strategia del meno esperto. Questa è la prima cosa da fare.

La seconda cosa da fare, è spezzare le alleanze del nemico.

La terza cosa da fare, è attaccare il suo esercito.

Se sei inferiore in tutto al nemico, devi riuscire a sfuggirgli. Se ti ostini a cercare il combattimento sarai fatto prigioniero, perché, per una forza più potente, una forza esigua diventa preda desiderata.

Chi è in grado di distinguere quando è il momento di dare battaglia, e quando non lo è, riuscirà vittorioso.

Chi è in grado di stabilire quando deve usare forze minori, e quando maggiori, riuscirà vittorioso.

Chi è prudente e preparato, e resta in attesa delle mosse del nemico temerario e impreparato, sarà vittorioso.

Perciò dico: “Conosci il nemico come conosci te stesso. Se fari così, anche in mezzo a cento battaglie non ti troverai mai in pericolo”.

Se non conosce il nemico, ma conosci soltanto te stesso, le tue possibilità di vittoria saranno pari alle tue possibilità di sconfitta.

Se non conosci te stesso, né conosci il tuo nemico, sii certo che ogni battaglia sarà per te fonte di pericolo gravissimo.

Un tempo i generali esperti, prima d’ogni cosa cercano di rendersi invincibili, poi aspettavano il momento in cui il nemico era vulnerabile

L’invincibilità, dipende soltanto da noi stesso; la vulnerabilità del nemico dipende soltanto da lui.

Ne consegue che in una guerra un abile generale può rendersi invincibile, pur se non può indurre un nemico a diventare vulnerabile.

Per questo si dice che chi conosce l’Arte della Guerra può prevedere la vittoria, ma non determinarla.

L’invincibilità dipende dalla difesa; la possibilità di vittoria, dall’attacco.

Ci si deve difendere quando le nostre forze sono inferiori; si deve attaccare quando le nostre forze sono molto superiori.

Gli esperti nell’arte della difesa si nascondono come se fossero sotto i nove strati della terra; gli esperti nell’arte dell’attacco si muovono come se fossero in cielo. In questo modo riescono a proteggere se stessi e gli e ottengono una completa vittoria.

Prevedere una vittoria evidente, come chiunque può prevederla, non è vera abilità.

Chi riporta la vittoria in battaglia è riconosciuto da tutti come un generale esperto, ma non è questa la vera abilità. Strappare la pelle d’autunno non richiede forza; distinguere fra il sole e la luna non è

difficile per gli occhi; sentire il rumore del tuono non è prova di orecchie fini.

-“pelle d’autunno”= riferimento alla pelle del coniglio, che in autunno, ha un manto molto leggero.

I generali d’un tempo, vincevano rendendo facile vincere.

Perciò, le vittorie ottenute dai maestri nell’Arte della Guerra non si distinguono né per l’uso della forza, né per l’audacia.

I loro successi in guerra non dipendono dalla fortuna. Perché per vincere basta non commettere errori. “Non commettere errori”, vuol dire porsi in condizione di vincere con certezza: in questo modo, si sottomette un nemico già vinto.

Perciò, il generale esperto crea situazioni grazie alle quali non potrà essere battuto, e non si lascia sfuggire alcuna occasione di porre in condizioni di inferiorità il nemico.

in tal modo, un esercito vittorioso prima vince, poi dà battaglia; un esercito destinato alla sconfitta prima dà battaglia, poi spera di vincere.

Si attacca con la forza frontale, ma si vince con quelle laterali.

Le possibilità di chi sa impiegare abilmente le forza laterali sono vaste e infinite come il cielo e la terra, inesauribili come le acque di grandi fiumi.

Esse finiscono e ricominciano di nuovo, come il movimento del sole e della luna. Muoiono e rinascono, come le stagioni-

Le note musicale non sono che cinque, ma le loro melodie sono così numerose che nessuno può dire di averle udite tutte.

I colori fondamentali non sono che cinque, ma le loro combinazioni sono così tante che nessuno può immaginarle tutte.

Cinque soltanto sono i sapori, ma le loro mescolanze sono così varie che nessuno può dire di averle gustate tutte.

Le azioni d’attacco in battaglia sono soltanto due: l’attacco frontale ordinario e quello laterale di sorpresa, ma le loro combinazioni sono infinite e nessuno può dire di conoscerle tutte.

Queste due forze si riproducono reciprocamente, e le loro interazioni sono infinite, come gli anelli concatenati. Chi può stabilire dove comincia l’una e l’altra finisce ?

L’acqua torrenziale scorrendo svelle le rocce, grazie alla sua velocità.

Il falco in picchiata spezza in due il corpo della preda, perché colpisce con precisione.

Così la velocità di chi è abile nell’Arte della Guerra è fulminea, e il suo attacco è assolutamente preciso.

La sua forza è quella della balestra tesa al massimo, il suo tempismo come lo scatto del grilletto.

Tumulto e fragore; la battaglia sembra caotica, ma non c’è disordine; le truppe che manovrano ordinatamente, non possono essere vinte.

Ciò che sembra confusione, in realtà è ordine; ciò che sembra viltà è coraggio; la debolezza è forza.

Commento di Tu Mu (803-853 d. C. – Letterato, poeta, funzionario della Core Imperiale) : <Vuol dire che, se uno intende simulare disordine per ingannare il nemico, deve in realtà essere molto ben disciplinato; soltanto così può fingere confusione. Chi desidera apparire debole per rendere il nemico audace e imprudente, deve essere in realtà fortissimo; soltanto così può simulare debolezza. Se si vuol fingere vigliaccheria, per indurre il nemico ad avanzare con vana baldanza. si deve essere molto coraggiosi: soltanto così si può simulare timore.>

Ordine e disordine dipendono dall’organizzazione; coraggio e viltà dalle circostanza; forza e debolezza dallo schieramento.

Il generale esperto induce il nemico a muoversi, e ad assumere un certo schieramento. Lo adesca con qualcosa che il nemico è sicuro di prendere e, attirandolo, con l’illusione di un piccolo vantaggio, lo aspetta in forze.

Chi sa valutare la situazione, adopera i propri uomini in battaglia come se fossero tronchi o pietre, da far rotolare. Per loro natura, tronchi e pietre, sono statici sul terreno piano, ma si muovono su un terreno inclinato. Se hanno forma squadrata rimangono immobili, se rotonda, rotolano.

Così, il potenziale delle truppe abilmente comandate in battaglia può essere paragonato a quesi massi rotondi, che rotolano giù dalla sommità delle montagne. Questa è la forza.

Di solito, chi ha occupato per primo il campo di battaglia e attende il nemico, è riposato; chi invece arriva più tardi e si impegna all’ultimo momento nella battaglia, è affaticato.

Per questo il generale esperto non va, ma fa in modo che sia il nemico a venire: non si lascia condurre da lui.

Per indurre il nemico a muovere, gli si deve prospettare un vantaggio. Per scoraggialo, fargli temere un danno.

Quando il nemico è riposato, devi essere in grado di stancarlo; quando è ben nutrito, di farlo morire di fame; quando è rilassato, di indurlo a muoversi.

Appari in luoghi dove sarà obbligato ad affaticarsi per raggiungerti in fretta; dirigiti rapidamente dove non se lo aspetta.

Puoi marciare anche per mille li senza stancarti, se ti muovi dove il nemico non c’è.

Per essere certo di conquistare la zona dove hai impegnato battaglia, attacca un punto che il nemico non difende. Per essere certo di tenere ciò che difendi, attestati dove il nemico non può attaccare.

L’attacco migliore è quello che non fa capire dove difendersi. La difesa migliore è quella che non fa capire dove attaccare.

Muovi con rapidità senza lasciare traccia, quasi fossi evanescente, meravigliosamente misterioso, impercettibile: sarai padrone del destino del nemico.

L’avanzata inarrestabile si getta nei varchi del nemico. La ritirata inafferrabile è data dalla massima velocità.

Se voglio ingaggiare battaglia contro i nemici salgo in difesa dietro alte mura e profondi fossati, attacco un obbiettivo che di sicuro dovrà difendere: così, non potrà evitare di uscire per muovere al contrattacco.

Se invece voglio evitare di ingaggiare battaglia, inganno il nemico con fattori di diversione. Così non muoverà contro di me, neppure se gli indicassi la strada disegnata sul terreno.

Induci il nemico a schierarsi, ma nello stesso tempo tieni l’esercito unito; così le forze saranno concentrate e le sue divise.

Un fronte forte significa una retroguardia debole, una retroguardia debole significa che il fronte è più vulnerabile. Essere forti a sinistra significa essere attaccabili a destra, rafforzarsi a destra significa rimanere scarsi a sinistra. Se poi ci si divide dappertutto si sarà deboli dappertutto.

Perciò, cerca di anticipare i piani del nemico, e individua i suoi punti forti e deboli: potrai decidere quale strategia usare per avere successo, e quale no.

Individua le sue posizioni: così conoscerai il terreno della vita e della morte.

La forma che vince i molti, non appare ai molti. Dopo la vittoria, la mia forma sarà palese a tutti. Prima della vittoria, nessuno sa la forma che impiegherò.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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ARTETERAPIA

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L’Arte Terapia è un trattamento psicologico che compare a partire dal 1950 e si conferma come terapia individuale per poi espandersi sempre di più al gruppo e sempre di più in contesti rigorosi di espressione non verbale.L’arteterapia, più precisamente, nasce verso gli anni 40-50 in America come strumento di supporto nella cura di gravi forme psichiatriche. Alcuni medici, infatti, osservarono che molti soggetti ricoverati per malattie mentali riuscivano ad esprimersi e comunicare meglio attraverso il proprio corpo, ballando o gesticolando, ed anche attraverso disegni o la modellazione della creta.

Nell’arteterapia l’uomo è infatti, considerato senza scissione fra mente e corpo, ma un tutt’uno. Il corpo è un arricchimento per la mente , è uno strumento, un canale di comunicazione, di comprensione e di esperienza per la mente. Da allora tale tecnica si è modificata e adeguata gradualmente a diverse modalità di intervento terapeutico, fino anche ad essere utilizzata oggigiorno non solo come terapia di riabilitazione e sostegno di soggetti con handicap fisici o mentali, ma anche come strumento per poter migliorare la conoscenza di se stessi, per poter ritrovare una profonda serenità interiore sempre più difficile da raggiungere nella nostra attuale e frenetica società.Questa tecnica si basa principalmente sull’effetto immediato, spontaneo e naturale che provoca il fare prodotti manuali, cioè realizzati da soli, per cui non necessita di particolari doti naturali o la conoscenza di tecniche artistiche specifiche.Si utilizzano le immagini, le forme ed i colori, anziché le parole per poter esprimere e riconoscere sentimenti, emozioni e sensazioni che altrimenti rimarrebbero celati. E’ inoltre, una enorme soddisfazione e fonte di benessere riconoscersi in ciò che si è fatto, non tanto perché il prodotto finito ha un valore economico, ma perché attraverso la manipolazione, i gesti, il contatto con i materiali, ci si sente liberi di esprimere se stessi e a volte anche i propri disagi. Questo da anche la possibilità, attraverso il lavoro finito, di poter osservare in modo distaccato, sentimenti o emozioni non accettate e sofferte, in modo da poterne prendere le distanze, comprenderle meglio ed anche elaborarle.L’intervento di arteterapia è dunque un momento attivo in cui la persona è protagonista di quanto sta avvenendo, ed è necessario che il setting in cui si sta svolgendo tale attività sia adeguato alla situazione, cioè ci sia un clima di rilassamento e tranquillità. L’arteterapia si svolge prevalentemente in un setting dotato di materiali informi a basso costo e di spazi ampi e sicuri per consentire la libertà dei movimenti,che sono del corpo espressione non verbale. Per questa ragione alcuni esercizi preliminari di significato psicomotorio possono precedere le sedute di espressione figurativa o musicale o quant’altro. Generalmente il terapista non fa consegne particolari,nè suggerisce il tema:ma dà la consegna di non usare la parola,la voce sì,ma la parola no. L’abbigliamento deve essere informale e deve potersi sporcare,le scarpe si devono poter togliere con facilità e si deve poter camminare scalzi senza preoccupazioni. Per quanto riguarda poi i temi e i contenuti dell’opera, essi non sono mai dati precisamente dal terapeuta, per non limitare l’espressione, artistica e non, del soggetto.E’, inoltre, importante la relazione con il terapeuta, che deve creare il contesto relazionale più adatto, in cui il soggetto possa lasciarsi andare e sentirsi protetto e al sicuro.

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Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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FOBIA: IL CASO DEL PICCOLO HANS

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Il “caso del piccolo Hans” rappresenta un’ interpretazione psicodinamica di una fobia oltre ad essere il primo esempio di analisi infantile, seguito da Sigmund Freud attraverso il racconto del padre del bambino. Nel caso del bambino, come nell’adulto, la terapia, secondo Freud e l’approocio psicanalitico, consiste nel permettere l’accesso alla coscienza dei sentimenti, dei desideri istintuali che erano stati rimossi perché ritenuti inaccettabili e quindi che avevano procurato il sintomo fobico.

 

S. Freud, Analisi della fobia di un bambino di cinque anni

Quel pomeriggio padre e figlio erano venuti a consultarmi nel mio studio. Conoscevo già il bricconcello, tutto sicuro di sé ma tanto simpatico che mi faceva sempre piacere vederlo. Non so se si ricordasse di me, ad ogni modo si comportò in modo impeccabile, come un ragionevolissimo membro del consorzio umano. La visita fu breve. Il padre cominciò col dire che, nonostante tutte le spiegazioni, la paura dei cavalli non era diminuita. Dovemmo anche convenire che tra i cavalli, di cui aveva paura, e i moti palesi di tenerezza verso la madre, non c’erano molte relazioni. Ciò che sapevamo non era certo in grado di spiegare i particolari che appresi soltanto allora: che lo infastidiva soprattutto ciò che i cavalli hanno davanti agli occhi e il nero intorno alla loro bocca. Ma mentre guardavo i due seduti davanti a me e ascoltavo la descrizione dei cavalli che incutevano paura, mi venne improvvisamente in mente un altro pezzo della soluzione, tale, come capii, da sfuggire proprio al padre. Chiesi a Hans in tono scherzoso se i suoi cavalli portassero gli occhiali, e il piccino disse di no; poi se il suo papà portasse gli occhiali, e anche questa volta egli negò, nonostante fosse evidente il contrario; gli chiesi ancora se con il nero intorno alla “bocca” non intendesse dire i baffi, e infine gli rivelai che egli aveva paura del suo papà, e proprio perché lui, Hans, voleva tanto bene alla mamma. Credeva che perciò il babbo fosse arrabbiato con lui, ma non era vero, il babbo gli voleva bene lo stesso e lui gli poteva confessare tutto senza paura. Già tanto tempo prima che lui venisse al mondo, io già sapevo che sarebbe nato un piccolo Hans che avrebbe voluto cosí bene alla sua mamma da aver paura, per questo, del babbo, e tutto questo l’avevo raccontato al suo papà. – Come puoi credere che io sia arrabbiato con te? – m’interruppe il padre, – t’ho mai sgridato o picchiato? – Oh sí – lo corresse Hans, – mi hai picchiato. – Non è vero; ma quando? – Questa mattina – rispose il bambino, e il padre si ricordò che al mattino Hans gli si era gettato all’improvviso con la testa contro la pancia e che, quasi automaticamente, egli aveva risposto con uno scappellotto. Fatto singolare, il padre non aveva messo in riferimento questo particolare col contesto della nevrosi; ora però si rese conto ch’esso costituiva un’espressione della disposizione ostile del piccino verso di lui e fors’anche del bisogno di ricevere una punizione per questo.

Ritornando a casa Hans chiese al padre: – Com’è che il professore sapeva già tutto prima? Forse parla col buon Dio? – Sarei straordinariamente fiero di questo riconoscimento per bocca di un bambino, se non l’avessi provocato io stesso con la mia scherzosa vanteria. Dopo quella visita ricevetti quasi ogni giorno ragguagli sulle variazioni dello stato del piccolo paziente. Non ci si poteva aspettare che, grazie alla mia spiegazione, egli si liberasse di colpo delle sue angosce; si vide però che ora gli era offerta la possibilità di portare avanti le sue produzioni inconsce e dipanare la sua fobia. Da quel momento in poi Hans attuò un programma che potei preannunciare al genitore.

“Il 2 aprile si nota il primo reale miglioramento . Finora non era mai stato possibile convincerlo a trattenersi per un po’ di tempo fuori del portone, e quando si avvicinava un cavallo rientrava a precipizio in casa, spaventatissimo; oggi invece è rimasto davanti al portone un’ora, anche quando passava qualche carrozza, il che avviene piuttosto spesso davanti a casa nostra. Qualche volta, vedendo da lontano una carrozza, faceva per correr dentro, ma poi tornava indietro subito, come se ci avesse ripensato. Ad ogni modo, l’angoscia sembra ridotta a un residuo e i progressi avvenuti dopo la spiegazione sono innegabili.

“La sera dice: – Adesso che arriviamo fino davanti al portone, possiamo anche andare al Parco municipale.

“La mattina del 3 aprile viene a letto da me, mentre negli ultimi giorni non era mai venuto e anzi sembrava fiero di questa sua riservatezza. Gli chiedo: – Perché oggi sei venuto?

“Hans: – Quando non ho piú paura non vengo piú.

“Io: – Allora tu vieni da me perché hai paura?

“Hans: – Quando non sto con te, ho paura; quando non sto a letto con te, ho paura, ecco. Quando non avrò piú paura, non vengo piú.

“Io: – Allora tu mi vuoi bene, e la mattina presto a letto hai paura, e perciò vieni da me?

“Hans: – Sí. Perché mi hai detto che io voglio bene alla mamma e che è per questo che ho paura, mentre invece io voglio bene a te?”

Il piccolo è qui straordinariamente esplicito. Egli fa capire che in lui l’amore per il padre è in conflitto con l’ostilità verso il padre, rivale nei confronti della madre, al quale egli fa il rimprovero di non avergli fatto rilevare questo giuoco di forze opposte che doveva trovar sfogo nell’angoscia. Il padre non comprende ancora completamente suo figlio perché, durante questo colloquio, non fa che convincersi della sua ostilità verso di lui, quell’ostilità ch’io gli avevo fatto rilevare nell’ultima visita. Ciò che segue serve in realtà a dimostrare piú i progressi del padre che quelli del figlio; tuttavia lo riferirò senza cambiare nulla.

“Purtroppo non comprendo subito il senso di questa obiezione. Poiché Hans ama la mamma, vuole evidentemente che io non ci sia piú, in modo da mettersi al posto del padre. Questo desiderio ostile represso si tramuta in angoscia per la sorte del padre, sicché egli viene la mattina da me per vedere se ci sono ancora. Questa spiegazione non mi viene purtroppo in mente lí per lí, e gli dico:

“– Quando tu sei solo, è che hai paura per me e allora mi vieni a trovare.

“Hans: – Quando tu sei via, io ho paura che non torni piú a casa.

“Io: – Forse ti ho minacciato qualche volta di non tornare piú?

“Hans: – Tu no, ma mamma sí. La mamma mi ha detto che non ritornava piú a casa – (probabilmente aveva fatto i capricci e la mamma l’aveva minacciato di andarsene).

“Io: – Questo l’ha detto perché tu eri cattivo.

“Hans: – Sí.

“Io: – Tu perciò hai paura che io me ne vada via perché sei stato cattivo, e allora vieni da me.

“Appena fatta colazione mi alzo da tavola e Hans dice: – Papà, perché trotti subito via? – Noto che ha detto ‘trotti’ invece di ‘corri’ e gli rispondo: – Ah, ecco! tu hai paura che il cavallo trotti via – Hans ride.”

Sappiamo che questa parte dell’angoscia di Hans ha due componenti: paura del padre e paura per il padre. La prima proviene dall’ostilità verso il padre, la seconda dal conflitto tra tenerezza, che qui è esagerata per reazione, e ostilità.

Il padre continua: “Questo è senza dubbio l’inizio di una fase importante. Il fatto che il piccolo si azzardi al massimo a uscire dal portone, senza allontanarsi dalla casa, che a metà strada, al primo accesso d’angoscia, ritorni sui suoi passi, è dunque motivato dalla paura di non trovare piú a casa i genitori perché sono andati via. Egli è inchiodato alla casa dal suo amore per la madre, e teme ch’io me ne vada a causa dei desideri ostili (allora, sarebbe lui il padre) che nutre nei miei riguardi.

“La scorsa estate ero solito partire spesso da Gmunden alla volta di Vienna, per motivi di lavoro, e allora era lui il padre. Ricorderò a questo proposito che la paura dei cavalli è legata all’episodio di Gmunden quando un cavallo doveva portare i bagagli di Lizzi alla stazione [p. 499]. Il desiderio rimosso di vedermi andare in carrozza alla stazione, per restare solo con la mamma (il desiderio che ‘il cavallo s’avvii’), si era poi tramutato nell’angoscia di vedere i cavalli avviarsi; e in effetto nulla lo agita di piú che il vedere un carro avviarsi dal cortile del Dazio centrale, sito dirimpetto al nostro appartamento, e i cavalli mettersi in moto.

“Tutta questa parte nuova (malanimo nei confronti del padre) è potuta venire in luce soltanto dopo che il bambino ha appreso che io non ero adirato con lui per il fatto ch’egli vuole tanto bene alla mamma.

“Nel pomeriggio esco nuovamente con lui fuori del portone; va di nuovo davanti alla casa e vi resta anche quando passano le carrozze, ha paura soltanto di certe carrozze e corre dentro al portone. – Non tutti i cavalli bianchi mordono – mi spiega; ciò significa che, in virtú dell’analisi, alcuni cavalli bianchi sono già stati riconosciuti come il ‘babbo’ e quindi non mordono piú, però ce ne sono altri che mordono ancora.

“Ecco ciò che si vede dal portone della nostra casa (fig. 2): dirimpetto c’è il deposito dell’ufficio delle imposte di consumo, con una piattaforma di carico davanti a cui passano continuamente i carri che vengono a caricare casse di merci e simili. Il cortile è recinto da una cancellata che corre lungo la strada. Proprio di fronte al nostro appartamento vi è il cancello d’ingresso al cortile. Ho osservato da alcuni giorni che Hans s’impaurisce in modo particolare quando i XXXXXX

civile inevitabilmente incontra nello sforzo di superare le sue componenti pulsionali innate, dall’altra fece accorrere il padre in suo aiuto. Forse Hans ha ora il vantaggio rispetto agli altri bambini di non recare piú in sé quel germe di complessi rimossi che ha sempre importanza per la vita futura, causando una piú o meno grande deformazione del carattere, se non addirittura la disposizione a una successiva nevrosi. Questo è il parere cui sono incline, ma non so quanti altri condivideranno tale giudizio e non so neppure se l’esperienza mi darà ragione.

Domandiamoci ora: qual danno ha procurato a Hans il portare alla luce in lui complessi solitamente rimossi dai figli e temuti dai genitori? Forse che perciò egli ha seriamente tentato di tradurre in atto le sue pretese verso la madre, o forse che alle cattive intenzioni contro il padre sono subentrati i fatti? Certo, è quello che avranno temuto i molti che, misconoscendo la natura della psicoanalisi, credono che render coscienti le cattive pulsioni significhi renderle piú forti. Queste sagge persone agiscono con coerenza quando ci supplicano per l’amor del cielo di non occuparci delle brutture che si nascondono dietro le nevrosi. Ma, cosí facendo, essi dimenticano di esser medici e vengono fatalmente a rassomigliare al Sanguinello shakespeariano in Molto rumore per nulla , che consiglia alla ronda di tenersi lontana da ogni contatto con i ladri che incontrasse per via. “Con gente di quella specie, meno che ci vi immischiate o avete a che fare, meglio è per la vostra onestà.”

Al contrario, le uniche conseguenze dell’analisi sono che Hans guarisce, che non ha piú paura dei cavalli e che assume una specie di tono cameratesco con il padre, come questi ci riferisce divertito. Ma quel che il padre perde in rispetto lo riacquista in fiducia: “Credevo che tu sapessi tutto, perché hai saputo la cosa del cavallo.” L’analisi non annulla l’effetto della rimozione; le pulsioni precedentemente represse restano represse; ma essa ottiene lo stesso effetto per altra via, sostituendo al processo della rimozione, che è automatico ed eccessivo, il graduale dominio temperato e adeguato conseguito con l’aiuto delle massime istanze psichiche, in una parola: sostituendo alla rimozione la condanna . Ciò sembra darci la prova, da tempo cercata, del fatto che la coscienza – l’essere coscienti – ha una funzione biologica, e che il suo avvento implica un importante vantaggio. [ Nota aggiunta nel 1923 : La parola “coscienza” è qui usata in un senso in cui l’ho poi evitata, ossia nel senso del nostro normale concepir pensieri ammissibili alla coscienza. Noi sappiamo che tali processi di pensiero possono anche svolgersi preconsciamente , e faremo bene a considerare il loro “essere coscienti” da un punto di vista puramente fenomenico. Ciò non vuol dire, naturalmente, che anche il divenir cosciente in tal senso fenomenico non adempia una funzione biologica].

Se la cosa fosse dipesa soltanto da me avrei osato dare al bambino anche una spiegazione che i genitori ritennero di ricusargli. Avrei confermato i suoi presentimenti istintivi rivelandogli l’esistenza della vagina e del coito, e in tal modo avrei ulteriormente ridotto i suoi residui insoluti e messo fine al suo torrente di domande. Sono convinto che non ne avrebbero sofferto né il suo amore per la mamma né la sua natura di bimbo e che avrebbe compreso egli stesso che, per occuparsi di queste importanti, anzi imponenti questioni, avrebbe dovuto attendere in pace che si fosse adempiuto il suo desiderio di diventare grande. Ma l’esperimento pedagogico non fu condotto cosí a fondo.

(S. Freud, Opere , Boringhieri, Torino, 1989, vol. V, pagg. 508-511, 587-589)

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

 

TIMIDEZZA E/O FOBIA SOCIALE

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Sappiamo ciò che siamo ma non quello che potremmo essere. (William Shakespeare)

 

Come l’aforisma di Shakespeare il timido sa di esserlo ma non sa quello che potrebbe essere senza la timidezza che lo blocca. Ma passiamo a parlare di quest’ultima.

La timidezza è facilmente individuabile perché le principali manifestazioni, attivate dal sistema nervoso periferico, sono: rossore in viso, battito cardiaco accelerato, sudorazione, tremore, bocca asciutta, mal di stomaco nausea ansia, variando in modo differente da individuo a individuo.
Inoltre, spesso, a livello comportamentale, la persona timida:

  • cerca di evitare il contatto visivo durante uno scambio verbale;
  • presenta una certa rigidità nella forma del comportamento sociale che si manifesta con comportamenti molto formali, che seguono l’etichetta;
  • adotta un controllo rigido delle proprie reazioni emotive;
  • ha riluttanza a dialogare, proprio perché teme di sentirsi al centro dell’attenzione;
  • ha la netta convinzione che i contenuti dei suoi discorsi siano poco interessanti.

Tutto questo lo conduce ad avere scarne relazioni sociali , poiché qualsiasi situazione esterna che lo faccia sentire al centro dell’attenzione, viene evitata
A tutto ciò il timido può adottare due stili comportamentali opposti: sottomissione o aggressività. Il timido è il più delle volte una persona che arrossisce sempre e chiede in continuazione scusa, ma può essere una persona timida anche chi è deliberatamente provocatore o fa la parte del simpaticone, amico di tutti. In questi ultimi due casi tali comportamenti servono per reagire al proprio senso di inadeguatezza e insicurezza, mascherandoli con spavalderia e spacconeria.
Nel timido si hanno anche modalità di pensiero abituali, conseguenza dei comportamenti sopraccitati. Egli ha la ferma convinzione che qualsiasi cosa faccia, gli occhi di tutti sono puntati su di lui e pronti a giudicarlo negativamente. Questa convinzione, talvolta, può diventare una vera e propria ossessione di non riuscire in prestazioni eccezionali e conseguentemente fare pessime figure e sentirsi giudicato inadeguato.
Il timido può anche trasformarsi in casa. Adottando un comportamento compensatorio della sua timidezza esterna, egli può assumere dei comportamenti autoritari, a volte prepotenti, contribuendo, così, anche in casa, ad impoverire le proprie relazioni sociali.
Molti autori attribuiscono l’ origine della timidezza ad un blocco psicologico che si stabilisce in seguito a dei condizionamenti ambientali.
Se per esempio un bambino viene continuamente rimproverato per dei comportamenti ritenuti dai suoi genitori sbagliati, tali comportamenti tenderanno ad essere repressi in seguito, anche da adulto. Nello stesso modo anche l’aver ricevuto poco amore e poche attenzioni, se non rifiuto e indifferenza, può causare, paura di non piacere agli altri e senso di inadeguatezza e insicurezza. Al contrario invece, chi ha potuto sperimentare da piccolo, protezione, sicurezza e calore affettivo, ha potuto costruire una personalità forte e stabile. Queste cause della timidezza, però, non valgono sempre. Può capitare che anche chi ha ricevuto affetto e attenzioni potrebbe diventare timido. I genitori eccessivamente protettivi che cercano di evitare la minima sofferenza ed eliminare ogni più piccolo ostacolo dalla strada del loro figlio, rischiano di applicare un modello diseducativo, che non permette al giovane di sviluppare quelle difese personali alle quali farà ricorso nel procedere della sua vita. Senza l’apporto dei suoi genitori si sentirà fragile, impotente e senza risorse.
La timidezza si presenta in particolar modo nel periodo adolescenziale, quando si verifica un totale cambiamento a livello fisico e un disorientamento della propria identità a livello psicologico. L’adolescente si sente spesso insicuro perché non si riconosce nel suo nuovo corpo che si sta formando. Questa insicurezza viene generalizzata a tutti i campi e spesso si fa fatica a trovare un proprio posto dove poter star bene. Per molti è solo una fase di passaggio, per altri può diventare un carattere permanente.

Utile si rivela mettere in ordine di “gravità” le situazioni che sono più difficili per la proprio timidezza. Si partirà dalle meno “gravi” fino alle più “gravi”. Poi si inizieranno ad affrontarle nello stesso ordine. Man mano che si sarà superata una si passerà alla successiva. Occorrerà pazienza, impegno e determinazione. Gli insuccessi all’inizio saranno probabili, ma non debbono essere di scoraggiamento, ma di stimolo ad aumentare pazienza, impegno e determinazione.

La timidezza può essere anche patologica: in questo caso diventa Fobia Sociale

Secondo il DSM-IV-TR*, i Criteri Diagnostici per la Fobia Sociale sono i seguenti:

  1. Paura marcata e persistente di una o più situazioni sociali o prestazionali nelle quali la persona è esposta a persone non familiari o al possibile giudizio degli altri. L’individuo teme di agire (o di mostrare sintomi di ansia) in modo umiliante o imbarazzante.
    Nota: Nei bambini deve essere evidente la capacità di stabilire rapporti sociali appropriati all’età con persone familiari e l’ansia deve manifestarsi con i coetanei, e non solo nell’interazione con gli adulti.
  2. L’esposizione alla situazione temuta quasi invariabilmente provoca l’ansia, che può assumere le caratteristiche di un Attacco di Panico causato dalla situazione o sensibile alla situazione.
    Nota: Nei bambini, l’ansia può essere espressa piangendo, con scoppi di ira, con l’irrigidimento, o con l’evitamento delle situazioni sociali con persone non familiari.
  3. La persona riconosce che la paura è eccessiva o irragionevole.
    Nota: Nei bambini questa caratteristica può essere assente.
  4. Le situazioni sociali o prestazionali temute sono evitate o sopportate con intensa ansia o disagio.
  5. L’evitamento, l’ansia anticipatoria o il disagio nella/e situazione/i sociale/i o prestazionale/i interferiscono significativamente con le abitudini normali della persona, con il funzionamento lavorativo (scolastico) o con le attività o relazioni sociali, oppure è presente marcato disagio per il fatto di avere la fobia.
  6. Negli individui al di sotto dei 18 anni la durata è di almeno 6 mesi.
  7. La paura o l’evitamento non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es., una droga di abuso, un farmaco) o di una condizione medica generale, e non sono meglio giustificati da un altro disturbo mentale (per es., Disturbo di Panico Con Agorafobia o Senza Agorafobia , Disturbo d’Ansia di Separazione , Disturbo da Dismorfismo Corporeo , un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo o il Disturbo Schizoide di Personalità ).
  8. Se sono presenti una condizione medica generale o un altro disturbo mentale, la paura di cui al Criterio A non è ad essi correlabile, per es., la paura non riguarda la Balbuzie , il tremore nella malattia di Parkinson o il mostrare un comportamento alimentare abnorme nell’ Anoressia Nervosa o nella Bulimia Nervosa .

Specificare se:

Generalizzata: se le paure includono la maggior parte delle situazioni sociali (prendere in considerazione anche la diagnosi addizionale di Disturbo Evitante di Personalità ).

* American Psychiatric Association (2000). DSM-IV-TR Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders , Fourth Edition, Text Revision. Edizione Italiana: Masson, Milano.

Libro Consigliato: A viso aperto di Nicola Ghezzani, Franco Angeli Editore (PresentazioneCopertina)

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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DISMORFISMO CORPOREO: DISMORFOFOBIA

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Sono geloso di tutte le cose la cui bellezza non muore. Sono geloso del ritratto che mi hai fatto. Perché deve conservare quello che io dovrò perdere? A me ogni momento che passa toglie qualche cosa, a esso aggiunge qualcosa. Oh, se fosse il contrario! Se il ritratto potesse cambiare ed io potessi esser sempre quello che sono adesso! Perché l’hai dipinto? Verrà un giorno nel quale mi schernirà, mi schernirà orribilmente. (O.Wilde, Ritratto di Dorian Gray)

Dismorfismo Corporeo (ex Dismorfofobia)
Criteri diagnostici utilizzati dall DSM-IV, per una valutazione della presenza di un disturbo da dismorfismo:

A) preoccupazione per un supposto difetto nell’aspetto fisico. Se è presente una piccola anomalia, l’importanza che la persona le dà è di gran lunga eccessiva.

B) la preoccupazione causa disagio clinicamente significativo oppure menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti.

C) la preoccupazione non risulta meglio attribuibile ad un altro disturbo mentale (l’insoddisfazione riguardante la forma e le misure corporee nell’anoressia nervosa).

Il dismorfismo è una patologia psichiatrica che altera la percezione mentale deformando l’immagine del proprio corpo. Ci si guarda allo specchio e ci si vede mostruosi, orribili, una maschera deforme con rughe profondissime che solcano il volto. I capelli diradati come quello di un vecchio decrepito, gli occhi spenti, il viso incavato in un’espressione di sofferenza e di morte. La notizia ha fatto scalpore perché ha coinvolto la bella Danielle Nulty, 26 anni, fisico da modella, ammirata da tutti, meno che da se stessa. Affetta da questa malattia fin dalla pubertà, la bella che si guardava allo specchio si trasformava in bestia deforme. Undici anni d’inferno, fra deliri e allucinazioni, con relativi pensieri di suicidio, fino al riconoscimento della patologia e la cura con antidepressivi. Oggi Danielle sta meglio, è ritornata ad una vita normale, sebbene dovrà imparare a convivere con questo male subdolo, un po’ come succede per le anoressie e i disturbi mentali. La storia, per fortuna a lieto fine, nasconde un paradosso: questa ragazza bellissima, condannata, come da un malefico sortilegio, a vedersi orribilmente sfigurata, ha finito per incarnare, suo malgrado, un modello di perfezione estetica, un punto di riferimento per altre teenager, che a loro volta non si vedono belle e rifiutano un rapporto equilibrato col loro corpo. Perché in questa società dell’effimero conta l’apparire più che l’essere, lo specchio deformante che gli altri riflettono su di noi.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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AEROFOBIA O PAURA DI VOLARE

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L’aerofobia è collocata fra le fobie specifiche

Per FOBIA si intende una paura intensa, non realistica e sproporzionata rispetto ad una valutazione oggettiva del pericolo insito in un determinato oggetto, luogo o situazione.

Esiste la paura di alcuni animali o insetti, dei luoghi chiusi o troppo aperti, del sangue, delle tempeste, dell’acqua, ecc.

Essa determina un disagio molto profondo, sia per l’intensità dell’ansia che può arrivare sino al panico (considerabile un’ansia molto acuta), sia perché il soggetto è costretto a sconvolgere la sua vita quotidiana per evitare in qualsiasi situazione lo stimolo fobico.

L’AEROFOBIA, o paura di volare (fear of flying), è molto diffusa sia tra chi è costretto a viaggiare spesso in aereo, sia tra chi non ha mai volato e può manifestarsi con diversi livelli di intensità, dal lieve disagio sperimentato prima o durante il volo all’ansia acuta che impedisce di affrontarlo o lo rende un’esperienza terribile per l’individuo.

I sintomi si presentano in maniera più intensa prima dell’imbarco ed in alcune fasi particolari del volo vissute come “più problematiche” come il decollo, l’atterraggio o in caso di turbolenze, temporali o forte vento. Tutte le fasi del volo possono, comunque, essere vissute con ansia.

In base a recenti sondaggi in Italia tra le persone che hanno volato almeno una volta (37% della popolazione) il 33% dichiara di avere paura ed il 10% assicura che non volerà mai più. Aggiungendo a queste percentuali quelle di chi vola abitualmente ma con difficoltà e di chi teme il volo pur non avendo mai volato, la parte di popolazione che vive l’aereo con più o meno disagio si aggira attorno al 50%. Personaggi famosi come Mara Venier, Adriano Celentano, Cher, Meg Ryan e tanti altri ne sono affetti

Si presenta, generalmente, con i seguenti sintomi:

  • senso di oppressione,
  • vertigini,
  • disturbi alla vista,
  • tremori,
  • paura di morire o d’impazzire,
  • tachicardia,
  • difficoltà a respirare
  • altri…

L’intervento piu’ efficace sulla paura di volare è strutturato sulla base di uno specifico modello teorico che cerca di far luce sulla personalità umana, sul suo sviluppo, sul perché in alcuni casi insorgano dei disturbi psicologici, sul come fare per vincerli; si tratta dell’APPROCCIO COGNITIVO-COMPORTAMENTALE, nato in America all’inizio degli anni ’60.

Secondo tale prospettiva esiste una stretta connessione tra i pensieri, le emozioni ed i comportamenti dell’uomo; ciò significa che ogni stato emotivo, ogni nostro comportamento dipende da quello che pensiamo della situazione in cui ci troviamo. Un pensiero quale: “Mi trovo insieme a persone che mi amano e mi proteggono” provocherà nell’individuo emozioni positive, quali la gioia, la tranquillità e stimolerà comportamenti come il sorriso o il gioco; il pensare “Morirò, non ce la farò a fare ciò” darà luogo viceversa ad emozioni negative quali ansia, rabbia, tristezza e a comportamenti quali il pianto o l’irrigidimento muscolare.

Gli stati emotivi sperimentati da chi ha paura di volare possono essere attribuiti a dei pensieri assolutamente irrazionali sulle dinamiche del volo o su alcune situazioni vissute come particolarmente pericolose.

TIPOLOGIA DELL’AEROFOBICO

Nello sviluppo della “ORGANIZZAZIONE DI PERSONALITA’ FOBICA”, dunque, la modalità di per se stessa adattativa di richiesta di protezione attraverso il comportamento di paura determina l’instaurarsi di una relazione reciproca tra bambino e genitori di tipo estremamente ansioso; si ha così una prolungata necessità di aiuto e di vicinanza che blocca le attività esploratorie del bambino e lo sviluppo della sicurezza di sé.

In età adulta il controllo dei pericoli dall’essere demandato alle figure genitoriali, diviene gradualmente una prerogativa personale.

L’atteggiamento che il soggetto ha verso se stesso è complessivamente positivo; egli infatti, pur percependosi spesso debole e vulnerabile fisicamente o mentalmente, è dotato solitamente di una buona autostima e di un buon senso di amabilità personale, che risultano però subordinati alla capacità di tenere sotto controllo tutte le situazioni e le persone vissute come sicure e fidate, perché lo conoscono, lo accettano e possono aiutarlo in caso di necessità.

La facilità a stabilire conoscenze, l’apparente sicurezza ed estroversione nascondono un’accurata ed attenta selezione, poiché le situazioni o le persone sconosciute nascondono sempre possibili pericoli.

Per prevenirli è necessario conoscere perfettamente tutto ciò che l’individuo si appresta ad affrontare, anticipare tutti gli eventuali imprevisti, prevedere il ruolo di ogni possibile variabile.

Al controllo delle situazioni esterne si aggiunge quello delle manifestazioni interiori, degli stati emotivi, con lo scopo sia di evitare sensazioni nuove o improvvise che, anche per la difficoltà nel riconoscerle, risultano sgradevoli, allarmanti, e rischiano di far perdere il controllo, sia per nascondere agli altri le proprie debolezze, dal momento che potrebbero approfittarne.

Risulta probabilmente adesso più chiaro come il volo possa rappresentare per chi possiede dei simili tratti di personalità un’esperienza molto difficile da affrontare.

Si tratta, infatti, di una situazione in cui il soggetto si trova costretto a mettere la propria integrità fisica completamente in mano ad una persona sconosciuta (il pilota), della quale non ha la possibilità di verificare la competenza e l’affidabilità; egli inoltre non possiede nozioni sulla dinamica del volo, per cui non è assolutamente in grado di esercitare il minimo controllo su ciò che avviene, di anticipare gli eventi, di valutare la gravità di situazioni inattese che potrebbero verificarsi, come un rumore improvviso, la presenza di vento o di nebbia.

Non ultimo, le diverse fasi del volo possono provocare sensazioni fisiche nuove ed inattese che, seppure innocue, possono risultare inspiegabili e provocare ansia, timore di perdere il controllo sulle proprie reazioni corporee.

I contenuti specifici della paura di volare variano molto da soggetto a soggetto, ma ci sono delle situazioni che si possono ritenere comunemente più temute di altre. Tra queste troviamo i momenti del decollo, dell’atterraggio, e la presenza di turbolenze o di cattive condizioni atmosferiche; queste vengono vissute come fasi molto pericolose del volo, in cui si pensa che sia più probabile il verificarsi di un qualunque incidente e i rumori, gli scossoni vengono avvertiti molto intensamente. Altri aspetti del volo che generalmente provocano disagio sono il fatto di trovarsi intrappolati, chiusi nello spazio ristretto dell’aereo, di non poter quindi uscire in caso di intenso malessere e di non poterlo inoltre nascondere alle altre persone delle quali non è possibile eludere la presenza. Ancora, dell’esperienza del volo possono provocare timore la rapidità del mezzo, l’altezza, la sensazione di vuoto, il pensiero dell’ineluttabilità della morte in caso di incidente. Quando viaggia in aereo, inoltre, l’individuo sembra avere il senso, più che con qualsiasi altro mezzo di trasporto, di un’esperienza di “separazione”, dato che vi è un distacco estremamente rapido e repentino dalla propria realtà e dai propri cari; ci si lascia velocemente alle spalle un mondo rassicurante per proiettarsi verso un futuro sconosciuto e minaccioso, quale è quello dell’immaginario fobico. Quando affronta un viaggio in aereo il soggetto deve quindi anche fare i conti con la sua capacità di vivere l’esperienza della separazione e con l’ansia ad essa collegata. E’ per questo motivo che il momento dell’atterraggio, del ritorno al contatto con la terra, con la realtà conosciuta, seppure vissuto come pericoloso, suscita generalmente meno ansie di quello del decollo che rappresenterebbe il distacco da ciò che ci dà sicurezza e l’inizio del viaggio verso l’incerto.

SOSTITUIRE LA PAURA DELLA NON CONOSCENZA CON LA FIDUCIA DELLA CONOSCENZA

L’obiettivo che vi proponiamo è quello di acquisire gli strumenti necessari per STRUTTURARE in modo piu’ equilibrato sia la PAURA , sia l’esperienza del VOLO.

Che cosa significa? Sappiamo che l’uomo ha la necessità per poter vivere di dare un senso alla realtà che lo circonda, di selezionare ed organizzare in modo significativo e funzionale allo svolgimento delle sue attività gli innumerevoli stimoli provenienti dall’ambiente; in tal modo si crea una struttura di conoscenza che gli consente di orientarsi nel mondo, di agire, di prevedere gli eventi e farvi fronte.

Abbiamo visto come questa fondamentale esigenza che appartiene ad ogni essere umano risulta particolarmente forte in alcuni soggetti che presentano alcuni specifici tratti di personalità cosiddetti “fobici”; perché essi possano affrontare senza eccessiva ansia una qualsiasi esperienza questa deve possedere le caratteristiche della familiarità, della prevedibilità, della controllabilità.

Quello che vi proponiamo è, quindi, un insieme di informazioni con lo scopo di facilitare il crearsi di una struttura di conoscenza che renda maggiormente comprensibili sia l’esperienza della paura che quella del volo.

La paura viene generalmente vissuta da chi presenta un disturbo fobico come uno stato emotivo totalmente irrazionale ed ingiustificato; ciò che intendiamo mostrare è come questo non sia affatto vero e come essa invece abbia un suo importante significato non relativamente allo stimolo che direttamente la scatena (in questo caso il volo), ma in connessione col particolare modo che il soggetto ha di interpretare il mondo e, quindi, la situazione che sta vivendo.

Se prevedete la situazione in modo positivo essa risulterà positiva. Avrete ansia perche’ non conoscete l’esperienza del volo, ma riuscirete comunque ad affrontarla come tutte le altre situazioni che avete affrontato in passato; e lo farete al meglio perche’ avete come corredo genetico la capacita’ di affrontare e risolvere le situazioni problematiche. Tutto quello che dovete fare e’ impegnarvi a pensare nel miglior modo possibile, perche’ se non fate nulla, se cioè non costruite cioe’ attivamente situazioni che vi fanno provare piu’ ansia del normale, riuscirete facilmente a portare a termine il compito che vi siete prefissati. Siamo nati per sopravvivere per cui non attueremo mai comportamenti lesivi per noi o per gli altri e non proveremo emozioni sgradevoli se non ci mettiamo attivamente a stimolarci pensieri catastrofici.

Vi verranno presentate delle specifiche tecniche di tipo cognitivo-comportamentale funzionali alla gestione della paura e dell’ansia che serviranno per farvi comprendere meglio come gestire la situazione del volo.

Per quanto riguarda l’aereo poi vi proponiamo dettagliate informazioni tecniche sulle dinamiche del volo e su tutto ciò che lo circonda, come il funzionamento del controllo del traffico aereo, la gestione delle eventuali turbolenze durante il viaggio, ecc..; lo scopo è quello di rendere questa esperienza il più familiare e prevedibile possibile e quindi probabilmente molto meno ansiogena.

In questa fase cercheremo anche di sconfermare quelle vostre convinzioni irrazionali circa il volo (quale ad esempio la credenza di essere più in pericolo quanto più si è in alto e si procede velocemente, mentre in realtà è vero esattamente il contrario) cui facevamo riferimento nel seconda sezione di questa presentazione e che, come abbiamo visto, sono responsabili delle nostre emozioni più invalidanti.

RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA

E’ necessario che impariate a focalizzare l’attenzione sui pensieri automatici ed illogici relativi all’esperienza di volare che invadono la vostra mente e vi spaventano. Una modalità utile per aiutarsi a farlo è quella di appuntarli sul DIARIO DEI PENSIERI IRRAZIONALI, qui allegato, proprio nel momento in cui vi assalgono, in qualsiasi ora del giorno ed in qualsiasi luogo vi troviate, a casa o a lavoro. E’ quello che vi chiederemo di fare durante il corso, tra la fase teorica e quella pratica. Nel giorno e nelle ore precedenti al volo tali pensieri non mancheranno di presentarsi con tutta la loro forza; la fase più critica è generalmente quella che precede l’arrivo all’aeroporto e l’imbarco, mentre già dal momento in cui si sale sull’aereo l’ansia inizia a decrescere. Quello che pensate della situazione in cui vi trovate vi fa provare emozioni che sono in relazione diretta con i vostri pensieri. Andrete all’aereoporto molto tesi e, a casa, pensando in modo negativo a quello che vi succedera’ vi stimolerete ansia; nel vostro posto piu’ rassicurante, se penserete a situazioni negative, sarete piu’ ansiosi che in qualsiasi altro posto. Andando all’aereoporto la vostra ansia crescera’ fino a che, nel momento in cui vi renderete conto dell’ambiente e comincerete a conoscere quello di cui temete, l’ansia calera’. Riaumentera’ nel momento in cui entrerete nell’aereo ma subito dopo, mentre siete dentro l’azione che piu’ temete, vi accorgerete che l’ansia decrescera’ fino a non esserci quasi per nulla pochi minuti dopo il decollo.

Questo metodo ci aiuterà ad individuarli per darci poi la possibilità di criticarli e fronteggiarli insieme prima di volare.

Vi si richiede di annotare una serie di informazioni relative ad ogni singolo pensiero di questo tipo che vi viene in mente: il momento del giorno ed il luogo in cui vi trovate, ciò che state facendo e quali sentimenti provate, la natura esatta del pensiero, le vostre reazioni ad esso, le tecniche impiegate per eliminarlo ed i risultati che riuscite ad ottenere.

Portate con voi il Diario compilato il giorno della fase pratica, in modo da poterne discutere in gruppo prima di affrontare il volo.

Diario dei pensieri irrazionali

Descrivi in dettaglio che cosa èsuccesso quando un qualche pensiero irrazionale sul volo ti èvenuto in mente PENSIERI ALTERNATIVI

Quali altri pensieri puoi proporti per stare meglio?

CHE COSA HAI FATTO?

Annota tutte le tue reazioni al pensiero

SENTIMENTI

Che cosa stavi provando?

QUALE PENSIERO TI E’ VENUTO IN MENTE?

ATTIVITA’

Che cosa stavi facendo?

LUOGO

Dove ti trovavi?

TEMPO

In che momento della giornata?

ARRESTO DEL PENSIERO

E’ importante che acquisiate una pratica sempre maggiore nel riconoscere i pensieri automatici negativi ed irrazionali riguardo le pratiche di volo che vi rendono ansiosi. A questo punto imparerete, con un po’ di pratica, ad intervenire su di essi bloccandoli con irruenza ed a sostituirli con pensieri di calma e di serenità.

Dovrete solo dire fermamente “basta” a voi stessi.

In alcuni casi, per facilitare la comprensione e l’acquisizione di questa tecnica, viene utilizzato come esempio un elastico con cui ci si colpisce il polso, con lo scopo di provocarsi un dolore momentaneo piuttosto acuto che blocca i pensieri d’ansia per qualche secondo. Un’attivita’ di distrazione qualsiasi puo’ interrompere il flusso deipensieri terrorizzanti in qualsiasi momento: dovrete essere piuttosto duri e fermi con voi stessi per arrestare i pensieri negativi.

Appena riuscirete a comprendere ciò, dovrete provare immediatamente a pensare a qualcosa di completamente diverso e piacevole che stabiliremo insieme; questo avrà come effetto una notevole diminuzione della tensione ed indurrà in voi uno stato di calma e di tranquillità.

Una volta appresa in modo adeguato, questa tecnica potrà essere utilizzata nella fase pratica, durante il volo, per ridurre l’ansia.

TECNICHE IMMAGINATIVE

Altre tecniche molto utilizzate per tentare di gestire i pensieri negativi implicano l’uso dell’immaginazione, sia in senso positivo che negativo.

Nel primo caso si tratta di imparare a concentrare la propria attenzione su certi eventi piacevoli, immaginandoli con il maggior numero di dettagli ed in modo più realistico possibile; questo esercizio produce emozioni positive che costituiscono un efficace strumento per combattere l’ansia nei momenti in cui essa vi assale.

Nel secondo caso è necessario organizzare un momento giornaliero di preoccupazione: stabilirete ad esempio una mezz’ora nell’arco della giornata durante la quale vi obbligherete a pensare a ciò che vi preoccupa circa l’esperienza di volare; ciò vi metterà in grado per tutto il resto del tempo di evitare i pensieri negativi demandandoli al momento specifico ad essi deputato.

Esempi di possibili Pensieri Negativi sul volo:

– “Durante il viaggio il motore potrebbe rompersi e l’aereo cadere in picchiata.”

– “In caso di nebbia o scarsa visibilità l’aereo potrebbe andare a sbattere contro una montagna o contro un altro aereo.”

– “Se durante il volo fossi colto da un attacco d’ansia non potrei scappare e sarei costretto a manifestarlo davanti a tutti gli altri passeggeri, facendo una figura terribile.”

– “La mia ansia potrebbe raggiungere un livello tale da provocarmi un infarto.

ESERCIZIO DELL’OBSTACLE GUIDANCE

Abbiamo sottolineato in precedenza la difficoltà che chi teme il volo ha nel dare fiducia a persone che non conosce perfettamente, nello specifico il pilota dell’aereo, anche se riconosciute come abili e competenti.

La tecnica che proponiamo è finalizzata ad accrescere la vostra capacità di affidarvi agli altri, se ritenuti capaci e degni di fiducia, e di lasciarvi guidare passivamente, quindi senza la minima possibilità di controllo, attraverso luoghi sconosciuti.

Uno dei partecipanti sceglie tra gli altri la persona che gli dà più sicurezza e le chiede di bendarlo; nella fase iniziale questa lo conduce attraverso la stanza nella quale si trovano descrivendo in ogni istante, molto dettagliatamente e preventivamente, il percorso che stanno seguendo e gli oggetti che incontrano.

Questo esercizio dovrà essere ripetuto più volte finchè il soggetto non si sente sufficientemente rilassato per poter passare alla fase successiva.

Nel secondo stadio la coppia percorre lo stesso tragitto precedente ma in assoluto silenzio, semplicemente con la mano della guida appoggiata sulla spalla o sul braccio dell’altro; anche in questo caso si attende che il soggetto superi l’ansia e raggiunga uno stato di calma.

La terza fase dell’esercizio prevede che si affrontino nuove stanze che la persona bendata non conosce e che la guida descrive minuziosamente mentre le percorre. Nello stadio finale il soggetto si lascia dirigere attraverso percorsi sconosciuti senza alcun supporto verbale da parte del suo compagno, al quale si affida completamente.

Nell’ambito del corso tutti, a turno, sperimenterete questa tecnica; essa contribuirà ad allentare le vostre difese, la vostra necessità di esercitare un controllo su qualsiasi situazione, vi mostrerà come a volte sia possibile ed utile affidarsi ad altre persone, che in determinate situazioni, come quella di pilotare un aereo, sono sicuramente più capaci e competenti di noi.

Utili sono anche le Tecniche di Rilassamento a cui vi rimando.

Invito anche a leggere la Terapia Razionale Emotiva

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

per contatti e consulenze private tel.320-8573502 email:cavalierer@iltuopsicologo.it

EMETOFOBIA

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L’emetofobia è la paura di vomitare causata prevalentemente dall’incapacità di dominare e prevedere i propri conati. Alla base di questa fobia vi è il timore della perdita di controllo e dell’ansia di non sapere le conseguenze che avrà un senso di nausea provato.

Esistono due categorie di soggetti emetofobi:

1 Quelli che hanno paura di vomitare

2 Quelli che hanno paura di vedere gli altri vomitare (molto più rari).

Un’ulteriore suddivisione degli emotofobi è:

Quelli con ansia-prevenuta che soffrono di un disturbo d’ansia, spesso accompagnato da attacchi di panico e da una moderata agorafobia. In questo gruppo di emetofobi, l’ansia porta a provare un senso di nausea, che di conseguenza induce maggiore ansia.

Quelli con nausea-prevenuta che hanno malattie che possono causare la nausea ( ad esempio, il mal di mare). Questo fa scattare una reazione fobica alla nausea che porta ansietà e può portare altri sintomi, come maggiore nausea.

L’inizio dell’insorgenza di tale fobia è generalmente in età adolescenziale ed i genitori che conoscono poco del vomito , spesso, non riuscendo a fornire spiegazioni e rassicurazioni su tale fenomeno contribuiscono a rafforzare tale fobia.

Circa le cause non se ne sono trovate di specifiche. Possibili cause potrebbero essere:

•  esperienze di abuso nell’infanzia,

•  brutte esperienze di vomito, quali ad esempio l’ingestione di cibo contaminato .

Spesso il soggetto è colto da crisi in momenti nei quali può rivelarsi difficile o imbarazzante isolarsi dalle persone a lui vicine (es.: allo stadio, al cinema o più semplicemente a casa di amici). Nella stragrande maggioranza dei casi, gli attacchi di panico che seguono la paura di dover vomitare sono del tutto ingiustificati e non si risolvono quasi mai con effettivo vomito.

Il soggetto affetto da questa fobia può provare senso di nausea anche per periodi molto più lunghi rispetto alla norma pur non avendo alcuna effettiva patologia fisica.

Spesso gli emetofobi sviluppano una vera e propria “resistenza psicologica” al vomito che impedisce loro di rimettere anche quando la cosa gioverebbe realmente all’organismo.

Sebbene alcuni emetofobici soffrano o abbiano sofferto in passato di anoressia nervosa, la correlazione di questa sindrome con un disturbo alimentare è quasi sempre errata perché nella maggioranza dei casi è solo la paura di vomitare a produrre restrizioni alimentari, con conseguente sottopeso.

La psicoterapia consigliata prevede inizialmente un approccio analitico volto alla ricerca di possibili cause ed un approccio cognitivo-comportamentale volto al controllo e riduzione della fobia stessa.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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CLAUSTROFOBIA

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La claustrofobia è sicuramente una delle fobie più diffuse. Essa è la paura di luoghi chiusi o troppo affollati, come ascensori, gallerie, cinema, metropolitane… Le persone che soffrono di claustrofobia manifestano malessere, sensazione di soffocamento, oppressione, e hanno l’impressione di essere rinchiusi o imprigionati ogni qual volta sono esposti alla situazione fobica.
La claustrofobia e l’agorafobia sono considerati due facce della stessa medaglia in quanto le situazioni che spaventano sono simili, ma con la motivazione sottostante differente: l’agorafobico ha timore dell’attacco di panico, di non poter essere soccorso in caso di malessere e apprezza di essere accompagnato e rassicurato da una persona di fiducia, il claustrofobico si sente soffocare se attorno a sé non ha uno spazio da lui considerato sufficientemente ampio. Il claustrofobico e l’agorafobico hanno strutture di personalità opposte: il primo è in genere una persona autonoma, ama avere i propri spazi, la propria indipendenza, è infastidito da chi si preoccupa per lui, mentre l’agorafobico in genere è una persona passiva e dipendente che ha bisogno di qualcuno che si occupi di lui, ama i legami stabili.
Le persone con claustrofobia sono costrette a impostare le scelte di vita e la quotidianità in relazione al loro disturbo d’ansia e mettono in atto condotte di evitamento nei confronti della situazione ansiogena. In genere prediligono mansioni da svolgere all’aperto, che garantiscano una discreta dinamicità, mentre soffrono a eseguire lavori sedentari all’interno di una struttura. Quando sono in casa, amano stare con le porte delle stanze spalancate, non riescono a dormire con la porta della camera da letto chiusa e, in alcuni casi, esigono che le finestre stiano aperte, anche in inverno per avere la garanzia che circoli sufficiente aria. Possono sentirsi soffocati da persone troppo opprimenti e questo si ripercuote anche nei legami affettivi.
L’agorafobico può diventare claustrofobico per reazione, ovvero, magari inconsapevolmente, si sforza di superare le sue paure esponendosi talmente a situazioni ansiogene che lo portano a sviluppare il disturbo opposto!

Il trattamento sintomatico della claustrofobia è relativamente semplice, se non complicato da altri disturbi psicologici, e prevede primariamente un percorso di psicoterapia cognitivo comportamentale di breve durata (spesso entro i 3-4 mesi).
La psicoterapia della claustrofobia, dopo un periodo di esame del caso che si esaurisce in breve, passa necessariamente attraverso l’utilizzo delle tecniche di esposizione graduata agli stimoli temuti. Il paziente viene avvicinato in modo molto progressivo agli stimoli che innescano la paura, partendo da quelli più lontani dall’oggetto o situazione centrale (es. l’immagine di una stanza chiusa ma piena di luce). Il contatto con tali stimoli viene mantenuto finché inevitabilmente non subentra l’abitudine ed essi non generano più ansia. Solo a tal punto si procede all’esposizione ad uno stimolo leggermente più ansiogeno, in una gerarchia accuratamente preparata in seduta a priori. In questo modo, nell’arco di poche settimane, si riesce a salire sulla gerarchia fino ad arrivare a esposizioni molto più forti, senza suscitare mai troppa ansia nel soggetto e ripetendo ogni esercizio finché non è diventato “neutro”.
Tale procedura può spaventare molto le persone che soffrono di una claustrofobia, poiché implica affrontare direttamente l’oggetto o situazione temuta, ma se ben effettuata, con l’aiuto di un terapeuta esperto, è assolutamente applicabile e garantisce un successo nella stragrande maggioranza dei casi.
In alcuni casi, per rendere più efficace il metodo, si insegnano al paziente strategie di rilassamento fisiologico e lo si invita ad utilizzarle poco prima di esporsi agli stimoli ansiogeni, in modo da facilitare la creazione di un nuovo condizionamento, in cui l’organismo associ rilassamento, anziché ansia, a tali stimoli.

Nel caso di claustrofobia invalidante è molto diffuso l’uso di farmaci ansiolitici “al bisogno”, per gestire l’ansia dovendo fronteggiare necessariamente certe situazioni temute (es. prima di entrare in metropolitana). Tale strategia consente di sopravvivere all’evento, ma non ottiene altro che l’effetto di rafforzare la fobia.

TESTIMONIANZE

Fabiana Età: 42 Da qualche mese, in seguito alla permanenza in metropolitana in blocco una mattina, ho sviluppato nuovamente la claustrofobia.premetto che 10 anni fa ne soffrivo, in forma lieve, pero’ e’ scomparsa e fino a poco tempo fa, e ho viaggiato per il mondo senza piu’ sentire questo problema, in modo assolutamente naturale, per anni.ora, da quando e’ accaduto l’evento sopra citato, in un semplice magazzino o in un ascensore sconosciuto tendo a sentirmi ”male” e cerco un’uscita all’aria aperta subito (mentre il mio di casa, per quanto sia al 6 piano continuo a prenderlo, ma ogni situazione nuova mi crea ansia e tendo ad evitare il luogo se posso). Ognivolta che non vedo via d’uscita, provo queste sensazioni bruttissime (anche se all’aperto). Facendo un lavoro di un certo tipo (sono manager in una multinazionale) e’chiaramente molto invalidante, e temo che il mio lavoro possa subire qualche problema, con rischi alla mia posizione. Per ora ho viaggiato comunque, meno, ma con xanax prima della partenza, ma non vorrei evitare i viaggi o pian piano peggiorare, ne’ riferire ai miei superiori che ho questo problema (per ora nessuno se ne e’ accorto).Solo l’idea pero’ di fare un lungo viaggio (possibile) tipo in Giappone (sebbene in passato ci sia gia’ andata piu’ volte) sto male… I problemi correlati alla cosa alla quale penso potrebbero essere: – la paura di perdere il lavoro, questo problema ormai e’ molto pesante, e avendo (da sola, sono separata con un figlio) un mutuo consistente per 20anni…logicamente mi fa pensare. – una relazione con il mio compagno, da 10 anni quasi, che recentemente si e’trasferito a casa mia (lui non e’ ossessivo, anzi il contrario, e questo a volte mi crea ”gelosia” dato che e’ un tipo che guarda le donne…).- mia madre, invece molto ossessiva e molto insistente, che pero’ tengo a giusta distanza…(ma non sempre riesco a farlo per ovvie ragioni). insomma non saprei a cosa dare la colpa, se non a me stessa, di tutto questo. voglio togliermi questo problema al piu’ presto, non voglio piu’ avere questa claustrofobia.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

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