LA SINDROME DI PROCUSTE: CHI DENIGRA I SUCCESSI ALTRUI

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Il mito greco di Procuste narra che questo personaggio era un locandiere che gestiva una taverna fra le colline di Attica. Lì, offriva alloggio ai viandanti, nascondendo la sua vera natura, tutt’altro che amichevole.

Procuste possedeva un letto dove invitava tutti i viaggiatori a coricarsi. Durante la notte, quando i malcapitati dormivano, ne approfittava per imbavagliarli e legarli. Se la vittima era più alta e piedi, mani e testa le sporgevano dal letto, procedeva a tagliarli. Se la persona era più bassa, la stirava, rompendole le ossa per far quadrare le misure.

Questo personaggio oscuro perpetrò le sue azioni macabre per anni, finché non giunse un uomo molto speciale: Teseo. Come sappiamo già, questo eroe aveva acquisito fama per aver affrontato il Minotauro dell’isola di Creta e per esser diventato in seguito il re di Atene. Si narra che, quando Teseo scoprì ciò che quel sadico faceva di notte, decise di sottoporre Procuste allo stesso supplizio che imponeva a tutte le sue vittime.

Da allora, si è diffuso un avvertimento a titolo di proverbio che recita quanto segue:
“Fa’ attenzione, ci sono persone che, quando vedono che hai idee diverse o che sei più brillante di loro, non ci pensano due volte a metterti sul letto di Procuste”

Chi è affetto da sindrome di Procuste ha un’invidia aggressiva celata nei confronti degli altri in ambito affettivo, sportivo, politico o lavorativo.

Quando si trovano di fronte ad una persona brillante, intraprendente, creativa e in grado di superarli in più di un aspetto, non esitano a escogitare mille stratagemmi e vili sotterfugi per annullarla, umiliarla e relegarla in un angolo dove smetta di essere “un rischio” e/o dove non può intaccare il loro sentirsi inferiori.
Finchè, come nel mito, non arriva il Teseo che punisce il Procuste della situazione, Teseo può essere la persona stessa che è vittima e ribalta il suo ruolo.

Dott. Roberto Cavaliere

Psicologo, Psicoterapeuta

Studio in Milano, Roma, Napoli e Vietri sul Mare (Sa)

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COME TERAPIA “DOSI DI NATURA” AL POSTO DEI FARMACI

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Il sistema sanitario scozzese ha creato, recentemente, il programma “Nature Prescription” i cui medici che vi aderiranno, raccomanderanno ad alcuni loro pazienti (principalmente quelli affetti da malattie croniche come ansia, depressione, diabete e ipertensione) delle “dosi” di natura, che saranno parte integrante della terapia “tradizionale”. Il programma è gestito dal National Health Service del Regno Unito e dalla Royal Society of the Protection of Birds (Rspb), un ente per la conservazione della natura, e la sua sperimentazione è iniziata in 10 cliniche pubbliche dell’arcipelago scozzese delle isole Shetland.

Il programma, considerato il primo del suo genere nel Regno Unito, consiste in un approccio non farmacologico, ossia nella prescrizione di diverse attività da svolgere all’aria aperta, partendo proprio dal presupposto che la natura possa effettivamente offrire alle persone benefici per la salute, e aiutare a trattare una serie di problemi quali ansia, depressione, diabete, ipertensione, oltre a migliorare il benessere personale. “Esiste una prova schiacciante che la natura abbia benefici per la salute del corpo e della mente”, afferma Karen MacKelvie, responsabile della comunità Rspb. Infatti, commenta Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale e delle cure primarie (Simg) l’idea non è affatto nuova.

“Tutti i medici sanno che praticare in maniera sistematica alcune buone abitudini, come svolgere regolarmente l’attività fisica, migliora il benessere e la salute delle persone”, spiega l’esperto. “Il concetto di vivere la natura, inoltre, va al di là del puro esercizio fisico. La componente naturalistica, infatti, è una parte fondamentale della terapia, perché aggiungendo rilassamento e distensione apporta un miglioramento conclamato delle condizioni psichiche dei pazienti”. Come precisa l’esperto, ormai da anni i medici dispensano consigli e indicazioni non solo a pazienti affetti da patologie croniche come l’obesità, malattie metaboliche, respiratorie e cardiache, ma anche a persone che sono in buona salute. “L’adozione di uno stile di vita attivo dovrebbe essere una norma assoluta per tutti”, spiega Cricelli. “Tra le tante indicazioni, per esempio, c’è quello di ridurre al minimo l’uso della macchina, fare tra i 5 e i 10mila passi al giorno, evitare le zone affollate e ricche di inquinanti”.

A seconda delle stagioni dell’anno, i medici avranno a disposizione un opuscolo e calendario, grazie ai quali potranno dare consigli e suggerimenti ai loro pazienti su quali attività all’aria aperta potrebbero svolgere. Per esempio, durante l’estate i pazienti potrebbero essere incoraggiati a fare passeggiate sulla spiaggia alla ricerca di conchiglie. In primavera, invece, potrebbero esplorare nuovi sentieri o imparare a riconoscere le piante. Nei mesi invernali, i pazienti saranno ancora invitati a uscire, anche se per periodi di tempo più brevi, magari svolgendo attività come il birdwatching o rimanere fermi per alcuni minuti ad ascoltare i rumori dell’ambiente che li circonda. “In definitiva – si legge nell’opuscolo – i pazienti sono invitati a uscire di casa in qualsiasi condizione atmosferica, sentire l’ebbrezza del vento o della pioggia sul proprio viso, per mantenere un collegamento diretto con la natura per tutto l’anno”.

Con questo programma, il National Health Service non sta suggerendo assolutamente che le “dosi” di natura possano in alcun modo sostituire le medicine convenzionali. “Non si tratta assolutamente di una sostituzione della terapia o di una cura per queste patologie croniche”, spiega Cricelli. “Queste attività sono azioni coadiuvanti ai trattamenti, ovvero devono essere intese come uno strumento di aiuto e complementare ai farmaci che, auspicabilmente, porta a migliorare la salute fisica e mentale delle persone”

fonte: https://www.repubblica.it/salute/2018/10/22/news/raccolta_funghi_passeggiate_e_giardinaggio_i_medici_ora_prescrivono_dosi_di_natura-209194658/?ref=fbpr&fbclid=IwAR350vDAso7OB5ujV3VZ-lPo7x9_yPbCOCGg5XZ5sP8Zgr9205EBZ4EU6E4

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I MANUALI DI AUTO-AIUTO IN PSICOLOGIA NON SONO UTILI

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Il ‘self help’, la psicologia ‘fai-da-te’ che dilaga tra gli scaffali delle librerie, sta diventando come una droga, una dipendenza che dà solo l’illusione di migliorarci e di poter fare ciò che si vuole, portando a una condizione di inadeguatezza e sconforto, causa di stress e depressione. Lo spiega in un’intervista all’ANSA Svend Brinkmann, dell’università danese di Aalborg e autore di ‘Contro il self help – come resistere alla mania di migliorarsi’ (Raffaello Cortina Editore).
“La nostra cultura – spiega – chiede il continuo migliorarsi, non importa quanto sei in gamba, non lo sarai mai abbastanza; ciò crea una mentalità depressiva, infatti chi soffre di depressione ha questa idea di non essere all’altezza”.
La regola numero uno oggi è ‘devi stare al passo’, ma il ritmo è troppo accelerato e finisce per generare una sensazione di alienazione rispetto a quel che facciamo. “Le moderne epidemie di depressione e burn out – spiega – ne sono il risultato”.
“Il problema del self-help – continua Brinkmann – è che fa promesse illusorie di felicità e successo seguendo pochi semplici passi, come se l’individuo potesse controllare tutto e se la felicità fosse una scelta, quindi se sei infelice è solo colpa tua. Il self help è come una droga: compriamo un libro di auto-aiuto che dà l’illusione momentanea di funzionare, ma poi ce ne serve un altro e poi ancora, come accade a un tossicodipendente. La ragione per cui sugli scaffali delle librerie abbiamo tanti libri di self-help è probabilmente che nessuno funziona veramente. Bisogna combattere l’illusione di potersi auto-migliorare venduta senza la minima traccia di evidenza scientifica”.
“Accettare i propri limiti e rifiutare il positivismo a tutti i costi aiuta ad apprezzare di più la propria vita, conclude, scegliete un romanzo piuttosto che un libro di self help; i romanzi ti aiutano a vedere la vita umana nella sua complessità e l’impossibilità di controllarla”.(ANSA).

Dott. Roberto Cavaliere

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IL CAMMINO DI SANTIAGO RENDE FELICI E CAMBIA LA VITA

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Si chiama Ultreya, come l’esortazione che si fa ai pellegrini per andare avanti e proseguire sulla strada. Ed è una ricerca promossa dall’Università di Saragozza che per la prima volta vuole misurare gli effetti del Cammino di Santiago sul benessere fisico e mentale. Tutti coloro che intendono partire possono partecipare rispondendo a un questionario e attraverso ulteriori domande – al ritorno e dopo massimo tre mesi – i ricercatori profileranno nel rispetto della privacy gli effetti a breve e lungo termine. Finora sono migliaia le persone che hanno contribuito con le loro esperienze alla ricerca, dalle quali emergono risultati chiari: sì, il Cammino di Santiago cambia la vita in meglio.

È emerso che il percorso stimola alla meditazione inducendo “positivi effetti terapeutici”, e consente di socializzare così come di focalizzarsi sui propri obiettivi. Fa anche aumentare la fiducia verso l’altro, grazie alla solidarietà che si sperimenta sulla via. E aumentano consapevolezza di sé, autostima e possibilità di concentrarsi sul presente. Il ricercatore e psichiatra Javier García Campayo, coordinatore del Master in Mindfulness presso l’Università di Saragozza, parlando al Corriere della Sera dei primi risultati della ricerca ha spiegato quali siano i fattori del benessere emersi con maggiore chiarezza.

Al primo posto la solitudine “perché, anche se il percorso lo si può fare in compagnia, si ripensa ai diversi aspetti della propria vita”. Poi ci sono “la solidarietà, sia con i pellegrini lungo la Via sia negli ostelli e, infine, il dolore fisico che si è dovuto sopportare”.

LIBROTERAPIA: LEGGERE DOSTOEVSKIJ

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Dobbiamo leggere Dostoevskij quando ci sentiamo a terra, quando abbiamo sofferto sino ai limiti del tollerabile e tutta la vita ci duole come un’unica piaga bruciante e cocente, quando respiriamo la disperazione e siamo morti di mille morti sconsolate. Allora, nel momento in cui – soli e paralizzati in mezzo allo squallore – volgiamo lo sguardo alla vita e non la comprendiamo nella sua splendida, selvaggia crudeltà e non ne vogliamo più sapere, allora, ecco, siamo maturi per la musica di questo terribile e magnifico poeta.

Allora, infatti, non siamo più spettatori, non siamo più giudici e degustatori, ma siamo dei poveretti in mezzo a tutti i poveri diavoli dei suoi romanzi, e soffriamo le loro pene, fissiamo anche noi, ammaliati e senza respiro, il vortice della vita, la macina instancabile della morte. E in quei momenti avvertiamo anche la musica di Dostoevskij, il suo conforto, il suo amore, e solo allora sperimentiamo il senso meraviglioso del suo terrificante e spesso così infernale mondo poetico.

Due forze ci afferrano nei suoi libri. La prima è la disperazione, l’accettazione del male, il subire, il non più opporsi alla crudele, sanguinosa durezza e problematicità della natura umana. Di questa morte bisogna morire, quest’inferno deve essere attraversato, se si vuole che anche l’altra voce del maestro, quelle celestiale, giunga fino a noi. La nuda sincerità con cui si confessa che la nostra vita umana è una cosa misera, incerta e forse disperata, è l’indispensabile premessa. Dobbiamo esserci arresi al dolore, abbandonati alla morte, il ghigno infernale della realtà nuda e cruda deve aver raggelato i nostri occhi, prima che si possa essere in grado di accogliere la profondità e la verità dell’altra, della seconda voce.

Hermann Hesse

Dott. Roberto Cavaliere

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IL TEST DELL’OROLOGIO PER DIAGNOSTICARE DISTURBI NEUROLOGICI

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Il test del disegno dell’orologio è un test diagnostico molto semplice da applicare. Il suo scopo è quello di valutare il deterioramento cognitivo dei pazienti ed essere in grado di diagnosticare possibili disturbi neurologici e psichiatrici. Da quando è stato applicato per la prima volta nel 1953, di solito è uno dei test più comuni per identificare la malattia di Alzheimer o altre forme di demenza precoce.

È del tutto possibile che proprio ora, se diciamo che questo test si basa “solo” sul chiedere a una persona di disegnare un orologio le cui lancette compongono l’11 e il 10, più di uno può arrivare a dubitare della sua validità e efficacia diagnostica. Tuttavia, ci sono alcuni aspetti pratici che dobbiamo considerare riguardo a ciò che questo (apparentemente) semplice compito comporta .

Disegna un orologio È così semplice che è quasi incredibile che sia uno dei test più conclusivi nel rilevare i disturbi cognitivi come il Parkinson o l’Alzheimer.
Prima di tutto, devi capire l’ordine richiesto: “disegna un orologio che segna quel tempo”. Più tardi, la persona deve pianificare, prendersi cura delle proprie prestazioni motorie, regolare la propria percezione visiva, il coordinamento viso motorio e la capacità viso costruttiva. Non è niente, infatti, l’efficienza cognitiva richiesta dal test del clock lo rende uno dei test più utili, specialmente se lo confrontiamo con test più complessi, più costosi e meno affidabili.
Uomo con un dito sulla fronte

Test del disegno dell’orologio per valutare un deficit delle capacità cognitive
Questo test è stato sviluppato e applicato per la prima volta nel 1953.Ha cercato di valutare l’aprassia costruttiva (comune nella demenza ) e anche di identificare l’entità delle lesioni della corteccia parietale. A poco a poco, e vedendo la sua efficacia, divenne uno strumento essenziale per diagnosticare il deterioramento cognitivo associato soprattutto alle prime fasi della malattia di Alzheimer.

L’amministrazione di questo test, come abbiamo indicato, è semplice. Tuttavia, questo deve essere guidato e analizzato da uno psicologo esperto, poiché dal test del disegno dell’orologio è possibile identificare vari disturbi, deficit o lesioni cerebrali. Va anche notato: ci sono fino a 15 modi diversi per valutare questo test.

Come viene testato il test dell’orologio?
Generalmente il professionista può scegliere di amministrare il test in due modi:

Disegno dell’orologio mediante istruzioni. In questo caso, al paziente viene dato un foglio bianco dove deve disegnare un orologio che segna 11.10. È importante che la sfera contenga la corretta distribuzione di ogni ora.
In un altro caso, puoi anche chiedere alla persona di copiare il modello di un orologio già disegnato. La copia deve essere esatta: numeri, dimensioni del quadrante, mani …
Quando il paziente termina il test, gli viene chiesto se ha finito e se pensa di aver fatto bene.
E ‘del tutto possibile che chiediamo ora perché si sceglie esattamente l’orologio segna le 11 e 10. Qualcosa di semplice come questo implica che dovrebbero partecipare 2 visuoatencionales emicampi . Richiede anche che la persona segua le istruzioni, che lo capiscano, che ricordino come sono gli orologi, come viene distribuito ogni fuso orario e che pianificano adeguatamente dove ogni mano è.

Come è valutato il test del disegno dell’orologio?
Come abbiamo sottolineato, ci sono molti modi per valutare questo test. Normalmente puoi vedere la sfera, l’ordine di posizionamento dei numeri, l’orientamento , se si trovano all’interno o all’esterno della sfera, se sono solo su un lato o se c’è un eccesso di numerazione. Nel caso di pazienti con disturbi schizofrenici , ad esempio, di solito appare un’ossessione quasi millimetrica per puntare il quadrante ogni minuto, il che rende il disegno una composizione bizzarra, variegata e quasi inintelligibile.

Una diagnosi precoce ci offrirà l’opportunità di sviluppare strategie migliori , applicare trattamenti appropriati con cui offrire cure complete al paziente e una migliore qualità della vita per rallentare il decorso della malattia. Pertanto, il test del disegno dell’orologio rimarrà uno dei migliori strumenti per la rilevazione di questo tipo di malattie.

fonte:https://lamenteesmaravillosa.com/test-del-dibujo-del-reloj-diagnosticar/
Dott. Roberto Cavaliere

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PULIRE LA CASA MIGLIORA L’UMORE ED ALLUNGA LA VITA

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Un recente studio scientifico ha svelato che pulire per bene tutta la casa dà una sensazione di benessere unica. Il nostro corpo comincia a rilasciare endorfine, così da allontanare ansia, stress e renderci meno irritabili e meno tristi. Quindi pulendo casa, puliamo anche le nostre emozioni, ritrovando il buonumore.

La ricerca, condotta da UCL, University College London, ha coinvolto 20mila uomini e donne, 3.200 dei quali sofferenti di ansia o stress. Secondo lo studio un’attività di 20 minuti influenza l’umore: pulire casa, ma anche fare giardinaggio o un’attività fisica anche blanda e tranquilla può migliorare l’umore e la nostra sensazione di benessere.

Anne de Chalvron, giornalista che studia la psicologia negli ambienti famigliari, spiega che dedicarsi alle pulizie di casa è un modo perfetto per ritrovare calma e benessere, per rilassarsi, ma anche una terapia semplice ed efficace per migliorare il nostro stato di salute, come sottolineato anche da altri esperti. Inoltre vedere la casa pulita e in ordine permette alla nostra mente di sentirsi libera da ogni peso e di aprirsi per il futuro.

Non dimentichiamo, poi, che pulire casa può anche aumentare l’aspettativa di vita delle persone, come confermato dall’American Journal of Public Health. Tutto perché mettere in ordine, sistemare, pulire dà alla nostra mente una sorta di equilibrio. E’ come se purificassimo il nostro organismo e il nostro cervello.

Dott. Roberto Cavaliere

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AUGUST BLUES : LA TRISTEZZA DI AGOSTO

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Secondo Stephen Ferrando, direttore di psichiatria al Westchester Medical Center, il cosiddetto “august blues” è simile al “sunday blues”, ovvero alla tristezza della domenica sera, sperimentata alla fine del weekend e prima dell’inizio di una nuova settimana. La differenza, però, è che il malessere di agosto dura un mese intero.

Il sito “Science of Us” ha indagato intorno alla questione, riportando una serie di opinioni sull’argomento. Secondo Ferrando, il lato negativo della “malinconia di agosto”, oltre alla durata, risiede nel fatto che quest’ultima sarebbe in grado di cogliere tutti, sia gli amanti dell’estate, sia quelli che, in genere, non la sopportano e che non vedono l’ora che finisca: i primi probabilmente si sentiranno ansiosi per l’avvicinarsi della fine della loro stagione preferita, i secondi si sentiranno ancora più tesi perché più vicini al loro “traguardo”. Secondo lo psichiatra, in entrambi i casi è probabile che si avverta una specie di senso di colpa o insoddisfazione per non essere riusciti a fare abbastanza durante questo periodo dell’anno, per non essere stati “al massimo” come la stagione e gli stereotipi legati ad essa ci obbligherebbero ad essere.

L’ansia per la fine dell’estate e la tensione per l’inizio di un nuovo anno, rappresentato dal tanto temuto mese di settembre, sarebbe comune ad ogni età. Rachel Annunziato, professoressa di psicologia alla Fordham University, ha spiegato a “Science of Us” che sia i più piccoli sia i più grandi proverebbero sensazioni simili. Per i bambini in età scolare e i loro genitori, ad esempio, agosto è un mese pieno di eccitazione, di aspettative, ma anche di timore. Gli adulti, in generale, pur avendo superato da tempo il periodo scolastico, continuano a vedere i tre mesi estivi come un momento simbolico di transizione verso il nuovo anno: una fase che, vista da questa prospettiva, raggiunge il culmine proprio nel mese di agosto.

Nel caso in cui i sintomi (diminuiti livelli di energia, stanchezza eccessiva, ipersonnia, iperfagia) si presentino in maniera continuativa e con ondate di “esordio-remissione” della durata di almeno due anni, si può parlare di “depressione stagionale” o “sindrome affettiva stagionale”. Secondo lo psichiatra Ferrando, c’è però una differenza tra la depressione sperimentata in inverno e quella sperimentata in estate: quest’ultima è caratterizzata da una maggiore ansia e agitazione ed è dominata dalla necessità per il soggetto di dover fare qualcosa, spesso di indefinito, mentre quella invernale si caratterizza per essere più “vegetativa”.

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L’ANSIA SAREBBE EREDITARIA

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L’Università del Wisconsin, dopo aver osservato il cervello di 400 primati, attribuisce la ‘colpa’ della maggior parte delle apprensioni e delle preoccupazioni ai geni

Le persone particolarmente ansiose lo hanno a lungo sospettato, ma ora la conferma arriva anche dalla scienza: l’ansia sarebbe ereditaria. Secondo una ricerca condotta dall’Università del Wisconsin a Madison, negli Usa, dunque, la ‘colpa’ della maggior parte delle apprensioni e delle preoccupazioni sarebbe scritta nei geni. Attraverso uno studio, effettuato osservando il cervello di centinaia di scimmie, infatti, è stata identificata la regione del cervello che ne causerebbe i sintomi. Un’area che si trasmette dai genitori ai figli.

L’amigdala crea apprensione nei primati
Basandosi su risultati raccolti da ricerche precedenti, il Dottor Ned Kalin e la sua squadra di ricercatori hanno osservato gli effetti causati dagli stati di ansia, analizzando il cervello di quasi 400 primati. Lo studio, pubblicato di recente sulla rivista JNeurosci, si è concentrato sull’inibizione comportamentale e sui temperamenti ansiosi che appaiono già in giovane età. Il dott. Kalin e il suo team sono così riusciti a individuare le reti cerebrali che ricoprono un ruolo fondamentale nella manifestazione di un comportamento eccessivamente ansioso.
Facendo ricorso a una scansione a risonanza magnetica, è emerso come le scimmie con livelli più elevati di ansia avessero anche una maggiore attività in una precisa area del cervello: l’amigdala. Questa si divide in due parti, il nucleo centrale (Ce) e il vicino nucleo del letto dello stria terminale (BST). In altre parole, la quantità di attività in queste due aree è in grado di determinare quanto ansioso potrà essere un soggetto.
I giovani primati sono stati valutati al loro livello di ansia naturale. Esponendoli a un fattore stressante, rappresentato dalla presenza di un intruso umano, questi hanno reagito in maniera assai differente: quelli più ansiosi sono rimasti quasi immobilizzati davanti al pericolo.

I primati scelti per l’esperimento erano tutti legati da una sorta di grado di parentela. Questo ha permesso ai ricercatori di calcolare quanto il manifestarsi di stati d’ansia sia ereditario e quanto si abbini o meno al cambiamento dell’attività cerebrale. Come spiegato dagli stessi autori, i livelli di connettività tra Ce e BST sono fortemente ereditabili: “Le analisi hanno dimostrato che la connettività funzionale Ce-BST e il temperamento ansioso sono trasmessi insieme all’albero genealogico”.
Si tratta dunque di una scoperta assai interessante anche in prospettiva futura. Poiché l’ansia nell’infanzia è in grado di predire la salute mentale in età avanzata, capire come si sviluppi potrebbe impedire che quest’ultima peggiori ulteriormente nel corso del tempo.

Ciò non toglie che anche se è provata un origine ereditaria dell’ansia, i fattori ambientali possono ridurre o amplificare l’influenza dell’ereditarietà e le varie forme di psicoterapie che curano l’ansia si muovono in tale direzione.

Dott. Roberto Cavaliere

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DIPENDENZA DA VIDEOGIOCHI E DEFICIT DI ATTENZIONE E IPERATTIVITA’

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Uno studio condotto dai ricercatori della Loma Linda University, conferma che il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Adhd) è associato all’uso smodato dei videogiochi. La ricerca dell’università californiana, “Video game addiction, Adhd symptomatology, and video game reinforcement”, pubblicata lo scorso 6 giugno sull’American Journal of Drug and Alcohol Abuse, rileva, infatti, l’associazione tra gravità dell’Adhd e gravità della dipendenza da videogame e mostra che il rischio di dipendenza esiste indipendentemente dal tipo di videogioco usato o preferito.

“Il risultato è coerente con la nostra ipotesi e con una ricerca precedente, e suggerisce che le persone con maggiore gravità dei sintomi di Adhd possono essere maggiormente a rischio di sviluppare abitudini di gioco problematiche”, ha affermato Holly E. R. Morrell, professoressa della Loma Linda University School of Behavioral Health e ricercatrice principale del progetto.

Lo studio è uscito nel periodo in cui la dipendenza da videogiochi è stata riconosciuta un problema di salute pubblica internazionale. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha aggiunto la voce “gaming disorder” nell’undicesima edizione della Classificazione internazionale delle malattie (International Classification of Diseases), pubblicata il 18 giugno.

L’esito di ricerche precedenti ha mostrato che il 23% dei giocatori di videogame presentavano sintomi di dipendenza tali da produrre effetti negativi su salute, benessere, sonno, studio e socializzazione.

Nella ricerca della Loma Linda University, il numero di ore trascorse a giocare è stato associato alla gravità della dipendenza. I maschi hanno mostrato maggiore gravità di dipendenza rispetto alle femmine. La prof.sa Morrell e il suo team hanno testato circa 3.000 giocatori tra i 18 e i 57 anni. L’età non costituiva un fattore di studio.

Esperta nel campo della dipendenza, la prof.sa Morrell ha pubblicato di recente uno studio a più mani, intitolato “Cyberpsychology, Behaviour e Social Networking”, in cui descrive alcuni dei rischi associati alla dipendenza da videogame: problemi di salute fisica e mentale, ma anche sociali e di operatività professionale.

Dott. Roberto Cavaliere

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