PROBLEMI EMOTIVI DELL’ALUNNO

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Tratto da “Diario di scuola” di Daniel Pennac edito da Feltrinelli

…..vi fosse una correlazione tra una classe e un’orchestra.

“Ogni studente suona il suo strumento, non c’è niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l’armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo, è un’orchestra che suona la stessa sinfonia. E se hai ereditato il piccolo triangolo che sa fare solo tin tin, o lo scacciapensieri che fa soltanto bloing bloing, la cosa importante è che lo facciano al momento giusto, il meglio possibile, che diventino un ottimo triangolo, un impeccabile scacciapensieri, e che siano fieri della qualità che il loro contributo conferisce all’insieme. Siccome il piacere dell’armonia li fa progredire tutti, alla fine anche il piccolo triangolo conoscerà la musica, forse non in maniera brillante come il primo violino, ma conoscerà la stessa musica.

Il problema è che vogliono farci credere che nel mondo contino solo i primi violini. E alcuni colleghi si credono dei Karajan che non sopportano di dover dirigere la banda del paese. Sognano tutti la Filarmonica di Berlino, è comprensibile….”

Ai prof. Mancano dei corsi di ignoranza!………la vostra primaria qualità dovrebbe essere la capacità di immaginare la condizione di colui che ignora tutto ciò che voi sapete. Sogno un esame di abilitazione in cui si chieda al candidato di ricordare un insuccesso scolastico e di cercare di capire che cosa gli sia successo quell’anno. Accuserebbe il professore, è un trucco che conosco…….Si dovrebbe chiedere al candidato di scavare più in profondità, di cercare davvero di capire perché quell’anno si è arenato. Di cercare dentro di se, intorno a se, nella sua testa, nel suo cuore,nel suo corpo, nei suoi neuroni, nei suoi ormoni, di cercare ovunque. E di ricordarsi anche come se l’è cavata! I mezzi che ha usato!le famose risorse!

…bisognerebbe chiedere agli aspiranti professori i motivi per i quali si sono dedicati a questa materia piuttosto che a un’altra…….. insomma è necessario che coloro che pretendono di insegnare abbiano una visione chiara del loro percorso scolastico. Che riprovino un poco la loro condizione di ignoranza se vogliono avere una minima possibilità di tirarcene fuori.

La qualità dell’esistenza di ogni bambino è influenzata dal modo in cui egli apprende, fin dai primi anni, ad affrontare le proprie emozioni: se in lui prevalgono reazioni emotive distruttive, queste finiranno per caratterizzare la sua vita scolastica determinando relazioni insoddisfacenti con i compagni e con gli insegnanti.

Risulta abbastanza evidente il fatto che determinate emozioni hanno un’influenza rilevante sull’apprendimento e sulla motivazione scolastica. Quanto più mettiamo il bambino in grado di vivere emozioni positive in ambito scolastico, tanto più lo aiuteremo ad imparare. Molti bambini all’inizio della scuola Primaria si accostano all’apprendimento con un notevole entusiasmo che però va smorzandosi col passare del tempo. Eppure gli insegnanti potrebbero fare molto per facilitare l’esperienza di emozioni positive nel contesto scolastico. Se lo studio viene associato a stati d’animo piacevoli, sarà stimolata la capacità di partecipazione attiva dell’alunno al processo di apprendimento.E’ importante tenere presente che un’eccessiva tensione emotiva interferisce negativamente sull’efficacia di molte prestazioni. Ciò significa che se il bambino è troppo teso e coinvolto, il suo rendimento diminuirà in qualsiasi attività, non solo in quelle strettamente scolastiche, ma anche in attività sportive, artistiche o di altro tipo. Quindi, se è bene che vi sia un certo coinvolgimento, è altrettanto utile evitare un eccessivo stress.Le emozioni, inoltre, interferiscono con le attività mentali. Certi meccanismi cognitivi quali la capacità di concentrazione, la capacità mnestica e l’attenzione, sono influenzate negativamente da un’eccessiva tensione emotiva. Diventa quindi difficile focalizzare bene la propria mente su ciò che si deve apprendere quando si è troppo agitati o turbati.Le emozioni influenzano anche i rapporti interpersonali. Bambini che ad esempio manifestano un livello eccessivo di aggressività riceveranno spesso risposte altrettanto aggressive, oppure tenderanno a essere evitati, rifiutati, allontanati. Se invece è presente un’eccessiva timidezza nei rapporti interpersonali, il bambino avrà difficoltà ad inserirsi nel gruppo e potrebbe trovarsi socialmente isolato.E’ inoltre da considerare il fatto che le emozioni dominanti finiscono per determinare il clima psicologico della classe. Se qualche insegnante ha avuto l’infelice esperienza di trovarsi in una stessa classe quattro o cinque bambini con un elevato livello di iperattività, con un’accentuata aggressività e con la tendenza a disturbare i compagni, probabilmente sarà arrivato alla fine dell’anno scolastico alquanto esausto. Questo per il fatto che determinate emozioni negative, se si manifestano con elevata frequenza ed intensità, possono creare un clima di classe piuttosto negativo che logora gli insegnanti e rende difficile il processo di apprendimento. Rimane infine da tener presente che le emozioni più frequenti diventano modalità di risposta abituali. Quindi se abbiamo bambini che spesso provano ansia di fronte a interrogazioni o compiti in classe, è molto probabile che tale ansia, in assenza di un intervento specifico, si consolidi anche negli anni successivi. Lo stesso vale anche per altre emozioni quali, ad esempio, l’ostilità o la tristezza che se non vengono affrontate adeguatamente finiranno per diventare parte stabile del repertorio emozionale del bambino. Importante è il ruolo dell’insegnante che è in grado di avere l’autorevolezza per trasmettere all’alunno un adeguato repertorio comportamentale utile alla crescita personale. Categorie dei disturbi emotivi
Quando consideriamo i disturbi emotivi e comportamentali dell’età evolutiva può essere utile differenziarli in due ampie categorie.
Una prima categoria riguarda i disturbi emotivi esteriorizzati. Come il termine può far supporre si tratta di disturbi nei quali il disagio del bambino si manifesta soprattutto verso l’esterno. Essi si caratterizzano come tendenza ad esigere che i propri bisogni personali vengano immediatamente soddisfatti e che abbiano la precedenza sui bisogni degli altri.
E’ inoltre frequente il ricorso all’aggressività per conseguire i propri scopi, oppositività, tendenza alla trasgressione di norme sociali e a volte anche legali. Tipico disturbo esteriorizzato è il disturbo della condotta. L’altra categoria è costituita dai disturbi interiorizzati, caratterizzati da una sofferenza che viene vissuta interiormente e che spesso passa inosservata ad un’osservazione superficiale. Tipici disturbi interiorizzati sono l’ansia e la depressione.E’ interessante notare che per quanto concerne le segnalazioni che gli insegnanti,con il consenso dei genitori, rivolgono ai servizi specialistici per alunni in difficoltà, esse riguardano maggiormente disturbi di tipo esteriorizzato. E` molto raro che un insegnante segnali ad uno psicologo o ad un neuropsichiatra infantile bambini che hanno problemi di ansia o problemi depressivi, in quanto si tratta di soggetti che di solito non disturbano e non creano problemi nella classe. Si tratta di alunni che tendono a isolarsi, a chiudersi in se stessi, e che rimangono passivi e sottomessi nei confronti degli altri. In effetti un deficit nelle abilità relazionali è una costante di molti disturbi emotivi. Se il bambino è ansioso, ma ancor più se è depresso, manifesterà una certa inadeguatezza nel modo in cui si rapporta con i propri coetanei.Si è potuto constatare che la maggior parte dei disturbi emotivi sono influenzati da alcune modalità distorte con cui il bambino o l’adolescente rappresenta mentalmente se stesso e il proprio mondo. Si tratta della tendenza ad ingigantire gli aspetti negativi della realtà, ricorrendo a modalità di pensiero rigide e assolutistiche, ad esempio con un’eccessiva frequenza di termini quali sempre, mai, nessuno; oppure considerazioni del tipo “non me ne va mai bene una”, “tutti ce l’hanno con me”, “nessuno mi vuole bene”, “non ne faccio mai una buona”. La tendenza a categorizzare in modo estremo influisce negativamente sull’umore e quando si consolida, diventando il modo abituale di considerare se stessi e il proprio mondo, può condurre a disturbi emozionali quali ansia e depressione.
I più recenti contributi nell’ambito della psicologia hanno evidenziato che i meccanismi psichici che governano le reazioni emotive sono da identificare come meccanismi cognitivi, cioè modalità di pensiero, rappresentazioni mentali.
Ed è proprio aiutando il bambino a correggere gli errori presenti nel suo modo di rappresentarsi la realtà che possiamo metterlo in grado di superare emozioni spiacevoli.
In pratica, per toccare il cuore del bambino dobbiamo passare per la sua mente, aiutandolo a cambiare gli elementi disfunzionali del suo dialogo interno.
Dentro la nostra mente parliamo in continuazione a noi stessi, sia che ne siamo consapevoli, sia che non ne siamo consapevoli. Quando non ne siamo consapevoli non è che questi meccanismi siano inconsci, ma semplicemente non siamo abituati ad ascoltare la nostra mente.
Si è visto che se un bambino viene allenato fin da piccolo con apposite procedure, può essere in grado di ascoltare se stesso e di essere cosciente di quali sono i contenuti mentali che influenzano il suo stato emotivo. Per questo, la maggior parte dei programmi di prevenzione messi a punto in questi ultimi dieci anni, prendono in considerazione il rapporto esistente tra pensiero ed emozione. E’ possibile favorire il benessere emotivo del bambino insegnandoli, quanto prima possibile, a pensare in modo corretto.

Dott.Rosalia Cipollina

ABBANDONO E DISPERSIONE SCOLASTICA

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Stando alle statistiche i ragazzi italiani abbandonano molto presto la scuola e molti lo fanno prima di aver conseguito un titolo di studio superiore, così quasi la metà degli italiani ha solo la licenza media ed un’obiettiva difficoltà a trovare lavoro. Le cause dell’abbandono possono essere molteplici, e sopratutto una scelta degli studi superiori poco oculata favorisce il verificarsi di tale fenomeno . Ecco, allora, come prevenire l’abbandono.

Cosa significa dispersione scolastica . La dispersione è un fenomeno complesso che comprende in sé aspetti diversi e che investe l’intero contesto scolastico-formativo . Il termine dispersione scolastica ci sottolinea l’intrecciasi di due problemi: quello che riguarda il soggetto che si disperde e quello relativo al sistema che produce dispersione. Per comprendere il significato del termine bisogna risalirne all’etimologia: dispersione deriva da “dispergere”il cui significato è spargere le cose qua e la, dilapidare, ma è sentito come derivato di “disperdere”il cui significato è dividere , separare, dissipare. Entrambi nell’uso intransitivo significa sbandarsi, disperdersi, svanire ed evocano quindi la dissipazione dell’ intelligenza, delle risorse, delle potenzialità. Può essere definita dispersione scolastica quell’insieme di processi attraverso i quali si verificano ritardi, rallentamenti o abbandoni in uno specifico iter o circuito scolastico, ma, spesso questa definizione si utilizza anche quando ci si trova di fronte a soggetti che non abbiano sviluppato completamente le loro capacità cognitive ed intellettive e che, per svariate cause,hanno vissuto l’insuccesso scolastico.

Il quadro dell’abbandono. In ambito europeo, la Conferenza di Lisbona ha individuato nella riduzione della dispersione uno dei cinque benchmarck che i Paesi membri dovranno raggiungere nel campo dell’istruzione entro il 2010 Il quadro dell’istruzione fotografato dall’Istat per «100 statistiche per il Paese – Indicatori per conoscere e valutare» è davvero preoccupante e secondo la ricerca, la fuga dai banchi interessa soprattutto il meridione. In Sicilia e Campania rispettivamente 15 e 14 studenti su cento non completano nemmeno il percorso dell’obbligo, mentre l’anno scorso poco più del 75% dei giovani tra i 20 e i 24 anni ha conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore . Un tasso inferiore a quello della media comunitaria (77,8%), mentre tra i Paesi più diligenti spiccano Slovenia (5,2%), Repubblica Ceca (5,5%) e Polonia (5,6%). Nonostante ciò, un piccolo miglioramento nel nostro Paese c’è stato: nell’arco degli ultimi quattro anni, tra il 2004 e il 2007, in Italia l’incidenza di abbandoni precoci è scesa di 2,8 punti percentuali al Mezzogiorno e di 3,6 punti al Centro-Nord. Significativi sono dei dati rilevati dall’indagine del Ministero della pubblica Istruzione, presso le scuole statali e non statali riferiti all’A.S. 2006/07 che fanno emergere nella secondaria di secondo grado come l’abbandono interessi prevalentemente il primo anno di corso; sono infatti, i primi ingressi nel sistema scolastico e gli anni di passaggio da un ordine all’altro che costituiscono una soglia critica nel percorso scolastico Alla base dell’analisi sulle cause della dispersione e sul suo dimensionamento, l’accento viene posto sulla questione dell’intreccio tra variabili soggettive e variabili macro-sociali. Le esperienze di indagini condotte a livello locale hanno individuato nel grado di sviluppo socio-economico il fattore discriminante per il manifestarsi del fenomeno nelle diverse aree del Paese. La discriminazione non è tra regioni del Nord e del Sud ma tra le diverse aree di una stessa regione o tra i vari territori di una metropoli. Inoltre, mentre prima la dispersione era diffusa soprattutto nelle aree caratterizzate da situazioni di disagio economico-sociale(Mezzogiorno), il fenomeno si è diffuso anche nelle aree con sistemi economico-produttivi più forti: il basso grado di sviluppo socio-economico rappresenta una delle cause che nel sud produce l’abbandono del sistema formativo; la forte domanda di lavoro rappresenta al nord un’interessante attrattiva per numerosi ragazzi con scarso rendimento a scuola.

La dispersione scolastica si pone allora come indicatore della qualità del sistema formativo e pone l’accento sul valore del ruolo e della funzione della scuola, della famiglia e delle altre istituzioni e impone la ricerca di risposte e interventi adeguati e mirati, in un quadro di integrazione tra tutti i soggetti coinvolti.

Le cause dell’abbandono

La dispersione scolastica è un fenomeno complesso, non riconducibile a interpretazioni univoche di causa-effetto, ma va analizzato secondo un modello sistemico. E’ necessaria una visione integrata dei vari fattori che si correlano e interagiscono dove il focus resta sempre il successo o l’insuccesso scolastico. Variabili che concorrono e favoriscono lo sviluppo della dispersione scolastica sono:

•  Condizione socio-culturale della famiglia;

•  Irregolarità della carriera scolastica(causata da una assenza di individuazione di diagnosi di disturbo specifico dell’apprendimento come la dislessia, disgrafia, disortografia, discalculia);

•  Dinamiche soggettive dello studente( emarginazione, demotivazione, bassa autostima)

•  Difficoltà relazionali all’interno del gruppo(fenomeno del bullismo)

Una scelta imposta, fatta superficialmente o poco affine alla personalità dello studente: queste possono essere le cause dell’insuccesso scolastico che si trasformano i n disagio scolastico infine in abbandono, ma non vanno dimenticate quelle legate alla crisi adolescenziale. Ecco, allora, i principali fattori che spingono ad accantonare i libri.

Sentirsi inadeguati. In primo luogo, l’interruzione degli studi può essere il risultato dell’impossibilità di proseguire, a causa dei ripetuti fallimenti sul piano del rendimento o di un rifiuto nei confronti di una realtà frustrante (come avere brutti voti all’interno di una classe modello). Questa situazione fa scaturire un normale disagio che si può esprimere con sentimenti di rabbia nei confronti della scuola, vista come la causa dell’insuccesso, o ancora, può sfociare in depressione, senso di inadeguatezza, di incapacità, di scarsa autostima.

Una scelta imposta. In altre situazioni poi, l’abbandono è il triste epilogo di una scelta scolastica fatta dalla famiglia e non condivisa dal ragazzo. Di solito, in questo caso, lo scarso interesse dello studente è evidente dal suo atteggiamento: lamenta un senso di noia, di scontentezza, a volte circoscritto alla scuola, ma più spesso generalizzato e al quale l’adolescente non sa dare un significato. In questi casi non si verifica immediatamente un vero e proprio abbandono della scuola, ma un abbassamento del rendimento accompagnato da scarsa fiducia nelle proprie capacità.

Altre volte l’atteggiamento di disinteressamento verso le discipline scolastiche è una reazione e nello stesso tempo un messaggio del ragazzo, che si è visto imporre dai genitori un percorso scolastico senza tener conto delle suoi interessi e attitudini,che spera così di essere ascoltato e compreso e, quindi di cambiare il percorso scolastico intrapreso.

Troppi cambiamenti. Non va dimenticato, poi, che ogni cambiamento , accompagnato da un fase di destrutturazione e una di ristrutturazione,e un momento di crescita, il passaggio alla scuola superiore è, più in generale, un periodo di profondi cambiamenti che possono portare il ragazzo ad avere numerosi altri interessi, allontanandolo così dagli impegni scolastici. Se gli impegni di studio passando in secondo piano, quindi, non sempre la colpa è di un indirizzo sbagliato o di uno scarso interesse, ma di una serie di novità che caratterizzano la fase evolutiva (i primi amori, la trasformazione del proprio corpo, nuove amicizie ecc…) e che possono ripercuotersi sulla vita scolastica. Così accade che difficoltà anche minime, semplici segnali di malessere, insofferenza, malumori potrebbero essere amplificati nel contesto scolastico, spingendo lo studente/adolescente all’estrema soluzione dell’abbandono.

Se è colpa della scuola. Obiettivo dell’istituzione scolastica è prevenire il disagio e promuovere il successo scolastico aiutando gli studenti a prepararsi al futuro. Come già detto il passaggio da un grado di studi all’altro rappresenta un momento difficile di crescita verso l’autonomia per l’alunno e proprio per questo la scuola si attiva realizzando progetti di accoglienza e di continuità. I primi per l’accoglienza degli alunni che per la prima volta si accingono ad intraprendere un nuovo percorso di studi; i secondi prevedono momenti di scambi culturali e di incontri per favorire un passaggio poco traumatico da un grado di studi all’altro. Ma spesso Anche l’Istituzione scolastica può essere una causa dell’abbandono dell’istruzione. Spesso infatti, le difficoltà burocratiche, il continuo avvicendarsi di insegnanti, la mancanza di comunicazione tra la scuola e la famiglia possono minare l’equilibrio scolastico degli studenti, soprattutto se questo è già un pò barcollante.

Fare la scelta giusta

A questo punto dell’anno molti ragazzi hanno già fatto la loro scelta ma non è troppo tardi per capire se questa è stata fatta con oculatezza. Ecco cosa valutare per impedire che un indirizzo di studi sbagliato convoli nell’abbandono.

Una scelta personale. In generale, è normale che la famiglia, come pure gli insegnanti della scuola media, consiglino il ragazzo su quale possa essere il percorso più affine alle sue aspirazioni, ma è importante che la scelta definitiva sia stata fatta dal giovane stesso e non da altri al suo posto. Allo stesso modo, bisogna scoraggiare l’adolescente che scelga la scuola da frequentare basandosi unicamente su quello che hanno fatto i suoi amici o ex-compagni di classe. Di solito, questo accade ai giovani più insicuri ed in questo caso, è necessario infondere maggiore fiducia al ragazzo, aiutandolo a focalizzare i suoi punti di forza ed i talenti che lo distinguono e che possono essere valorizzati solo scegliendo un iter scolastico mirato.

Le prime responsabilità. Perché il ragazzo si assuma pienamente la responsabilità del percorso che sta per intraprendere, è fondamentale coinvolgerlo anche nella parte preliminare (dall’iscrizione al corso di studi, fino all’acquisto dei primi libri). In genere, un adolescente alle prese con un’avventura piacevole e motivato verso la propria scelta, è entusiasta di occuparsi personalmente di queste formalità.

Un colloquio preliminare. Anche dopo aver fatto la pre-iscrizione è importante che il giovane faccia un sopralluogo della scuola che ha scelto, fissi un incontro con il preside o con una persona che sia preposta all’accoglienza e si faccia spiegare esattamente quali discipline saranno affrontate non solo al primo anno, ma nell’arco di tutto l’iter che porta al diploma. Spesso, infatti, gli adolescenti si fanno un’idea molto generica dei vari indirizzi di studio, viziata dalle esperienze di fratelli maggiori o di amici o, addirittura, facendo riferimento alla tipologia. Così credono che fare lo scientifico significhi essere molto bravi in matematica, mentre scelgono gli istituti artistici solo se amano la pittura. Trovarsi di fronte a discipline sconosciute o prese alla leggera è uno dei fattori che porta a “lasciare” nell’arco del tempo.

C’è tempo per cambiare. Anche se l’anno scolastico è iniziato ed i libri sono stati acquistati, non bisogna escludere l’opportunità di cambiare scuola. Se fin dai primi giorni, il ragazzo manifesta insoddisfazione verso il nuovo corso di studi, è importante chiedergli di valutare questa ipotesi anche se un leggero smarrimento o una forte tensione possono essere considerate normali per un adolescente alle prese con una nuova esperienza.

Dal punto di vista più strettamente psicologico ed individuale la dispersione scolastica può essere, considerata il sintomo di una più ampio e complesso disagio personale . Sotto questa ottica l’abbandono scolastico come soluzione al proprio disagio individuale non risolve il disagio stesso e il malessere che ne deriva, ma può condurre verso un allontanamento sempre più profondo dalla scuola e dalle risorse che essa pur con i suoi limiti attuali, può offrire per una crescita personale. Un esempio di disagio individuale che può procurare abbandono scolastico è il fenomeno del bullismo. Quanti ragazzi di fronte ad episodi di bullismo, nel contesto scolastico, ma anche fuori da esso, sono tentati, tentano e abbandonano la scuola ?

Il rischio è che si instauri un circolo vizioso, nel quale il tentativo di soluzione messo in atto dal ragazzo non solo non risolve il problema ma tende a stabilizzarlo o aggravarlo. Contesto che pur attivandosi con le migliori intenzioni, nel tentativo di riavvicinare i ragazzi alla scuola, mette in atto tutta una serie di strategie sia a livello familiare che a livello dell’istituzione scolastica (premi, punizioni, prediche, rimproveri, opere di persuasione, sostegni nello studio, cambio di scuola, ecc.) che spesso non riescono nel loro intento. In funzione delle situazioni problematiche che si verificano nel contesto scolastico sarebbe opportuno prevedere la presenza della figura dello psicologo ,sia in una funzione preventiva che d’intervento mirato sul disagio in atto.

L’obiettivo dell’intervento psicologico, è quello di individuare delle modalità di comunicazione e di comportamento in grado di “disperdere” il circolo vizioso che si viene a creare tra il disagio individuale ed i tentativi di soluzione inefficaci come l’abbandono scolastico.

Dott.ssa Rosalia Cipollina

ANSIA, FOBIA O PAURA DELLA SCUOLA

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La paura o l’ansia di andare a scuola riguarda un numero sempre maggiore di bambini in età scolare.

Essa si manifesta con pianti, tremori, mal di pancia e di testa, crisi di panico prima di varcare l’ingresso della classe, ma talvolta si manifesta già a casa prima di partire per andare a scuola. Spesso viene considerata un capriccio, una sorta di ribellione, una crisi evolutiva. Invece nasconde un disagio più profondo che colpisce bambini e ragazzi, dalle prime classi fino al liceo, e nei confronti di una istituzione scolastica, generalmente, accogliente e comprensiva.

La fobia della scuola viene descritta per la prima volta nel 1941 dalla psichiatra americana Adélaïde Johnson, e per lungo tempo se ne rintracciata la causa nelle relazioni di dipendenza irrisolte tra madre e figlio, ed ancora oggi quest’ultima rimane la tesi prevalente. A cui però, oggi, vanno aggiunte altre possibili cause: l’ansia da separazione, paura di episodi di bullismo , timore degli insegnanti, timore di avere brutti voti, timore di non essere all’altezza delle aspettative dei genitori .

Il fenomeno è stato sempre presente in tutte le epoche ma oggi è più visibile Prima si andava a scuola a sei anni, magari i bambini non frequentavano neanche l’asilo e molti, come anche le mamme, vivevano male il distacco. Oggi parecchie cose sono cambiate, le madri vanno a lavorare e i bambini arrivano davanti alla scuola e dicono ciao senza problemi. Per questo i casi di fobia della scuola appaiono più evidenti. Bisogna però fare attenzione che non si stia enfatizzando una nuova malattia rendendo patologico un atteggiamento che è normale o comunque risolvibile

Secondo gli esperti riguarda circa il 2 per cento dei bambini della scuola dell’obbligo. La fobia della scuola raggiunge dei picchi nei momenti chiave del percorso scolastico: tra i 5 e i 7 anni, all’inizio della scuola primaria, tra i 10 e gli 11 anni, all’inizio delle medie, e a partire dai 14 anni.

Dott. Rosalia Cipollina

DISTURBI DELL’APPRENDIMENTO

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(DSM-IV Diagnosti and Statistical Manual, American Psychiatric Association, 1995 / ICD-10 International Classification of Diseases, OMS, 1992 )

 

I disturbi dell’apprendimento presenti, sin dalla nascita, in soggetti con disabilità neurologica o sensoriale (per esempio: ritardo mentale, sordità) vanno distinti dai disturbi che si manifestano, durante l’età scolare, in soggetti con adeguate capacità cognitive, visive e uditive.

I criteri diagnostici sono i seguenti:

1) compromissione significativa dell’abilità scolastica specifica (il grado di compromissione riguarda meno del 3% della popolazione scolastica); precedenti disturbi dello sviluppo (ad esempio: ritardo del linguaggio); problemi associati (ad esempio: iperattività , disturbi della condotta); manifestazioni cliniche (anomalie che non fanno parte dello sviluppo normale); le difficoltà scolastiche non regrediscono rapidamente con un intervento a casa e/o scuola.

2) Il livello di apprendimento del soggetto deve essere inferiore a quello atteso per un bambino delle stessa età mentale.

3) La compromissione deve riguardare lo sviluppo, deve essere stata presente durante i primi anni di scolarizzazione e non acquisita più tardi nel corso del processo educativo.

4) Non devono essere presenti fattori esterni che causano le difficoltà scolastiche (ad esempio: assenze prolungate da scuola, istruzione inadeguata).

IL BAMBINO CON DISTURBI DELL’APPRENDIMENTO

I problemi del bambino con disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) (lettura, scrittura, calcolo, ecc…) non sono dovuti a :

– Disturbi dell’intelligenza

– Problemi emotivi o relazionali

– Approccio sbagliato dei genitori o degli insegnanti

– Pigrizia e svogliatezza

LA VARIABILE EVOLUTIVA NEI DISTURBI DELL’ APPRENDIMENTO

– La definizione della gravità del disturbo dipende dall’età (per esempio: è sintomatico un ritardo di lettura pari a 2 anni in III° elementare e un ritardo di lettura pari a 2 anni in III° media)

– La configurazione che il disturbo assume può variare con il progredire dell’età e della scolarizzazione .

DISLESSIA

La dislessia è caratterizzata da una difficoltà di apprendimento della capacità di lettura in bambini scolarizzati (misurata ai test standardizzati somministrati individualmente sulla precisione, sulla velocità, sulla comprensione), non causata da deficit sensoriali o da inadeguata istruzione scolastica. La lettura risulta stentata, poco espressiva e comunque sempre al di sotto delle richieste previste per l’età anagrafica, il livello intellettivo generale e l’istruzione adeguata all’età. La dislessia si connette quasi sempre con altri disturbi tanto che si preferisce parlare di sindrome dislessica , che comprende anche difficoltà nella scrittura e nei processi di lettura-scrittura del numero e del calcolo. Le normali variazioni nelle abilità di lettura si differenziano dalla dislessia , che può essere diagnosticata solo se al soggetto sono state fornite adeguate opportunità scolastiche e culturali, se il suo quoziente intellettivo risulta nella media e se non presenta deficit sensoriali che possano da soli spiegare i problemi di lettura.

INDICATORI DI DISLESSIA

Il bambino in età scolare:

– ha acquisito con ritardo le normali competenze linguistiche
– pronuncia male alcune parole, lettere o gruppi di lettere
– confonde le indicazioni di direzione (es. sopra/sotto, dentro/fuori)
– inciampa, sbatte, cade eccessivamente
– manifesta rapidità di pensiero e di azione
– ha difficoltà ad imparare le filastrocche per bambini
– presenta difficoltà con le “sequenze” (es. successione ordinata di perline colorate)

Il bambino fino ai 9 anni:

– incontra una difficoltà ad imparare a leggere e a scrivere
– inverte continuamente numeri e lettere (ad es. “15” per “51”, “b” con “d”)
– impara a fatica l’alfabeto, le tabelline e sequenze di nomi, come i giorni della settimana e i mesi dell’anno
– è disattento ed ha scarsa capacità di concentrazione
– non riesce agevolmente ad allacciarsi le scarpe, a colpire il pallone o a saltare

Il bambino dai 9 ai 12 anni:

– persiste negli errori nella lettura e/o possiede una scarsa comprensione dei contenuti
– inverte o omette lettere e parole nella lettura e nella scrittura
– per eseguire compiti scritti impiega un tempo superiore alla media
– è disorganizzato a scuola e a casa
– ha difficoltà a copiare dalla lavagna o dal testo
– vive sentimenti di mancanza di fiducia in se stesso e nelle sue capacità
– trova molta difficoltà ad imparare le lingue straniere

DIAGNOSI DIFFERENZIALE

E’ clinicamente importante discriminare tra i disturbi evolutivi specifici delle abilità scolastiche che insorgono in assenza di condizioni neurologiche clinicamente diagnosticabili e quelli che sono secondari a qualche condizione neurologica come la paralisi cerebrale. I disturbi specifici delle abilità scolastiche vengono inclusi all’interno di quelli da alterato sviluppo psicologico (ad esempio: i disturbi specifici del linguaggio, della funzione motoria). La diagnosi differenziale prevede:

– variazioni del rendimento scolastico entro i limiti (bassi) della norma

– difficoltà scolastiche dovute a mancanza di opportunità, insegnamento carente, fattori culturali

– difficoltà di apprendimento derivanti da disturbi della vista o dell’udito, a meno che le difficoltà di apprendimento siano in eccesso rispetto a quanto solitamente associato a questi deficit

– ritardo mentale, salvo quei casi con livello di apprendimento (lettura, scrittura o calcolo) significativamente inferiore rispetto al livello atteso in base a scolarità e grado del ritardo mentale

-disturbo Generalizzato dello Sviluppo, a meno che il livello scolastico sia significativamente inferiore alle attese in base a scolarità e funzionamento intellettivo.

DISTURBO DELLA LETTURA

Il Disturbo specifico della lettura prevede che il bambino sia:

– incapace di acquisire i livelli prevedibili per quel che riguarda l’accuratezza, la velocità o la comprensione

– produca distorsioni, sostituzioni o omissioni nella lettura ad alta voce; sia lento e faccia errori di comprensione sia nella la lettura ad alta voce sia nella lettura silenziosa.

La natura del problema dipende dal livello di lettura atteso, dal tipo di linguaggio e dal sistema di scrittura. Nelle fasi iniziali di apprendimento di un sistema di lettura e scrittura di tipo alfabetico, vi possono essere difficoltà nel recitare l’alfabeto, nel riconoscere correttamente le lettere, nel fornire semplici rime per determinate parole e nell’analizzare o categorizzare suoni. In seguito, vi possono essere errori nella lettura ad alta voce consistenti in:

a) omissioni , sostituzioni, distorsioni o addizioni di parole o parti di parole;

b) lentezza della lettura;

c) false partenze, lunghe esitazioni o perdita della posizione nel testo e stile non accurato;

d) inversione di parole nelle frasi o di lettere all’interno delle parole.

I deficit nella comprensione della lettura possono essere evidenziati anche da:

a) un’incapacità di ricordare le cose lette;

b) un’incapacità di trarre conclusioni o inferenze dal materiale letto;

c) un uso di conoscenze di carattere generale piuttosto che di informazioni derivanti dalla lettura nel rispondere a quesiti su quanto letto.

Il ritardo specifico della lettura; la dislessia evolutiva; la difficoltà della compitazione associata a un disturbo della lettura sono fattori inclusi nel disturbo specifico della lettura mentre sono esclusi: l’ alessia e dislessia acquisita; le difficoltà acquisite della lettura, secondarie a disturbo emotivo; il disturbo della compitazione non associato a difficoltà di lettura.

DISTURBO SPECIFICO DI SCRITTURA O DISORTOGRAFIA

Oltre a presentare difficoltà di lettura il bambino dislessico commette quasi sempre gravi errori ortografici di scrittura, compie errori nella scrittura o nella lettura dei numeri e nell’esecuzione di calcoli mentali e scritti, a volte scrive con una calligrafia incomprensibile. In questo senso, si parla di “sindrome dislessica ” che raggruppa una costellazione di disturbi che riguardano, oltre la lettura, anche la scrittura e il calcolo ( dislessia , disortografia , discalculia , disgrafia ).

Dal punto di vista dei modelli del funzionamento mentale, questi disturbi devono essere tenuti ben distinti, in quanto si possono osservare casi, anche tra i bambini, che presentano selettivamente una sola tra queste difficoltà, risultando indenni negli altri compiti. La disortografia quale rilevante compromissione nello sviluppo delle capacità di scrittura ortografica prende in considerazione solo il processo di trascrizione, cioè :

– il disturbo delle componenti del processo fonologico (errori e omissioni nella scelta dei fonemi)

– il disturbo della componente del processo ortografico (errori nelle parole omofone).

Gli errori più frequenti che il bambino disortografico compie nella lettura e nella scrittura sono:

– incapacità di distinguere lettere molto simili per la forma (‘m’ e ‘n’; ‘ b’ e ‘d’; ‘p’ e ‘q’) o per il suono (‘d’ e ‘t’; ‘b’ e ‘p’);

– inversione di lettere (‘ id ‘ per ‘ di’; ‘ lad ‘ per ‘dal’);

– omissione di lettere o sillabe nell’ambito di una parola (‘doni’ per ‘ domani’);

– sostituzione di intere parole nel corso di una prova (‘auto’ al posto di ‘aereo’);

– mancanza di doppie;

– nella composizione libera il testo è breve, il vocabolario povero, la composizione di parole in frasi inadeguata e la punteggiatura carente.

DISTURBO SPECIFICO DELLE ABILITÀ ARITMETICHE

Il disturbo implica una specifica compromissione della abilità aritmetiche che non è solamente spiegabile in base a un ritardo mentale globale o a un’istruzione scolastica inadeguata. Il deficit riguarda la padronanza delle abilità di calcolo fondamentali (addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione, piuttosto che le capacità di calcolo matematico più astratto coinvolte nell’algebra, trigonometria o geometria).

Le prestazioni aritmetiche del bambino (valutate sulla base di un test aritmetico standardizzato somministrato individualmente) devono essere significativamente al di sotto del livello atteso in base alla sua età, al suo livello intellettivo generale e alla sua scolarizzazione. Le difficoltà di calcolo aritmetico non devono essere principalmente dovute a un insegnamento inadeguato o agli effetti diretti di deficit visivi, uditivi o neurologici e non devono essere state acquisite come risultato di patologie neurologiche, psichiatriche o di altro tipo. In contrasto con quanto accade per molti bambini con disturbi della lettura, i bambini con disturbo specifico delle abilità aritmetiche tendono ad avere capacità uditivo-percettive e verbali nella norma mentre le capacità visuopercettive e visuospaziali sono compromesse . Le difficoltà aritmetiche che possono verificarsi sono varie, tra le quali: un’incapacità a comprendere i concetti alla base di particolari operazioni aritmetiche; una mancanza di comprensione dei termini o dei segni matematici; il mancato riconoscimento dei simboli numerici; la difficoltà ad attuare le manipolazioni aritmetiche standard; la difficoltà di comprendere quali dati sono pertinenti al problema aritmetico in esame; la difficoltà ad allineare correttamente i numeri o a inserire decimali o simboli durante i calcoli; la difettosa organizzazione spaziale dei calcoli aritmetici; l’incapacità di apprendere in modo soddisfacente le tabelle della moltiplicazione.

Il disturbo aritmetico evolutivo, la sindrome di Gerstmann evolutiva, l’ acalculia evolutiva sono fattori inclusi nel disturbo specifico delle abilità aritmetiche mentre sono esclusi: le difficoltà aritmetiche associate a un disturbo della lettura o della compitazione; le difficoltà aritmetiche attribuibili principalmente a un insegnamento inadeguato; disturbo aritmetico acquisito.

Dott. Rosalia Cipollina

DISTURBI SCOLASTICI E DELL’INFANZIA

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Tratto da “Diario di scuola” di Daniel Pennac edito da Feltrinelli

…..vi fosse una correlazione tra una classe e un’orchestra.

“Ogni studente suona il suo strumento, non c’è niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l’armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo, è un’orchestra che suona la stessa sinfonia. E se hai ereditato il piccolo triangolo che sa fare solo tin tin, o lo scacciapensieri che fa soltanto bloing bloing, la cosa importante è che lo facciano al momento giusto, il meglio possibile, che diventino un ottimo triangolo, un impeccabile scacciapensieri, e che siano fieri della qualità che il loro contributo conferisce all’insieme. Siccome il piacere dell’armonia li fa progredire tutti, alla fine anche il piccolo triangolo conoscerà la musica, forse non in maniera brillante come il primo violino, ma conoscerà la stessa musica.

Il problema è che vogliono farci credere che nel mondo contino solo i primi violini. E alcuni colleghi si credono dei Karajan che non sopportano di dover dirigere la banda del paese. Sognano tutti la Filarmonica di Berlino, è comprensibile….”

Ai prof. Mancano dei corsi di ignoranza!………la vostra primaria qualità dovrebbe essere la capacità di immaginare la condizione di colui che ignora tutto ciò che voi sapete. Sogno un esame di abilitazione in cui si chieda al candidato di ricordare un insuccesso scolastico e di cercare di capire che cosa gli sia successo quell’anno. Accuserebbe il professore, è un trucco che conosco…….Si dovrebbe chiedere al candidato di scavare più in profondità, di cercare davvero di capire perché quell’anno si è arenato. Di cercare dentro di se, intorno a se, nella sua testa, nel suo cuore,nel suo corpo, nei suoi neuroni, nei suoi ormoni, di cercare ovunque. E di ricordarsi anche come se l’è cavata! I mezzi che ha usato!le famose risorse!

…bisognerebbe chiedere agli aspiranti professori i motivi per i quali si sono dedicati a questa materia piuttosto che a un’altra…….. insomma è necessario che coloro che pretendono di insegnare abbiano una visione chiara del loro percorso scolastico. Che riprovino un poco la loro condizione di ignoranza se vogliono avere una minima possibilità di tirarcene fuori.

Disturbi dell’apprendimento
I disturbi delle capacità scolastiche sarebbero presenti in circa il 15% dei bambini che frequentano la scuola, esordendo nell’arco della scuola elementare, più o meno precocemente, anche a seconda della gravità del disturbo. E’ possibile che possano evidenziarsi già nell’ultimo anno di scuola materna, anche se va posta molta cautela nel formulare tale ipotesi (in particolare è possibile osservare difficoltà nella seriazione, nella classificazione e nell’uso del segno grafico).
Le difficoltà di apprendimento rappresentano un disturbo dello sviluppo che può compromettere tutto l’apprendimento scolastico e la maturazione della personalità. È importante distinguere tra disturbi specifici e disturbi generici dell’apprendimento.
Nel caso dei disturbi specifici, le difficoltà mostrate da un bambino riguardano una difficoltà isolata e circoscritta, in una situazione in cui il livello scolastico globale e lo sviluppo intellettivo sono nella norma e non sono presenti deficit sensoriali. È possibile comunque che vi sia una correlazione tra difficoltà diverse: ad esempio una dislessia può essere associata ad una disortografia.

Dislessia : difficoltà a riconoscere e comprendere i segni associati alla parola.

Disgrafia : disturbo della scrittura nella riproduzione dei segni alfabetici e numerici con tracciato incerto, irregolare. E’ una difficoltà che investe la scrittura ma non il contenuto.

Disortografia : è una difficoltà che riguarda il contenuto della scrittura. In genere nel soggetto affetto si riscontrano difficoltà a scrivere le parole usando tutti i segni alfabetici e di collocarli al posto giusto e a rispettare le regole ortografiche (accenti, apostrofi, forme verbali etc.).

Discalculia : difficoltà specifica del calcolo in uno sviluppo normale e in assenza di disturbi affettivi. Il disturbo specifico invece è presente anche se il bambino è stato opportunamente stimolato, ma sono presenti deficit funzionali, cognitivi, percettivi, espressivi e motori.
Le difficoltà generiche (nel calcolo, nella scrittura, nella lettura) in genere sono transitorie e meno gravi e sono imputabili ad una scarsa esperienza di certe attività, per carenza di stimoli ambientali o da errori educativi che richiedono in “anticipo” alcune prestazioni anziché altre.
Questa distinzione è necessaria perché molte volte vengono denominati dislessici, bambini che non lo sono affatto e che magari hanno soltanto un disturbo generico transitorio.
Frequentemente questi disturbi comportano difficoltà di tipo emotivo e sono associati ad altri disturbi specifici di sviluppo o a turbe della condotta.

Disagio affettivo-relazionale-familiare
Rientrano in questa categoria tutte le carenze sociali e ambientali che, in ambito familiare e non, producono manifestazioni riscontrabili nelle difficoltà di apprendimento o si presume che possono nel tempo produrle. È importante tenere conto gli elementi culturali specifici ed aver escluso origini di tipo organico e cognitivo.

Disturbi d’ansia
Si parla di disturbi d’ansia quando vi sono evidenti manifestazioni di sofferenza legate alla separazione dalle persone affettivamente significative (genitori), alla presenza di persone non familiari (insegnanti, operatori scolastici). A volte queste manifestazioni non sono legate alla presenza di persone o eventi specifici.

Disturbi della condotta
Vengono così definiti modalità comportamentali abituali di violazione delle regole del vivere comune o dei diritti degli altri (regole naturalmente rapportate e relazionate all’età del soggetto) che tendono ad esprimersi nei vari ambiti sociali. È importante il riscontro abituale di tali modalità, poiché solo in questo caso sono riconducibili ad un disagio profondo del soggetto e non momentaneo.

Disturbi dell’identità di genere
In questi casi, il bambino sembra “rifiutare”, con evidente disagio, il proprio sesso, desiderando intensamente di appartenere al sesso opposto e cercando di conformarsi al relativo modello comportamentale. Si deve sottolineare che per parlare di un possibile disturbo dell’identità di genere non è sufficiente un generico interesse per i giochi del sesso opposto: si può dire che, ad esempio, nessuna bambina ha un comportamento così femminile come il maschio che presenta disturbi nell’identità di genere.

Disturbi da tic
I tic sono movimenti involontari rapidi, improvvisi e senza finalità che tendono a ripetersi con un ritmo irregolare e in modo stereotipo nella parte del corpo interessata.

Disturbi delle funzioni evacuative
Nel caso della encopresi l’evacuazione si presenta in assenza di patologia organica ed è persistente, per lo più involontaria, ed avviene nei vestiti o in sedi inappropriate, in un’età in cui il bambino dovrebbe aver acquisito il normale controllo sfinterico (che in genere accade verso i 4 anni). L’enuresi è l’emissione di urine involontaria, talvolta volontaria, in sedi inappropriate, solitamente i vestiti o il letto, in bambini di un’età (almeno 5 anni) in cui il controllo della minzione dovrebbe già essere stato acquisito. Si può parlare comunque di enuresi quando si presenti tale manifestazione almeno dopo 18 mesi dall’acquisizione di un normale controllo della minzione.

Disturbi del linguaggio
Queste difficoltà comprendono disturbi dell’articolazione della parola, del linguaggio espressivo e della ricezione del linguaggio.
Nel periodo compreso tra i 3 e i 6 anni circa il 10% dei bambini presenta difficoltà nell’articolazione dei suoni e non si arricchisce delle consonanti più evolute: sono frequenti gli errori, le omissioni, le sostituzioni.
Il disturbo del linguaggio espressivo consiste in una grande limitazione del vocabolario, che risulta al di sotto della soglia di evoluzione rispetto all’età, povero, telegrafico.
Il disturbo della ricezione del linguaggio, che si presenta come esordio intorno ai 4 anni, riguarda la comprensione che, a seconda dei casi , interesserà frasi semplici o espressioni più differenziate od evolute.
Il farfugliamento consiste in un’esposizione particolarmente rapida e poco comprensibile, si presenta in genere dopo i 7 anni.
La balbuzie è invece caratterizzata da anormalità del ritmo e della melodia del discorso con ripetizioni, esitazioni e blocchi soprattutto all’inizio delle parole o delle sillabe. Solitamente ha un esordio intorno ai 5 anni.

Disturbo da deficit di attenzione con iperattività
Tale disturbo è caratterizzato dalla mancanza di attenzione, da impulsività e iperattività motoria non adeguata per l’età del soggetto. I sintomi si rilevano soprattutto nelle situazioni di gruppo, prevalentemente a scuola.

Dott. Rosalia Cipollina

HIKIKOMORI: “LA STANZA DI DENTRO” ( a cura della Dott.ssa Francesca Lecce – Psicologa)

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IO MI SENTO AL SICURO SOLO QUI

Lo scopo di questo articolo consiste proprio nella spiegazione di tale affermazione, che sintetizza in poche righe il nucleo essenziale delle ricerche in letteratura che ho condotto in questi mesi: quello che comunichiamo è ciò che l’altro ha compreso e non quello che pensiamo di aver comunicato.
La “stanza segreta” della nuova generazione Giapponese è un fenomeno alquanto complesso, la sua manifestazione non si riduce soltanto a ciò che comunemente hanno definito come “ritiro sociale di adolescenti problematici”, ma si promuove come “la nuova comunicazione della generazione umana”. Termine che non si attribuisce automaticamente a tutta la realtà giovanile ma che rappresenta tutta l’inquietudine del mondo osservata dagli occhi di chi “fatica” a comunicare.
Tutti i mutamenti, tutti gli accadimenti tutte le devianze che gravitano intorno al termine “adolescenti problematici” vanno visti come l’emergere della ri-posizione di un soggetto uscito dall’età innocente. Gli elementi di crisi che definiscono ciascun soggetto adolescente mettono in luce, attraverso le sue specifiche manifestazioni, la struttura del soggetto al di là della cultura e delle epoche che necessariamente cambiano.
Oggi riti molto meno complessi e di poco valore simbolico segnerebbero il passaggio ad un’altra fase della vita. Tuttavia, quasi sempre, questi mutamenti non vanno di pari passo con l’emergenza pulsionale, una metamorfosi che con l’evidenza dei cambiamenti del corpo sessuato non è più ignorabile. In tutte le società il passaggio dalla famiglia (microcosmo) al mondo esterno (macrocosmo), dalla caduta dell’onnipotenza e della dipendenza infantile all’assunzione di una consapevolezza intesa come capacità di una iniziativa sempre più vasta, è valutata una fase molto complessa. Una fase più o meno lunga, di solitudine e di domande senza risposte, in cui affrontare i mutamenti della propria esistenza e della propria pulsionalità in relazione al sociale sino all’accettazione di un ruolo adulto. La separazione dalla madre, dal nucleo familiare, se non ancora più specificamente la mancanza delle iniziative dell’attaccamento (infantili e materne), la carenza del sottile gioco degli atti, l’assenza delle relazioni sincroniche e diacroniche e delle loro interpretazioni, è infatti sentito dall’adolescente come un lutto e come pericolo di morte.
Pertanto, l’abbandono dell’onnipotenza infantile è sentito come mancanza di appigli e come necessità di trovarne di nuovi in maniera autonoma e particolare. Una chiamata ineludibile, a cui non è possibile non rispondere.
Così i comportamenti “devianti” (come il fenomeno Hikikomori) evidenziano punti conflittuali rimossi e, celano, ciò che l’adolescente ricerca per affermare la sua individualità nel sociale e nel pulsionale. A tal riguardo credo che il caso Hikikomori vada  affrontato da diversi punti di vista.

Una comunicazione di tipo “selettivo”.
A mio avviso il primo punto da analizzare, dopo aver chiarito le problematiche relazionali che incontra e manifesta l’adolescente, riguarda indiscutibilmente la comunicazione (di tipo selettivo) e il messaggio che si trasmette tramite tale comunicazione. La comunicazione come l’altra faccia dello specchio rispetto all’apparente natura del fenomeno Hikikomori. Nessuno può negare che nella società Giapponese si assiste nel periodo contemporaneo, ad  una nazione forte sul piano industriale e finanziario che minaccia di surclassare quei paesi occidentali più avanzati che lo hanno sponsorizzato. Sarebbe sufficiente partire da questo spunto per argomentare alcune risposte al quesito di apertura di questa affermazione socio-culturale (Carbonaro, La Rosa, 1997). Ma prima di soffermarmi sul principale cardine del Giappone: il conformismo più spinto alle regole, sia nella scrittura che nelle consuetudini e, perdere il controllo, nel parlare su quanto il fenomeno Hikikomori sia influito dalla società Giapponese (società modernizzata, ricca e potente ma anche fragile e in crisi di identità, formale e impenetrabile) vorrei incentrare l’argomento non sull’espressione “consumo e lavoro ergo sono” ma sulla citazione di Gregory Bateson – la comunicazione si crea attraverso le incessanti alchimie e trasformazioni che si generano all’interno delle relazioni tra gli elementi che compongono il sistema; la comunicazione, dunque, nasce, e si sviluppa nel segno delle differenze e del cambiamento, in un universo di messaggi che acquisiscono un chiaro significato solamente se collocate nel loro contesto relazionale e ambientale-.
Se si tiene in considerazione la mente di ciascuno di noi si può notare come essa elabori tutto secondo il proprio vissuto e, quindi, come non sia altro che il prodotto del proprio vissuto. Questo concetto, conferma, come la comunicazione si può ricondurre ad un rapporto tra lessico e interazione sociale in chiave genetica ed evolutiva. Prendiamo ad esempio una parola ordinaria come “aiuto”, o “ mangiare”, o “allegro”, o “chiudere” e osserviamo come e cosa un adolescente può  suscitare al ricevente tramite la trasmissione del messaggio.
Immaginiamo che la parola dell’emittente sia “aiuto”. Senza particolare intonazione di voce.
Se si chiedesse, a questo punto al ricevente cosa  ha sentito, sicuramente ci direbbe di essere ricorso a delle situazioni immaginarie prima di rispondere a questo tipo di messaggio.
Ipotizziamo ora che lo stesso adolescente dica: “Aiuto!”. Usando un tono di voce spaventato.
Se si chiedesse, in questo caso, al ricevente cosa ha sentito sicuramente ci direbbe di essere ricorso a situazioni inventate più minuziose, più ricche, più vive.
Infine, immaginiamo, che l’adolescente pronunci: “Aiuto?”
Il ricevente, a tal riguardo, sicuramente ci direbbe di aver sentito una domanda.
Ciò che è sempre quasi presente nelle soluzioni trovate dal ricevente si svolgono in contesti interattivo-sociali. Questi contesti possono poi essere costituiti da gruppi composti da due soggetti, o essere più ampi (tre, quattro, più individui) e anche se la qualità e la quantità degli scambi interattivi varia in relazione a diverse variabili, una cosa è certa: il ricevente è sempre presente (Aprile, 1993). Dunque in sintesi:

  • l’emittente ha comunicato un messaggio.il messaggio di qualunque natura sia (informazione, dato, notizia o semplice sensazione) è stato trasmesso.il codice (una lingua, un gesto, un grafico, un disegno) ha permesso che la comunicazione sia avvenuta.
  • il ricevente (il soggetto o i soggetti) ha ricevuto il messaggio.

COMUNICAZIONE= TRASMISSIONE, PASSAGGIO DI INFORMAZIONE

.EMITTENTE
RICEVENTE

COMUNICAZIONE = RELAZIONE, COMPRENSIONE 

La comunicazione verbale sinteticamente è un processo attivo tipicamente umano e sociale di scambio e condivisione delle informazioni, delle idee, dei messaggi fra due o più soggetti. Il processo della comunicazione inizia quando un emittente concepisce un messaggio e lo trasmette, attraverso un mezzo o un canale specifico, al ricevente, il quale lo interpreta e rimanda, in qualche modo, un altro segnale, con cui rende noto che il messaggio è stato ricevuto e compreso. Questi processi di produzione/ricezione sono continui nella comunicazione: una delle sue caratteristiche è, infatti, quella di scambiare le posizioni all’infinito.
All’interno di ciascun processo comunicativo è possibile classificare una serie di “funzioni”. Lo studioso Roman Jakobson ne ha classificate sei:

  • funzione espressiva o emotiva: il linguaggio consente di esprimere la propria personalità, i propri stati d’animo e sentimentifunzione conativa: attraverso il linguaggio si possono influenzare i comportamenti degli altri. Rientrano in tale categoria la richiesta d’aiuto, il suggerimento, la persuasione, il comandofunzione poetica: si riferisce all’organizzazione interna del messaggio e riguarda il modo in cui viene messo in pratica e strutturatofunzione referenziale: riguarda il rapporto tra il messaggio e la realtà esterna attraverso determinati strumenti linguisticifunzione fàtica: riguarda il mantenimento della comunicazione avviata
  • funzione metalinguistica: è relativa alla presenza di elementi all’interno del messaggio che definiscono il codice stesso.

Dunque, la comunicazione è un aspetto essenziale della nostra esistenza. E sarebbe problematico cercare di mettere in dubbio la fondatezza di tale affermazione, in particolar modo nel caso specifico degli esseri umani: tutti noi comunichiamo costantemente con gli altri esseri viventi e con l’ambiente circostante. Fin dai primi giorni di vita ci troviamo immersi come soggetti attivi e dotati di capacità comunicative all’interno di una condizione relazionale che fa partecipe le nostre figure primarie d’attaccamento e, allo stesso tempo, siamo involontariamente coinvolti in un continuo processo di acquisizione delle “regole” della comunicazione. Se pensiamo che a partire dagli anni Ottanta gli studi condotti sulla relazione madre-bambino focalizzano l’attenzione sulle tendenze innate e sui problemi del primo anno di vita, anche in funzione di un eventuale intervento precoce per prevenire disturbi nella seconda infanzia e, collocano in posizione di centralità lo studio della relazione primaria. Emde, analizzando le modalità fondamentali dello sviluppo, prende in considerazione le “motivazioni di base” che sono innate nel bambino, che rintracciano la loro espressione evolutiva all’interno del rapporto, che permangono negli anni e dalle quali non può prescindere lo sviluppo. Particolare rilievo è dato dallo studioso alla “predisposizione alla socializzazione” che egli indica come “terza motivazione di base”: il bambino nasce preadattato ad una serie di interazioni con gli altri. A tal riguardo, Emde, mette in risalto la “natura diadica del sistema motivazionale: la predisposizione alla socializzazione, in quanto tendenza innata, è comune sia al bambino che al genitore”. il bambino pertanto in questa relazione costruisce non solo il Sé, ma anche i modelli relazionali. Per concludere, tutto il percorso evolutivo, comprendente talvolta anche disarmonie più o meno significative, è comunque influenzato sia dalle condizioni ambientali, in particolare del rapporto con la madre, che lo caratterizza attingendo alla sua sensibilità, ma anche alle personali conflittualità, sia dal patrimonio genetico che condiziona gli “schemi reattivi primari”

Dopo aver tentato di capire lo sviluppo delle sindromi relazionali e dopo aver cercato di centrare il significato della parola “comunicazione” e/o “relazione”, è necessario condurre in primo luogo la domanda “perchè si comunica” al fenomeno di inibizione sociale dei giovani Hikikomori.

L’impossibilità di non comunicare: qualsiasi comportamento, in situazione di reciprocità tra persone, è ipso facto una forma di comunicazione. Infatti qualunque sia l’atteggiamento assunto da qualsiasi individuo questo diventa immediatamente portatore di significato per altri ed ha dunque valore di messaggio. Anche la mancanza di reazione, i silenzi, e l’ozio sono forme di comunicazione, poiché portano con se un significato e un messaggio. Ad esempio, non è difficile che due perfetti estranei nella medesima sala d’attesa di un ambulatorio si ignorino completamente e apparentemente non comunichino. In realtà tale indifferenza reciproca costituisce uno scambio di comunicazione nell’ugual misura in cui può esserlo una discussione energica.
In secondo luogo bisognerebbe chiedersi come si comunica quando si parla di comunicazione.

Ogni comunicazione comporta di fatto un aspetto di metacomunicazione che determina la relazione tra i comunicanti. Ad esempio, un adolescente che esprime un ordine:
– da oggi resterò chiuso nel mio mondo, vi proibisco di entrare nella mia stanza segreta!
Comunica, oltre al contenuto (la volontà che l’ascoltatore compia una determinata azione), anche la relazione che trascorre tra chi comunica e chi è oggetto della comunicazione. Ogni comunicazione oltre a trasmettere informazione, implica un impegno tra i comunicanti e definisce la natura della loro relazione.
La comunicazione sociale è sostenuta oggi anche da moderni strumenti, che consentono, di superare le barriere e i vincoli di tempo e di spazio e, fra i nuovi modi di comunicare, Internet è certamente uno dei mezzi che offre maggiori opportunità.
Sherry Turkle ha scritto un libro nel 1997 intitolato “Il secondo Io” ed analizzandone il significato potremmo capire come il mondo del web risulti essere una versione di se stessi, un vero sé. Proponendolo come essere onnisciente, nel senso che può fornire in pochi secondi così tante informazioni e così tanti contatti e relazioni, soffrendo di sintomi di ritorno nel momento in cui arriva l’ora di spegnerlo (e si esce da quel mondo). In tal modo con la nascita del trasmesso, lo scritto, nonostante sembrava essere destinato a una lenta ma inesorabile fine ha invece rilanciato una “nuova” lingua scritta, come dimostra il recente sviluppo, anche in Italia, dei siti internet e delle chat-line (Carrada, 2000). Caratteri veloci e brevi come quelli presenti nella comunicazione delle chats, che si svolgono in uno spazio puramente virtuale. Questa forma di trasmissione a distanza dello scritto è del resto l’unica che prevede necessariamente la compresenza dell’emittente e dei riceventi, che implica limiti temporali nella fase della sua pianificazione, che mostra una scrittura in continuo movimento (D’Achille, 2003).  Quindi  proprio perchè siamo bombardati da messaggi culturali che ci spingono ad utilizzare questa nuova comunicazione rivoluzionaria che bisognerebbe distaccarci dai contorni del fenomeno Hikikomori e cercare la risposta studiando il problema di questa comunicazione “falsata” tra i giovani del Sol Levante. L’Hikikomori non è una delle tante manifestazioni della crisi adolescenziale, che riguarda più di un milione di adolescenti che non riescono a vivere nella società  e, che,  pertanto si rinchiudono fra le mura della loro camera, rifiutando il contatto con il mondo esterno anche per anni. Il male oscuro di questi “adolescenti tartaruga” è di più. Questa fuga dal mondo li conduce ad “ammazzare” il tempo con internet, con i videogiochi, con la tv e con la musica. Tale “espatrio” volontario è inscindibilmente connesso alla fruizione delle nuove tecnologie: questi giovani si allontanano dalle relazioni reali per abbracciare quelle virtuali e il cyberspazio prende il posto della vita. Appare quindi indispensabile analizzare le modificazioni che si verificano nella mente umana in rapporto con la ormai totale diffusione della rete.
L’adolescente finisce con il rimanere intrappolato in quella rete dove l’unica via possibile è vivere in una sorta di alienazione tecnologica. Anche il corpo si imprigiona. Non è più rivolto al mondo esterno, ma suggellato dentro i propri confini, implacabili e ghiacciati. Non c’è più nessuno con cui parlare o a cui rivolgere un gesto, un contatto diretto. L’individuo non vuole perdere la propria “stanza segreta” e rinuncia al benessere sociale che sublima nel benessere virtuale. Navigare nella rete per questi adolescenti diventa il loro scopo di vita e non possono farne più a meno. L’abuso nell’utilizzo delle informazioni disponibili in rete, infatti, può portare ad un sovraccarico cognitivo che satura il cervello, riducendo l’attenzione razionale; contemporaneamente il conseguente isolamento sociale sostiene il ricorso ad Internet per cercare occasioni di socializzazione virtuale che possono sconvolgere i delicati equilibri dell’identità, creando la possibilità di sperimentare ruoli e parti del Sé altrimenti non sperimentabili nella vita reale che, tuttavia, accrescono il numero di ore trascorso on-line, con il risultato che si può finire incollati ad una sedia e ad un monitor per giornate intere, rinunciando a salutari e “reali” esperienze di vita. L’utilizzo della rete e delle varie applicazioni è in grado di determinare un ampliamento ed un’errata percezione dei confini del Sè. Presi dal vortice dei rapporti sociali virtuali, dividiamo disperatamente la nostra limitata attenzione, concedendo frammenti della nostra coscienza ad ogni cosa o persona che richieda il nostro tempo. Ma nel farlo mettiamo a rischio  la nostra persona  nel perdersi nella rete labirintica di connessioni mutevoli. D’altra parte  la carenza di una reale presenza fisica e l’impossibilità di poter avere accesso a tutta una serie di messaggi non verbali ai quali siamo abituati nelle relazioni interindividuali diminuisce la possibilità di accesso a tutta una serie di indicazioni basilari nell’interazione tra due individui. L’abuso di internet sarebbe determinato da un senso di vuoto, da un vissuto di solitudine e dalla difficoltà di investire la realtà of-line. In alcuni casi estremi come quelli dei ragazzi Hikikomori, la partecipazione alla realtà on line è finalizzata alla negazione di quella concreta, quotidiana, avvertita come intimidatoria. Lo dimostra (o lo induce a pensare) la discussione tra due ragazzi Hikikomori trovato su un Diario di Bordo in rete, di un isolatra Giapponese:
–  Tu ce l’hai una stanza segreta dentro di te?
Perché mi scrivi Cettina? Ti senti sola anche tu e contrariamente a me non hai la forza di rinunciare alla vita che il mondo ti propone?
Ci sono cose tremende intorno a te come qui? Ma qui il tremendo è invisibile e pulito come una stuoia nuova e non scorre sangue, nemmeno nelle vene.
Ho sentito che anche in Spagna è esplosa qualcosa di più di una bomba, una sorta di guerra di idee che ha fatto molte vittime.
Che cosa orribile! Tutti quegli omicidi senza che gli assassini guardassero negli occhi le loro vittime: da noi, nel nostro orrendo e sanguinoso passato, nessun guerriero avrebbe mai ucciso un nemico senza averlo prima guardato negli occhi. …Ma poi, quegli uomini e donne erano forse nemici di qualcuno?
Non c’è onore nell’omicidio del terrorista. Forse, in nessun omicidio, malgrado la società lo codifichi entro qualsiasi sia l’idea che lo sorregge.
So che è da vigliacchi vivere chiusi in una stanza ma vivere in un mondo dove gli uomini uccidono i loro compagni di viaggio solo per dimostrare al mondo che esistono, mi sembra una cosa assurda, una cosa che il tempo cancellerà come il vento soffia via la sabbia dal mio davanzale. Verranno dimenticati gli assassini e di loro, dei loro gesti, delle loro idee, non resterà nulla. Tutto inutile! Perché combattere uccidendo quando invece dovremmo costruire? Hai idea Cettina, di quanti milioni di anni sono stati necessari perché cause del tutto naturali e coincidenze fortuite abbiano contribuito a costruire questo mondo così come tu lo vedi? C’è davvero da impazzire o da sentirsi al sicuro. Io mi sento al sicuro solo qui. Per ora. –
La realtà on line fornisce il vantaggio di dare gratificazioni immediate, per la sua disponibilità pressochè persistente. La comunicazione nelle chat o nei diari di bordo, è dominata dalla sensazione, spesso ingannevole, di essere capiti e di capire, di condividere le emozioni proprie e altrui. L’illusorietà, infatti molte volte si rende palese nel momento in cui si decide di abbandonare l’ambiente virtuale per quello reale. Spesso quello che sopraggiunge e che si tende a capire solo a posteriori è che la comunicazione, fino a quel momento è stata interiorizzata e rivolta in prevalenza a se stessi.  L’importanza di considerare il “disagio relazionale” in una prospettiva interattiva consiste pertanto anche nella possibilità concreta di accertare esplicitamente e di documentare problemi relazionali <<individuali ed intra-familiari>>  e di progettare un intervento preciso anche in casi che, pur senza sintomi o manifestazioni definiti dalla tradizionale nosografia neuropsichiatrica, destano preoccupazione.

Perchè i giovani rifiutano tutto d’un tratto il rapporto con gli altri?
Secondo un’indagine che sta portando avanti la Bbc il problema va affrontato da diversi punti di vista. C’è di mezzo infatti il sistema scolastico Nipponico, giudicato tra i più severi del mondo, ma anche l’incapacità delle nuove leve di sopportare le frustazioni, la forte competitività, gli “sfottò” ed il bullismo, anche essi fenomeni molto diffusi oggi nel Sol Levante. In pratica per tutta questa serie di circostanze, il giovane non trova per sopravvivere altra via di scampo se non quella di sviluppare nella propria mente un mondo nel quale non esistono angherie, dolori ed ostacoli alla realizzazione del proprio Io, ma che di fatto è solo il frutto della sua immaginazione.
CASI CLINICI (RACCONTATI IN UN ARTICOLO DEL NEW YORK TIME DEL 15 GENNAIO 2005):

  • Una mattina, T. All’età di soli 15 anni, si chiuse alle spalle la porta della sua stanza e non vi uscì più per i successivi lunghi quattro anni. Non frequentò più la scuola non faceva più alcuna attività lavorativa, non aveva più alcun rapporto sociale con i propri amici. Visse, mese dopo mese, 24 ore su 2a in una stanza non più grande del suo letto. Trascorreva le sue giornante mangiando le pietanze che la madre gli preparava (lasciate all’esterno della propria camera da letto), dormendo, guardando giochi televisivi e ascoltando musica.
  • Y.S., all’età di 14 anni, dopo anni di maltrattamento psicologico da parte dei suoi compagni di scuola, si era ritirato nella sua stanza e aveva continuato a guardare la televisione, a navigare su internet ed a costruire modellini di automobili per molti anni ancora. Circa metà della sua vita.

CASO CLINICO (RACCONTATO  IN UN ARTICOLO DEL GIORNALE  “IL FOGLIO” 18 FEBBRAIO 2006):
La camera di Asacho è completamente vuota. La luce le da fastidio. Non voleva diventare famosa. Ogni giorno stessa uniforme, ogni giorno la stessa classe, gli stessi compagni, le stesse persone, le stesse azioni. Sempre con la medesima divisa- lei odiava quella divisa-.
Continuava a fare le solite cose che facevano tutti. Semplicemente perchè le facevano tutti. E a tal riguardo, la sua ricorrente domanda era:
– perchè devo continuare a ripetere le cose che fanno tutti?
Dalle scale guarda la madre. Si allontana. Si prepara.
È in procinto di uscire. Asacho si veste, la solita divisa, il medesimo sorriso, la solita frase:
– tutto  bene, nessun problema.
Lei aveva la sua vita.
Aveva il suo computer.
La sua chat.
Il Dottor Saito nel 1995 non riusciva a comprendere. Nell’intervista rilasciata affrema:
– Non sapevo cosa fosse! Sembrava depressione, un disordine mentale, una forma di schizofrenia. Non capivo.
Ma negli ultimi dieci anni i casi  sono raddoppiati, un milione di persone, il 20% degli adolescenti del Giappone. Li hanno definiti” lost generation”, il “missing milion”. Una persona su dieci in Giappone è ammalata di Hikikomori. Il Dott. Saito ha creato la più importante clinica per curare i pazienti Hikikomori- la New Start.
In Italia, a Senigallia, c’è la Noston. Consulenza, diagnosi, terapie, incontri.

Sulle cause del fenomeno si fanno solo ipotesi.
L’Hikikomori sembra essere una sindrome culturale che si sviluppa in un paese specifico durante un particolare momento della sua storia. I giapponesi hanno cercato di ricondurre il fenomeno a qualunque cosa:

  • Alle madri oppressiveAlle madri assentiAi padri troppo impegnati nell’ambito lavorativoAl bullismo scolasticoAll’economia in netta recessioneAlle pressioni accademiche
  • Al mondo del web

Ma il tutto potrebbe anche essere collocato sullo sfondo di una società sociologicamente in crisi e che, maggiormente, si nutre di una cultura non “sempre sana”.
Il Dott. Saito, che ha trattato più di 1000 Hikikomori, attribuisce il disagio al contesto familiare e sociale, all’interdipendenza fra genitori e figli ed alle loro pressioni psicologiche. Ad esempio, se un figlio decide di non seguire un preciso percorso come il frequentare un’università d’elitè o un’azienda di prestigio, i genitori  vivono e fanno vivere ai propri figli tale situazione come un grande fallimento. Molti fra gli stessi pazienti  raccontano di anni scolastici da incubo, di episodi di bullismo, in cui venivano maltrattati per essere troppo esili o troppo “grassi” o addirittura per essere migliori di qualcun altro nello sport o nella musica.I sintomi
Oltre all’isolamento sociale, alla dipendenza da internet, questi adolescenti tartaruga, soffrono tipicamente di depressione e di comportamneti ossessivo compulsivi ma non è facile comprendere se questi siano una possibile conseguenza della reclusione forzata a cui si sottopongono o una concausa del loro chiudersi nella “stanza di dentro”. La clinica
Nell’articolo del NYT si descrive il programma “New Start” che offre un alloggio in comunità e un programma di formazione-lavoro. Gli operatori sono maggiormente donne, che lavorano anche per diversi mesi, per istaurare un legame che costituisca un un ponte stabile fra l’Hikikomori e il mondo esterno. L’operatrice, una volta a settimana si reca nella sua stanza per costruire un rapporto di fiducia aiutandolo in questo modo ad esternare quelle che definiamo emozioni fondamentali (tristezza, rabbia, paura, sorpresa, gioia). In seguito tenderà gradatamente di farlo integrare nel mondo esterno. Una volta raggiunto il traguardo, comincerà il programma New Start.
In qualche caso ci vogliono molti mesi, in qualche altro caso anche anni. Conclusioni

Partendo dalla concezione di gruppo come “complesso sistema di dinamiche relazionali ed affettive che costituiscono la rete su cui si costruisce la vita del gruppo nei suoi aspetti anche operativi” credo, che, bisognerebbe aiutare questi adoloscenti con tecniche di socializzazione, dove l’apprendimento della socialità, ovvero lo sviluppo di doti essenziali per il vivere  sociale diviene un fattore “curativo” che agisce in tutti i gruppi terapeutici. Attraverso il feedback dei compagni, i pazienti potenzialmente possono acquisire informazioni rispetto ai loro comportamenti sociali disadattati, di cui spesso sono inconsapevoli ed imparare a modificarli.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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SINDROME DA ALIENAZIONE GENITORIALE

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« Un disturbo che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. In questo disturbo, un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore (genitore alienato). Tuttavia, questa non è una semplice questione di “lavaggio del cervello” o “programmazione”, poiché il bambino fornisce il suo personale contributo alla campagna di denigrazione. È proprio questa combinazione di fattori che legittima una diagnosi di PAS. In presenza di reali abusi o trascuratezza, la diagnosi di PAS non è applicabile » Richard A. Gardner

La sindrome di alienazione genitoriale (o PAS, dall’acronimo di Parental Alienation Syndrome) è una delle più gravi patologie da separazione, un disturbo psicologico che può insorgere nei figli, tipicamente a seguito del loro coinvolgimento in separazioni conflittuali non appropriatamente mediate.

Il primo a parlare e a studiare tale sindrome e Richard A. Gardner

Richard Gardner afferma che l’instillazione incontrollata di PAS è una vera e propria forma di violenza emotiva, capace di produrre significative psicopatologie sia nel presente che nella vita futura dei bambini coinvolti. Gravi psicopatologie quali:

  • esame di realtà alterato;
  • narcisismo;
  • indebolimento della capacità di provare simpatia ed empatia;
  • mancanza di rispetto per l’autorità, estesa anche a figure non genitoriali;
  • paranoia;
  • psicopatologie legate all’identità di genere.

Essa è causata da un lavaggio del cervello messo in atto da parte di un genitore patologico (genitore alienante)che porta i figli a perdere il contatto con la realtà degli affetti e a manifestare astio e disprezzo ingiustificato e continuo verso l’altro genitore (genitore alienato).

Le tecniche di pianificazione del genitore alienante, tipicamente comprendono

  • l’uso di espressioni denigratorie riferite all’altro genitore;
  • false accuse di trascuratezza,
  • violenza o abuso (nei casi peggiori, anche abuso sessuale);
  • la costruzione di una “realtà virtuale familiare” di terrore e vessazione che genera, nei figli, profondi sentimenti di paura, diffidenza e odio verso il genitore alienato.

I figli, quindi, si alleano con il genitore “sofferente”; si mostrano come contagiati da questa sofferenza ed iniziano ad appoggiare la visione del genitore alienante, esprimendo, in modo apparentemente autonomo, astio, disprezzo e denigrazione contro il genitore alienato.

La pianificazione arriva spesso a distruggere la relazione fra figli e genitore alienato, perché i bambini arrivano a rifiutare qualunque contatto, anche solamente telefonico, con il genitore alienato. Perché si possa parlare di PAS, però, è necessario che l’astio, il disprezzo, il rifiuto non siano giustificati (o giustificabili) da reali mancanze, trascuratezze o addirittura violenze del genitore alienato.

La diagnosi di tale sindrome si basa sull’osservazione di otto sintomi primari nel bambino.

Il primo sintomo è la campagna di denigrazione, nella quale il bambino mima e scimmiotta i messaggi di disprezzo del genitore alienante verso l’altro genitore. In una situazione normale, ciascun genitore non permette che il bambino esibisca mancanza di rispetto e diffami l’altro. Nella PAS, invece, il genitore programmante non mette in discussione questa mancanza di rispetto, ma può addirittura arrivare a favorirla.

Il secondo sintomo è la razionalizzazione debole dell’astio, per cui il bambino spiega le ragioni del suo disagio nel rapporto con il genitore alienato con motivazioni illogiche, insensate o, anche, solamente superficiali. Ad esempio, come scrive Gardner: “non voglio vedere mio padre perché mi manda a letto troppo presto”, oppure “perché una volta ha detto cazzo”.

La mancanza di ambivalenza è un ulteriore elemento sintomatico, per il quale il genitore rifiutato è descritto dal bambino come “tutto negativo”, mentre l’altro genitore è visto come “tutto positivo”.

Il fenomeno del pensatore indipendente indica la determinazione del bambino ad affermare di essere una persona che sa pensare in modo indipendente, con la propria testa, e di aver elaborato da solo i termini della campagna di denigrazione senza influenza del genitore programmante.

L’appoggio automatico al genitore alienante è una presa di posizione del bambino sempre e solo a favore del genitore alienante, in qualunque genere di conflitto si venga a creare.

L’assenza di senso di colpa è il sesto sintomo: questo significa che tutte le espressioni di disprezzo nei confronti del genitore escluso, avvengono senza sentimenti di colpa nel bambino.

Gli scenari presi a prestito sono affermazioni del bambino che non possono ragionevolmente venirne da lui direttamente, come l’uso di parole o situazioni normalmente non conosciute da un bambino di quell’età per descrivere le colpe del genitore escluso.

Infine, l’ottavo sintomo è l’estensione delle ostilità alla famiglia allargata del genitore rifiutato, che coinvolge nell’alienazione la famiglia, gli amici e le nuove relazioni affettive (una compagna o un compagno) del genitore rifiutato.

Terapie

Come qualunque altra patologia, anche la PAS può presentarsi, nel momento diagnostico, con differenti livelli di gravità (PAS di grado lieve; di grado moderato; di grado grave) a seconda dell’intensità e dell’efficacia della programmazione. È responsabilità del terapeuta scegliere l’approccio adeguato: a seconda di quanto appropriata sarà (o meno) la terapia scelta, la PAS potrà infatti evolvere:

  • nel senso risolutivo (scomparsa dei sintomi e remissione completa);
  • nel senso migliorativo (con sollievo sintomatologico e remissione parziale);
  • nel senso di una stabilizzazione (in costanza di gravità della sintomatologia);
  • nel senso peggiorativo (aggravamento della patologia, fino allo stato di “morte vivente” – Gardner – della relazione fra genitore alienato e figlio).

Cause

Gli aspetti di genitorialità nelle separazioni potrebbero essere chiaramente definiti, se si potesse comprendere appieno il concetto che, nella famiglia, esistono due “entità di coppia”, distinte per diritti, doveri e responsabilità reciproche: la “coppia coniugale” e la “coppia genitoriale”. Il “conflitto coniugale”, quindi, non necessariamente può (o deve) scatenare anche un “conflitto genitoriale”, ed eventuali contrasti fra le due entità potrebbero essere affrontati con l’ausilio della mediazione familiare. Sono purtroppo le attuali regole che governano l’evento separazione a creare il problema. Per governare il mondo degli affetti ci si appoggia ad un “sistema globale degli antagonismi”; a meccanismi di conflitto giudiziario; ad una “verità processuale” con tanto di parte vincente contrapposta a parte soccombente. L’istituto dell’affido monogenitoriale, così largamente utilizzato nel passato con il 90% di affidamenti esclusivi alla madre, è un elemento che rafforza la prospettiva in termini di vincitore e vinto. Gli effetti della nuova legge sull’affido condiviso dei figli sono (al settembre 2006) tutt’ora da verificare. Anche se l’affidamento ad un solo genitore pare, in alcune regioni italiane, una soluzione ormai residuale, esiste comunque spesso la figura di “genitore residente”.

Nel contesto giudiziario e, più in generale, all’interno del “sistema globale degli antagonismi”, i figli assumono spesso il ruolo dei civili inermi in una guerra di dominio: veri sconfitti di una visione ideologica che individua un nucleo coniuge/genitore/figli nel ruolo della vittima ed il coniuge/genitore soccombente nel ruolo del carnefice violento e crudele. Un distacco dalla realtà degli affetti genitoriali, che può scatenare la Sindrome di Alienazione Genitoriale quando un genitore arriva a percepire i figli come non-persone: come mezzi, cioè, per acquisire maggior potere nel conflitto, oppure come strumento per dare sfogo e soddisfazione a sentimenti di rabbia e disagio propri della sola “coppia coniugale”. È il passaggio all’atto, il superamento della percezione e la perdita dei confini del sé, l’uso diretto dei figli come arma nel conflitto della “coppia coniugale”, uno dei fattori che può portare all’insorgenza della PAS.

Dott. Rosalia Cipollina

AGGRESSIVITA’ INFANTILE

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RICHIESTE DI CONSULENZA

martina Età: 37 Vorrei sapere come posso interpretare e correggere il comportamento di mio figlio 5 anni. sembra molto calmo e ha attegiamenti di sfida verso la maestra dell’asilo e talvolta verso di me. con le cattive non risolvo nulla se invece gli vado dietro con calma riesco adottenere qualcosa. la maestra mi dice che spesso risponde male lo mette in castigo ma lui se ne frega come posso atteggiarmi? grazie

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nichi Età: 55 Salve, sono una nonna un po preoccupata per il nipotino di 3 anni. Da quando aveva 5, 6 mesi ha avuto manifestazioni di irritabilità, per esempio ci afferrava gli occhiali, il telefonino , igiocattoli e li buttava a terra, o li lanciava, passerà abbiamo pensato, invece continua a farlo e in più rovescia i cassetti, sbatte tutto per terra, lancia calci,il tutto con rabbia, con forza. E’ in continuo movimento dalla mattina alla sera. La famiglia di mio figlio è composta dalla moglie,e da una sorellina di 7 mesi, che però giulio non maltratta fortunatamente, anche se all’inizio ha mostrato un pò di gelosia facendosi la pipi addosso, mia nuora e mio figlio hanno un atteggiamento conciliante verso questo bambino, gli lasciano fare tutto, lo rimprovarano pochissimo, dicono che assomiglia alla mamma quando era piccola. So che non devo immischiarmi, ma sono preoccupata e con me il nonno, e la zia, sara una questione di educazione o il bimbo ha qualche problema? La ringrazio la saluto una nonna ansiosa

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lori Età: 6 Salve, sono la mamma di un bambino di quasi 6 anni, li compie a fine marzo. Il bambino ha iniziato a frequentare proficuamente la prima elementare. Il problema è questo: a casa, o a scuola, quando mio figlio si arrabbia o pensa che gli venga fatta un’ingiustizia si comincia a dare dei pugni in testa, o dei calci alle caviglie, e una volta ha sbattuto la testa per terra. Inizialmente mi arrabbiavo, poi gli ho cominciato a dire che forse lui doveva fare degli esercizi di respirazione per calmarsi quando sentiva arrivare la rabbia. Sicuramente è un problema di aggressività ma come posso aiutarlo senza farlo sentire a disagio? Grazie delle Vostre risposte

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L’aggressività infantile è una problematica abbastanza ricorrente nei bambibi odierni ed è legata, principalmente, all’intolleranza verso le frustrazioni. Spesso, però, è il sintomo di un disagio ben più profondo o è una richiesta d’attenzione. Quando l’aggressività si manifesta in maniera forte ed intensa potrebbe anche essere il sintomo di una psicopatologia. In ogni caso prima ancora di punire e reprimere bisogna ascoltare non solo ciò che il bambino dice a livello verbale ma che tutto quello che non dice.

Riflettete su questi versi:

“Dici:

è faticoso frequentare i bambini.

Hai ragione.

Aggiungi:

perchè bisogna mettersi al loro livello,

abbassarsi, scendere, piegarsi, farsi piccoli.

Ti sbagli.

Non è questo l’aspetto più faticoso.

E’ piuttosto il fatto di essere costretti a elevarsi

fino all’altezza dei loro sentimenti.

Di stiracchiarsi, allungarsi, sollevarsi

sulle punte dei piedi.

Per non ferirli.”

Janus Korczak

Dott.ssa Rosalia Cipollina

IL DRAMMA DEL GAMBERO

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Winnicott affermava: “Il gioco ha uno spazio e un tempo. Non è al di dentro, in alcun senso del termine, né è al di fuori, nel senso che non è parte del mondo ripudiato, del non-me, di quello che l’individuo ha deciso di riconoscere (Dio sa con quale difficoltà e con quale sofferenza) come veramente esterno… E’ un’esperienza vissuta in una continuità di spazio-tempo, una modalità fondamentale del vivere”.

Il gioco allora si pone come fattore essenziale e congeniale per uno sviluppo globale e armonico dell’uomo: sappiamo infatti come i bambini che non hanno la possibilità di sviluppare pienamente la propria dimensione ludica subiscono un arresto dell’evoluzione affettiva, psicomotoria, relazionale proprio perché il gioco investe categorie esistenziali quali la corporeità, la temporalità, la spazialità.

Gli elementi essenziali per il gioco nel bambino (come nell’adulto) sono:

  • a) i giocattoli; devono essere adatti all’età e allo stadio di crescita e di sviluppo. Non devono essere troppo pochi, perché in questo caso il bambino non sarà sufficientemente stimolato, né troppi, perché egli si troverebbe confuso e incapace di concentrare l’attenzione.
  • b) lo spazio di gioco; ogni bambino deve anche possedere un piccolo “territorio” personale che egli sa essere unicamente suo e che costituisce quindi per lui una base sicura e familiare.
  • c) il tempo di gioco; esso deve essere sufficientemente tranquillo e prevedibile. Dovrebbe essere di una lunghezza tale da permettere al bambino di portare a termine l’attività in cui è momentaneamente interessato
  • d) i compagni di gioco;
  • e) l’imprevedibilità; il gioco è anche il contenitore di eventi che nascono dalle continue sperimentazioni con gli oggetti, con le persone e con i fatti. Chi gioca non può conoscere quello che succederà. Il concetto è semplice: se un giocatore conosce come si svolgeranno gli eventi, se sa già la soluzione non vuole più giocare.

Se si ha bisogno di costruire un gioco, se si vuol giocare noi stessi, bisogna porsi in un terreno da esplorare, uno spazio nuovo dove sia data la possibilità di muoversi e agire, diversamente se ne va gran parte del significato ludico che sottostà al bisogno di giocare.

Concludo con le parole di Winnicott “…importante caratteristica del giocare è che mentre gioca e, forse soltanto mentre gioca, il bambino o l’adulto è libero di essere creativo, di fare uso dell’intera personalità ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il Sé”.

Dott.ssa Rosalia Cipollina

PSICOANALISI INFANTILE

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A. Freud , Il trattamento psicoanalitico dei bambini

Le prime difficoltà le incontriamo già nel costruire la storia della malattia in base ai ricordi consci del paziente. Nel caso di un paziente adulto ci asteniamo, di norma, dal raccogliere informazioni dalla famiglia e facciamo affidamento esclusivamente sulle notizie che egli stesso ci può fornire. Questa limitazione, che ci imponiamo di proposito, di solito è motivata con il fatto che le informazioni date dai familiari sono perlopiú inattendibili e lacunose perché falsate da una concezione troppo personale e soggettiva della personalità del malato. Ma il bambino non ci sa dire granché sulla storia della sua malattia. Finché non gli si viene in aiuto con l’analisi, egli non è in grado di risalire con la memoria molto addietro nel tempo. Egli è cosí assorbito dal presente che per lui il passato quasi svanisce. Non saprebbe dire da quanto tempo ha incominciato a essere fuori della norma e diverso dagli altri bambini. Non ha bastante maturità per paragonarsi con gli altri e ancora meno è in grado di porsi spontaneamente dei compiti con cui le sue insufficienze possano misurarsi. Quindi l’analista infantile ricava in effetti la storia della malattia del piccolo paziente da ciò che gli dicono i genitori e non può fare altro che tener conto delle eventuali imprecisioni e deformazioni, dovute a motivi di ordine personale.

L’interpretazione dei sogni, invece, ci offre un campo che è di competenza tanto dell’analisi infantile quanto dell’analisi dell’adulto. Nel periodo dell’analisi il bambino sogna né piú né meno dell’adulto e la trasparenza o l’oscurità dei contenuti onirici sono regolate nell’uno come nell’altro dall’intensità della resistenza. I sogni del bambino sono certamente piú facili da interpretare, anche se non sono sempre cosí semplici come gli esempi forniti nell’Interpretazione dei sogni. Vi troviamo tutte le deformazioni dei desideri insoddisfatti corrispondenti alla complicata struttura nevrotica del piccolo paziente. Ma è facilissimo farne capire l’interpretazione al bambino. Quando un bambino mi racconta il primo sogno gli faccio notare che il sogno non può nascere dal nulla, che esso ricava evidentemente i suoi elementi da qualche parte; e mi metto con lui alla ricerca di dove provengano. Egli si diverte a rintracciare i vari elementi come in un gioco di incastri e ritrova con molta soddisfazione le immagini o le parole del sogno nei fatti della sua vita reale. Forse questo avviene perché il bambino è piú vicino dell’adulto al mondo dei sogni o forse non si stupisce di trovare un significato nel sogno perché non ha mai sentito sostenere scientificamente la teoria che i sogni non hanno significato. In ogni caso, se l’interpretazione riesce, ne è molto fiero.

[…]

Nell’analisi infantile, accanto all’interpretazione dei sogni veri e propri, ha una grande importanza anche quella delle fantasticherie. Molti dei bambini su cui ho raccolto le mie esperienze erano dei grandi sognatori a occhi aperti, e il racconto delle loro fantasticherie mi è stato di grande aiuto nell’analisi; è inoltre molto facile indurre i bambini di cui si è conquistata la fiducia in altri campi a raccontare le loro fantasie. Le raccontano con disinvoltura, perché evidentemente se ne vergognano meno dell’adulto, che le considera “infantili”. Mentre l’adulto di solito tarda a riferire nell’analisi le sue fantasticherie e lo fa con molte esitazioni, proprio perché se ne vergogna e disapprova la cosa, la loro rivelazione, fatta dal. bambino nei delicati stadi iniziali dell’analisi, è spesso di grande aiuto. Gli esempi che citerò sottopongono al lettore tre tipi diversi di fantasticheria.

Il tipo piú semplice è la fantasticheria in quanto reazione a un avvenimento della giornata. La piccola sognatrice di cui ho parlato, per esempio, in un periodo in cui la competizione con i fratelli era della massima importanza per l’analisi, reagí a una supposta ingiustizia con questo sogno a occhi aperti: “ Vorrei non esser mai venuta al mondo, vorrei morire. A volte immagino di morire e poi di nascere di nuovo sotto forma dl animale o di bambola. Ma, se venissi di nuovo al mondo sotto forma di bambola, so bene a chi vorrei appartenere, a una bambina da cui era prima la mia bambinaia, una bambina tanto gentile e buona. Sí, vorrei proprio essere la bambola di questa bambina e non mi importerebbe niente di essere sballottata come si fa con le bambole. Sarei un delizioso bambolotto, mi laverebbero, mi vestirebbero, mi farebbero tutto. La bambina mi preferirebbe a tutte le altre sue bambole, e se anche a Natale gliene regalassero un’altra, io sarei sempre la prediletta. Non vorrebbe mai bene a un’altra bambola come al suo bambolotto .” È superfluo dire che i fratelli sui quali soprattutto si appuntava la sua gelosia erano quelli piú piccoli di lei. Nessuna spiegazione esplicita, nessuna associazione avrebbe potuto rivelare la sua situazione meglio di questa fantasticheria.

[…]

Un altro ausilio tecnico che, accanto all’interpretazione dei sogni e alle fantasticherie, ha spesso una parte di primo piano in parecchie mie analisi infantili, è il disegno: in tre dei casi riferiti esso sostituí addirittura, per un certo periodo, quasi tutti gli altri modi di comunicare.

[…]

Temo però di aver tracciato finora un quadro troppo ideale delle condizioni in cui si svolge l’analisi infantile. La famiglia è pronta a fornire tutte le informazioni necessarie; il bambino dimostra una gran passione per l’interpretazione dei sogni e sforna a getto continuo fantasticherie e una gran quantità di interessantissimi disegni da cui trarre tutte le conclusioni che si vogliono sui suoi impulsi inconsci. Se cosí fosse non si capirebbe perché fino ad oggi si è considerata l’analisi infantile un campo particolarmente difficile della tecnica analitica e perché tanti analisti dichiarino di non riuscire nel trattamento dei bambini.

Non è difficile dare la risposta. Il bambino neutralizza tutti i predetti vantaggi perché si rifiuta di fare associazioni. L’analista è messo quindi in imbarazzo perché con lui non può mettere in pratica lo strumento su cui si fonda la tecnica analitica. Evidentemente è contrario alla natura infantile assumere la comoda posizione sdraiata prescritta all’adulto, eliminare con consapevole volontà tutte le critiche alle idee che affiorano, comunicare tutto senza nessuna esclusione, e in tal modo esplorare l’intera estensione della propria coscienza.

È vero che quando si è riusciti, nei modi che ho descritto, a creare con un bambino dei solidi legami di affetto e a rendersi indispensabili, gli si può far fare qualunque cosa. Quindi qualche volta, esortandolo, si riuscirà a fargli fare delle associazioni, benché solo per breve tempo e per compiacere l’analista. Questo sporadico inserimento di associazioni potrà senz’altro essere di grande aiuto e chiarire a scolte una situazione difficile. Ma avrà sempre il carattere di un aiuto eccezionale, né potrà mai essere una base sicura su cui fondare l’intero lavoro di analisi.

A. Freud, Il trattamento psicoanalitico dei bambini , Boringhieri, Torino, 1972, pagg. 41-42, 44-45, 47-49, 50-51

Dott. Rosalia Cipollina